5
INTRODUZIONE
La relazione fra liberalizzazione e crescita è stata oggetto di un numero crescente di
analisi negli ultimi decenni. L’attenzione di eminenti economisti si è concentrata su
questo argomento nel tentativo di stabilire quale sia il nesso che lega queste variabili ed
al fine di determinare se l’apertura dell’economia ai mercati internazionali costituisca la
panacea ai mali del sottosviluppo. Tuttavia, fin dal principio occorre sottolineare le
numerose difficoltà incontrate negli studi finora condotti.
Nel primo capitolo, dunque, affronteremo il complicato compito di definire che cosa si
intenda per liberalizzazione del mercato delle merci e come sia stata finora misurata. In
apparenza risulta banale definire l’apertura commerciale come l’assenza di barriere al
commercio internazionale, ma, come dimostreremo, non solo sorgono complessi
problemi di misurazione, ma addirittura non si è ancora raggiunto un accordo fra gli
studiosi in merito alla definizione da adottare.
Nel secondo capitolo, osserveremo l’evoluzione dei modelli teorici ideati al fine di
comprendere la relazione fra liberalizzazione e crescita. Accantoneremo i problemi di
misurazione empirica e ci concentreremo su quali parametri siano stati esaminati dagli
economisti nel corso della storia al fine di determinare l’impatto dell’apertura
commerciale sulla performance economica. Inoltre, potremo osservare quali cambiamenti
sono stati apportati ai primi modelli allo scopo di garantire una maggiore aderenza e
verosimiglianza rispetto alla realtà.
Nella seconda parte dell’elaborato, ci soffermeremo a commentare i risultati dei
principali studi empirici sulla relazione fra liberalizzazione e crescita. In primo luogo,
analizzeremo i casi in cui si è evidenziata una correlazione positiva, evidenziando i limiti
e i possibili errori connessi alla procedura di analisi seguita. In secondo luogo,
valuteremo i casi in cui la liberalizzazione ha un effetto ambiguo, ovvero in base alle
condizioni di implementazione o al contesto socio politico potrebbe avere avuto un
impatto positivo o negativo sull’economia. Infine, considereremo i casi studio da cui
6
emerge che la liberalizzazione sembra aver nuociuto alla crescita e pare aver contribuito a
peggiorare le condizioni già precarie di Paesi in via di sviluppo.
Nel quarto ed ultimo capitolo, studieremo attraverso quali canali la liberalizzazione
effettivamente influenza la performance economica. Valuteremo l’importanza di aspetti
economici, quali le importazioni, le esportazioni e gli investimenti esteri diretti. Terremo
in considerazione anche caratteristiche sociali e istituzionali, fondamentali nel garantire
l’ambiente adatto per il buon esito di importanti riforme economiche e commerciali. I
risultati principali saranno infine riassunti in una sezione conclusiva.
7
Capitolo primo
IL PROCESSO DI LIBERALIZZAZIONE
Gli studi sulla relazione fra l’apertura al commercio internazionale e la crescita
economica dedicano ampio spazio alla definizione del concetto di liberalizzazione.
Contrariamente a quanto si può comunemente pensare non è ancora stata coniata una
definizione semplice e precisa del concetto univocamente accettata. Per far maggiore
chiarezza, in questo capitolo cercheremo inizialmente di ripercorrere come, nel corso
della storia, si sia caratterizzata l’apertura dei commerci: con quali termini è stata
descritta e in quali forme è stata realizzata.
Procederemo quindi ad un’analisi di alcuni degli indici di misura finora utilizzati dagli
economisti per misurare l’impatto dell’apertura dei commerci internazionali. Infine, ci
soffermeremo sui principali problemi metodologici legati all’analisi della relazione fra la
liberalizzazione e la performance economica. Mostreremo quanto sia complicato
costruire un indice in grado di cogliere in modo accurato la portata della liberalizzazione
anche a causa della mancanza di dati attendibili per un numero piuttosto elevato di Paesi.
Indicheremo le possibili critiche e le principali correzioni formulate sugli indicatori, in
maniera da fornire un quadro completo del contesto in cui si colloca il dibattito. Tuttavia,
occorre fin d’ora ricordare che a causa delle difficoltà di natura tecnico-metodologica,
rimangono delle ombre sull’impostazione dell’analisi della relazione per cui non si può
escludere con certezza il rischio che l’impostazione soggettiva dello studioso abbia in
alcuni casi influenzato la ricerca. Daremo conto del dibattito su questo punto nei capitoli
successivi.
8
1.1 Definizione del concetto di liberalizzazione
Definire in maniera chiara e precisa che cosa si intenda per apertura dei commerci ai
mercati internazionali è un compito assai arduo, dal momento che nella letteratura finora
prodotta non si trova una definizione precisa e largamente condivisa come dimostra il
proliferare degli indici sorti per misurare il grado di apertura commerciale di un dato
Paese. Per chiarire il significato del termine, proponiamo di ripercorrere come, di volta in
volta, il termine sia stato definito nel corso degli ultimi anni dai principali studiosi in
materia.
Nel 1978, Ann Krueger
1
discute quali politiche adottare al fine di ridurre le distorsioni
nel settore delle esportazioni in modo tale da raggiungere un livello più elevato nel grado
di liberalizzazione dei commerci. Piuttosto che in base all’assenza di restrizioni al
commercio, Krueger valuta il grado di liberalizzazione raggiunto in base a due distinti
parametri: in primo luogo, in base ai prezzi relativi dei beni sul mercato internazionale e,
in secondo luogo, in base al tasso di cambio effettivo, ossia al tasso di cambio al netto di
qualsiasi tassa o tariffa sui beni commercializzati internazionalmente. In particolare, è
interessante notare che secondo la definizione di apertura commerciale di Krueger,
l’economia di un Paese può essere considerata completamente aperta sebbene vengano
adottate politiche protezionistiche, come nel caso in cui si applichi un tasso di cambio
favorevole alle proprie esportazioni ed al contempo vengano elevate barriere tariffarie per
disincentivare le importazioni dall’estero.
Un’interpretazione differente viene suggerita da Harrison
2
, secondo cui il concetto di
apertura commerciale dovrebbe essere, invece, associato all’idea di neutralità.
Un’economia viene pertanto definita aperta se si verifica la seguente ipotesi: risparmiare
un’unità nel tasso di cambio con l’estero, attraverso l’adozione di politiche di import
substitution, è ritenuto indifferente rispetto a guadagnare un’unità nel tasso di cambio con
1
Si veda Krueger A. O., Foreign Trade Regimes and Economic Development: Liberalization Attempts and
Consequences, Ballinger, Cambridge MA, 1978.
2
Si veda Harrison A., Openness and Growth: A Time-Series Cross Country Analysis for Developing
Countries, in “Journal of Development Economics”, 1996, vol. 48, pp. 419-447.
9
l’estero attraverso la promozione delle esportazioni. Sembrerebbe, dunque, che in
quest’ottica non si debba considerare neutrale un sistema in cui le esportazioni vengano
favorite con degli incentivi statali quali, ad esempio, i sussidi alle esportazioni. Tuttavia è
prudente evitare conclusioni precipitose: Harrison, infatti, attenua la definizione di
apertura, sostenendo che nonostante l’intervento governativo in alcuni settori, l’economia
può comunque essere considerata in linea generale aperta. Dal confronto fra le opposte
posizioni di Krueger e Harrison si deduce che una buona misura delle politiche
commerciali deve cogliere le differenze fra un regime tariffario neutrale ovvero orientato
alla promozione delle esportazioni o alla tutela delle produzioni nazionali.
È importante altresì considerare che a partire dalla metà degli anni ottanta il concetto di
apertura è stato associato nella letteratura al concetto di libero scambio, inteso come un
regime commerciale in cui ogni genere di distorsione al commercio è eliminata. In
conseguenza di questa varietà di indici, nelle analisi empiriche è doveroso definire in
maniera precisa a quale interpretazione di apertura si fa riferimento dal momento che alle
diverse misurazioni del livello di apertura sono collegati specifici canali per lo sviluppo
economico e determinate implicazioni teoriche in merito alla crescita.
Tuttavia, come riportato da Edwards
3
, in molti studi sperimentali gli autori rimangono
piuttosto vaghi sul punto, non precisando quale concezione di apertura economica
assumano e non individuando nemmeno una misura precisa sull’orientamento
commerciale del Paese studiato. Nella maggior parte dei casi vengono utilizzati numerosi
regressori cross country per testare le teorie sulla crescita endogena e l’influenza delle
diverse politiche commerciali seguite. L’esistenza di una pluralità di indici e’
l’espressione della difficoltà di misurare con precisione l’apertura ai mercati
internazionali. In conseguenza di questo, gli studi che si propongono di valutare l’impatto
della liberalizzazione sulla crescita risultano notevolmente penalizzati da tali
complicazioni.
3
Si veda Edwards S., Openness, Trade Liberalization and Growth in Developing
Countries, in “Journal of Economic Literature” 1993, vol. 31, n. 3, pp. 1358-1393.
10
1.2 L’adozione di politiche liberiste
Nel corso degli anni ottanta e novanta, numerosi Paesi hanno aperto le loro economie ai
mercati internazionali. Nella maggior parte dei casi, per quanto riguarda i Paesi in via di
sviluppo, le agenzie internazionali di sviluppo hanno giocato un ruolo cruciale nel
facilitare l’implementazione di politiche liberiste. La Banca mondiale e il Fondo
monetario internazionale hanno, infatti, offerto i finanziamenti necessari ad attuare le
riforme. In alcuni casi, tuttavia, i Paesi si sono affacciati sulla scena internazionale in
maniera indipendente, senza godere di alcun supporto esterno. I Paesi industrializzati,
riuniti in organizzazioni regionali quali il North America Free Trade Agreement
(NAFTA), l’Unione europea (UE) e l’Asia Pacific Economic Cooperation (APEC),
hanno implementato politiche liberiste sotto la guida preponderante dell’Organizzazione
mondiale del commercio (WTO).
Data la diversità delle esperienze, può risultare azzardato formulare generalizzazioni in
merito al processo di liberalizzazione: il contesto sociale, politico ed economico varia
considerevolmente da Paese a Paese e conseguentemente le strategie di sviluppo adottate
differiscono in base all’ambiente circostante. Inoltre, è opportuno ricordare che spesso, al
fine di aumentare il grado di competitività, il processo di liberalizzazione è stato
accompagnato dall’implementazione di altre riforme come quelle del sistema fiscale, del
diritto commerciale, dell’apparato politico amministrativo e del sistema scolastico.
Pertanto, è complicato scindere gli effetti delle diverse politiche e analizzare
esclusivamente come le politiche commerciali siano state adottate e quali effetti abbiano
prodotto.
Sebbene, quindi, sia difficile indicare un percorso comune a tutti i Paesi che hanno
seguito un processo di liberalizzazione, è possibile tuttavia individuare due distinte
strategie adottate per aprire i mercati agli scambi internazionali. In primo luogo,
consideriamo l’approccio favorito dalla Banca mondiale, definito di aggiustamento dei
prezzi e che ha goduto di un’ampia diffusione. Questa strategia prevede che inizialmente
si eliminino le distorsioni al tasso di cambio realizzate attraverso strategiche svalutazioni
o artificiali fluttuazioni del tasso di cambio. In seguito, sono rimosse le barriere non
11
tariffarie alle importazioni che vengono eventualmente sostituite con dazi doganali.
Questi ultimi vengono raggruppati in un numero ristretto di categorie e viene limitata la
variazione del valore dei dazi in maniera tale da assicurare una sufficiente armonia nelle
tariffe. Successivamente, al fine di stimolare una maggiore competitività dei mercati,
viene abolito l’obbligo di licenze per l’importazione della maggior parte dei prodotti,
vengono privatizzati i settori che in precedenza godevano della protezione di un
monopolio statale e si eliminano i sussidi alle esportazioni. Infine, si completano le
procedure per diventare membri del Wto, aumentando il grado di trasparenza dei processi
decisionali riguardo alle scelte di politica economica commerciale e implementando le
ulteriori riforme richieste dall’organismo
4
.
Considerati i gravi costi sul piano sociale e politico che questa strada comporta, molti
Paesi hanno preferito adottare una soluzione alternativa. Questa, per quanto parziale,
risulta maggiormente accettata dalla popolazione e pertanto più facilmente sostenibile per
i governi. Per attuare questa seconda strategia vengono seguiti due diversi approcci: o
vengono costituite delle zone di protezione delle esportazione (EPZ) oppure vengono
mantenute le tariffe doganali relativamente elevate compensando le penalizzazioni alle
esportazioni attraverso sussidi e/o con un sistema di dazi alle importazioni. Queste misure
non sono mutuamente escludibili, a differenza di quanto talvolta sostenuto nella
letteratura, ma, al contrario, generalmente sono utilizzati in maniera complementare. Nel
primo caso, con le zone di protezione alle esportazioni, si istituisce un’area geografica,
tipicamente limitata ed in prossimità di un porto o del confine di stato, in cui le
importazioni di beni sia intermedi che capitali possono entrare sgravate da dazi doganali.
Tuttavia, questi beni non possono essere liberamente trasportati al di fuori della zona di
protezione delle esportazioni, ma devono necessariamente essere inglobati come input in
beni finali per poter essere esportati senza pagare alcun dazio. Inoltre si possono
concedere delle agevolazioni per quanto riguarda il regime di assunzione e di retribuzione
salariale dei lavoratori. Parallelamente, la proprietà privata viene maggiormente tutelata e
gli obblighi legali in materia di diritto del lavoro vengono allentati.
4
Si veda Nugent J. B., Trade Liberalization: Winners and Losers, Success and Failures, Forum Series on
the Role of Institutions in Promoting Economic Growth, Forum n. 3, http://www.usaid.gov, 2002.
12
In questo modo, seguendo una simile strategia, un Paese può sviluppare le esportazioni,
accrescere i guadagni dal tasso di cambio ed espandere la produzione di beni
manifatturieri senza smantellare il sistema di import substitution fino ad allora seguito.
Occorre, in ogni caso, considerare che sono necessari ingenti investimenti in
infrastrutture per garantire il successo delle zone di protezione alle esportazioni,
nonostante gli esperti della Banca mondiale
5
sottolineino la possibilità di ridurre i costi
concentrando gli interventi per migliorare le telecomunicazioni, potenziare le risorse
energetiche, velocizzare i trasporti solamente nelle zone di tutela alle esportazioni e non
cercando di diffonderle in tutto il Paese, dal momento che i costi lieviterebbero
eccessivamente.
Mentre nel caso delle zone di promozione delle esportazioni si cerca una transizione,
seppure limitata, verso un sistema maggiormente liberista, nel caso di un sistema di
rimborsi per i dazi doganali pagati (duty drawbacks system) vengono conservati i lacci al
commercio dal momento che, almeno nel breve periodo, si scarta la prospettiva di ridurre
il livello di protezioni al mercato interno e, al contrario, ci si muove nella direzione
opposta adottando una serie di misure che danneggiano le esportazioni. Ad esempio, si
conserva un regime protettivo caratterizzato da una pesante tassazione sui beni intermedi,
indipendentemente dal fatto che questi siano importati o prodotti internamente, e si
promuove il ricorso a barriere non tariffarie e a dazi anti dumping. Così facendo i costi di
produzione lievitano e di conseguenza il prezzo finale non risulta più competitivo sul
mercato mondiale. Fornire dei rimborsi per i dazi pagati sulle importazioni aiuta a ridurre
le distorsioni alle esportazioni, ma non le elimina completamente dal momento che il
meccanismo risulta farraginoso e complicato. Infatti, spesso si incappa in pesanti ritardi
ed in notevoli costi amministrativi per la riscossione dei rimborsi. Inoltre non sempre i
risarcimenti sono fruibili come nel caso in cui i beni soggetti a tassazione siano stati
prodotti internamente. Infine, i ristorni non possono compensare i produttori per i
maggiori costi sopportati in conseguenza della presenza di barriere non tariffarie e di
monopoli di Stato sulle licenze per l’importazione.
5
Si veda Nugent J. B., op. cit.
13
1.3 I principali indici di apertura al commercio internazionale
Come abbiamo anticipato, per analizzare il rapporto fra liberalizzazione e crescita ci si è
avvalsi di numerosi indicatori al fine di cogliere con la maggiore precisione possibile le
diverse caratteristiche del processo di apertura ai mercati internazionali. Per semplicità
espositiva possiamo raggruppare questi indici in categorie a seconda del modo in cui
vengono costruiti, ovvero in base a quale dei seguenti aspetti ha un ruolo centrale nella
descrizione dell’indicatore:
- Il livello di apertura ai mercati internazionali, misurato in base al volume delle merci
scambiate;
- Il volume degli scambi sui mercati internazionali scontati delle differenze dovute
all’applicazione di diversi regimi commerciali;
- Il livello dei dazi doganali;
- Il grado di incidenza delle barriere non tariffarie, fra le quali si annovera, ad esempio, la
necessità di possedere licenze per importare, la presenza di contingentamenti alle
importazioni, le restrizioni alle importazioni per i beni che non rispettano determinate
caratteristiche;
- Caratteristiche qualitative, misure informali del grado di libertà commerciale insita in
un dato sistema economico;
- Il livello dei prezzi delle merci scambiate internazionalmente;
- Indici compositi, nella cui formulazione si tiene conto di più di una delle caratteristiche
citate.
Queste misure possono essere ulteriormente divise in due gruppi: da un lato, quelle basate
sull’orientamento delle politiche commerciali, ossia sulle scelte di imposizione tariffaria,
dall’altro lato, quelle incentrate sugli effetti delle politiche commerciali, ossia sui volumi
di merci scambiate, indipendentemente dalle politiche tariffarie adottate.
14
Di seguito è riportata una breve descrizione dei principali indicatori finora proposti
nella letteratura.
1.3.1 Indici basati sul volume degli scambi internazionali.
Sebbene esistano diversi indici per misurare il livello di apertura ai mercati
internazionali, come, ad esempio, la misura del tasso di crescita delle esportazioni in un
dato lasso temporale, comunemente nelle indagini empiriche viene utilizzato il rapporto
fra il volume del commercio internazionale, ricavato dalla somma di importazioni ed
esportazioni, ed il volume di ricchezza prodotta, cioè il Pil. È importante rilevare che
tanto le importazioni quanto le esportazioni rientrano nel computo dell’indice. Come
ricorda Edwards
6
, infatti, in un primo momento, la letteratura tendeva a trascurare la
rilevanza delle importazioni e concentrava l’attenzione esclusivamente sulle esportazioni
come fattore di stimolo della crescita una volta avviata la liberalizzazione dei commerci.
L’evoluzione della letteratura su questo punto è ben visibile se si considera che Rodrik
7
ribalta questa posizione sostenendo che i vantaggi principali dell’apertura commerciale
derivano dalle importazioni. Questa affermazione si fonda sulla teoria dei vantaggi
comparati elaborata da Ricardo, in base alla quale grazie all’apertura al commercio
internazionale un Paese è in grado di sfruttare in maniera più efficiente le proprie risorse,
procurandosi attraverso le importazioni i beni e i servizi che sarebbero troppo costosi da
produrre all’interno. Rodrik evidenzia come un Paese possa arricchirsi più facilmente
grazie alle importazioni di strumenti e conoscenze nuove ed innovative. Questo
cambiamento nell’orientamento della letteratura testimonia l’importanza di considerare le
importazioni e le esportazioni come elementi complementari piuttosto che alternativi nel
facilitare lo sviluppo economico.
6
Si veda Edwards S., op. cit.
7
Si veda Rodrik D., The New Global Economy and Developing Countries: Making Openness Work,
Overseas Development Council, Washington DC, distribuito da Johns Hopkins University Press, Baltimore
MD, 1999.
15
Un ulteriore aspetto degno di nota viene rilevato da Harrison
8
: egli sottolinea che
questo tipo di indicatore viene utilizzato in numerose analisi empiriche dal momento che
è definito in maniera chiara e precisa. Essendo facilmente maneggevole, numerosi
studiosi scelgono di avvalersene in maniera tale da evitare eventuali problemi di
misurazione o altre annose complicazioni. Tuttavia, è opportuno ricordare che non si ha
pieno accordo su come stimare il valore delle importazioni, delle esportazioni e del Pil.
Da una parte, infatti, Alcala e Ciccone
9
suggeriscono di valutare le variabili in termini di
parità del potere d’acquisto
10
(PPP). Al contrario, sia Frankel e Romer
11
sia Rodrik et
al.
12
ritengono corretto stimare le variabili in base al tasso di cambio nominale del
dollaro, cioè in base ai prezzi correnti praticati sui mercati internazionali.
Purtroppo nessuno dei due metodi è esente da inconvenienti. La critica all’indice
stimato in termini nominali viene illustrata con un efficace esempio da Alcala e Ciccone:
si considerano due Paesi in cui sono prodotte e scambiate le medesime quantità di beni
ma si ipotizza che nel Paese A il prezzo del bene non commercializzato sia superiore al
prezzo del bene non commercializzato praticato nel Paese B. Per costruzione si ottiene
che il valore del commercio internazionale è identico in entrambi i Paesi, ma il grado di
apertura commerciale del Paese A risulta inferiore, essendo superiore il livello di
ricchezza prodotta stimata in termini nominali. Infatti, se al commercio internazionale si
attribuisce il valore di 100 in entrambi i Paesi e si suppone che i beni per il mercato
8
Si veda Harrison A., op. cit.
9
Si veda Alcala F., Ciccone A., Trade, Extent of the Market and Economic Growth 1960-1996, Universitat
Pompeu Fabra Economic Working Paper n. 765, http://www.econ.upf.edu, 2003.
10
Mediante il tasso di cambio in parità del potere d’acquisto si ottiene una misura più attendibile del Pil pro
capite, ponderata per il reale costo della vita. Mediante una serie di rilevazioni si verifica il livello dei
prezzi di un determinato paniere di beni in diversi Paesi, grazie al confronto fra le misurazioni si calcola
quindi il tasso di cambio in PPP usato per convertire il valore del Pil in termini di valuta corrente in livelli
di ricchezza comparabili sul piano internazionale.
11
Si veda Frankel J., Romer D., Does Trade Cause Growth?, in “American Economic Review”, 1999, vol.
89, n. 3, pp. 379-399.
12
Si veda Rodrik D., Subramanian A., Trebbi F., Institutions Rule: the Primacy of Institutions over
Geography and Integration in Economic Development, NBER Working Paper n. 9305,
http://www.nber.org, 2002.
16
interno vengano scambiati per un valore di 100 nel Paese A e di 50 nel Paese B, allora, il
livello di apertura risulta 0,5 per il Paese A e 0,67 per il Paese B, nonostante il volume di
merci scambiate internazionalmente sia equivalente. Per correggere questa distorsione,
Alcala e Ciccone consigliano di valutare le variabili in parità del potere d’acquisto (PPP)
rispetto al Pil. Al fine di rafforzare la loro tesi, gli autori citano l’esempio di Sala-i-
Martin
13
, il quale nelle ultime analisi cross country ha valutato in termini di parità del
potere d’acquisto le variabile esplicative dei fattori determinanti la crescita economica,
quali l’investimento pubblico e privato, le dimensioni del governo, la spesa pubblica.
Inoltre, Alcala e Ciccone
14
individuano una seconda possibile distorsione collegata alla
misurazione in termini nominali delle variabili. Facendo riferimento all’effetto di
Balassa-Samuelson
15
, ipotizzano che al crescere del commercio internazionale il livello
di specializzazione aumenti producendo di conseguenza un incremento della produttività
particolarmente significativo nel settore dei beni commercializzabili. La maggiore
produttività si tradurrebbe quindi in un aumento dei prezzi relativi dei beni non
commercializzabili e pertanto il valore dell’indice misurato in termini nominali
tenderebbe a diminuire. Il grado di apertura nominale potrebbe, quindi, essere
negativamente correlato con la produttività media del lavoro sebbene il commercio
internazionale favorisca la produttività, stimolando la specializzazione.
13
Si veda Sala-i-Martin, X., I Just Run Four Million Regressions, NBER Working Paper n. 6252,
http://www.nber.org, 1997.
14
Si veda Alcala F., Ciccone A., Trade and Productivity, in “The Quarterly Journal of Economics”, 2004,
vol. 119, n. 2, pp. 613-646.
15
L’effetto di Balassa-Samuelson dipende dalle differenze, esistenti fra i diversi Paesi, nella produttività
nei settori dei beni destinati o meno al mercato internazionale. In seguito all’apertura al commercio
internazionale, il settore del bene oggetto di commercio internazionale registra un tasso di crescita della
produttività superiore rispetto al settore del bene prodotto per il mercato interno e questo determina
l’aumento del prezzo del bene non scambiato internazionalmente. Siccome in termini di PPP i prezzi dei
beni scambiati internazionalmente sono costanti mentre i prezzi dei beni degli altri beni aumentano, l’indice
dei prezzi al consumo sale al crescere della produttività media.
17
Tuttavia, la questione è ancora ampiamente dibattuta: Rodrick et al.
16
, infatti,
contestano ad Alcala e Ciccone di trascurare l’elemento centrale dell’analisi, vale a dire il
fatto che l’ipotesi nulla da testare riguarda la non influenza del commercio internazionale
sulla produttività. Infatti, sotto questa ipotesi, secondo Rodrik et al., misurare le variabili
in parità del potere d’acquisto genera una correlazione positiva fra reddito e apertura
completamente spuria. In vero, qualsiasi aumento della produttività dei beni
commercializzabili, indipendentemente dalla sua origine, produce potenzialmente un
aumento nella misura dell’apertura di Alcala e Ciccone, dal momento che induce un
aumento sia dei prezzi interni dei beni non commercializzati che del livello generale dei
prezzi relativi rispetto ad un’altra economia. Al fine di minimizzare le distorsioni nelle
stime, quindi, Rodrik et al. propongono di misurare le diverse variabili in termini
nominali. Purtroppo, dobbiamo constatare che in merito alla valutazione del commercio
internazionale nessun accordo è stato raggiunto e pertanto la discussione rimane aperta a
nuovi ed ulteriori contributi.
A differenza di Alcala e Ciccone o di Rodrik et al., anziché concentrarsi principalmente
sulle differenti misurazioni della ricchezza prodotta attraverso il commercio, alcuni autori
hanno preferito puntare l’attenzione sulle conseguenze prodotte dall’applicazione di
diversi regimi commerciali al fine di stimare correttamente il peso del commercio
internazionale nell’economia di un Paese. A tal riguardo, é particolarmente interessante
osservare il lavoro di Pritchett
17
il quale ha assunto come misura del livello di apertura
dai commerci lo scostamento dal suo valore atteso del valore della porzione del
commercio internazionale rispetto al Pil. La stima del valore atteso è data dal volume
degli scambi effettuati sul mercato internazionale in un altro Paese con caratteristiche
strutturali simili, preso come punto di riferimento.
16
Si veda Rodrik D., Subramanian A., Trebbi F., op. cit.
17
Si veda Pritchett L., Measuring Outward Orientation in LDCs: Can It Be Done?, in “Journal of
Development Economics”, 1996, vol. 49, pp. 307-335.
18
1.3.2 Indici basati sull’incidenza delle barriere tariffarie e non tariffarie.
Dobbiamo purtroppo evidenziare che gli indici basati sul livello delle tariffe doganali
sono affetti da errori, il più grave dei quali consiste nel fatto che le misurazioni vengono
distorte verso il basso. Infatti, calcolando il rapporto fra i ricavi da imposte doganali e il
volume totale delle importazioni, non vengono computati i beni tassati in maniera così
pesante da disincentivarne l’importazione. Tuttavia, nonostante questi problemi pratici di
misurazione, il loro utilizzo nelle indagini empiriche viene consigliato da Rodriguez e
Rodrik
18
i quali evidenziano il fatto che i risultati di nessuno studio sono finora stati
compromessi da gravi distorsioni connesse all’uso di queste misure. Inoltre, gli autori
aggiungono che non è ancora stato elaborato un indicatore migliore di questo, in grado di
cogliere le limitazioni al commercio internazionale. Infatti, in base al livello
d’imposizione tariffaria medio sulle importazioni e sulle esportazioni, si possono
ragionevolmente ordinare i Paesi in base al grado di restrizioni adottato nell’ambito
commerciale. Va detto per inciso che l’indice a cui Rodriguez e Rodrik fanno
specificamente riferimento è tratto dal World Development Indicators, elaborato dalla
Banca Mondiale.
Sono comunque disponibili ulteriori indicatori, fra cui l’indice utilizzato da Edwards
19
.
Egli considera i ricavi derivanti dall’imposizione fiscale sui beni scambiati
internazionalmente come una proporzione del commercio internazionale totale. Inoltre,
Pritchett
20
stima il livello medio dei dazi applicati alle importazioni ponderandolo sul
volume totale delle importazioni in modo da ottenere una misura della distorsione al
commercio internazionale.
18
Si veda Rodriguez F., Rodik D., Trade Policy and Economic Growth: a Skeptic’s Guide to the Cross-
National Evidence, Macroeconomics Annual 2000, eds. Ben Bernanke, Kenneth S. Rogoff, MIT Press for
NBER, Cambridge MA 2001.
19
Si veda Edwards S., op.cit.
20
Si veda Pritchett L., Measuring Outward Orientation in LDCs: Can It Be Done?, in “Journal of
Development Economics”, 1996, vol. 49, pp. 307-335.
19
Negli studi che cercano di stimare l’effetto delle politiche commerciali sui volumi
effettivamente scambiati sui mercati internazionali, oltre alle tariffe doganali ampio
spazio viene dato alle barriere non tariffarie considerata la loro importanza nel frenare il
commercio internazionale. Purtroppo, anche nel caso delle barriere non tariffarie,
sorgono dei problemi per quanto concerne la robustezza dell’indice dal momento che
generalmente è possibile misurare soltanto la presenza di barriere non tariffarie e non la
loro rilevanza. Non essendo esplicitamente quantificabili, sono di difficile utilizzo,
pertanto spesso non si considera correttamente il loro peso effettivo sul commercio
internazionale, ma soltanto la loro esistenza. Nel tentativo di ridurre questo problema,
Pritchett prende in analisi le misure delle barriere non tariffarie disponibili per quattro
distinti aggregati: i beni agricoli, i beni manifatturieri, le risorse naturali e il volume totale
delle importazioni. L’autore tenta in questa maniera di stimare nel modo più accurato
possibile la frazione di beni soggetta a barriere non tariffarie in modo da poter
ragionevolmente inferire con una buona approssimazione la porzione delle importazioni
soggetta a distorsioni.
Un ulteriore strumento disponibile per calcolare quanta parte del commercio
internazionale è affetta da barriere non tariffarie è fornito dal Barro-Lee data set, che
sulla base dei dati UNCTAD raccoglie i dati sulle importazioni ponderate per la
frequenza delle barriere non tariffarie sui beni intermedi e sui beni capitali.
Infine, ricordiamo che Anderson e Neary
21
hanno costruito un indice delle limitazioni al
commercio internazionale che pretende di riassumere gli effetti sia dei dazi doganali sia
delle barriere non tariffarie. Tuttavia, questo indice ha una portata piuttosto limitata dal
momento che i dati per calcolarlo sono disponibili soltanto per pochi Paesi e dunque non
si può testare con sicurezza l’effettiva validità.
21
Si veda Anderson J. E., Neary P. J., Trade Reform with Quotas, Partial Rent Retention and Tariffs, in
“Econometrica”, 1992, vol. 60, pp. 57-76.