2
Anche se alcuni progetti di riforma costituzionale avevano cominciato a circolare
nel corso degli anni ’60 (si ricordi il messaggio indirizzato alla Camera dal Presidente della
Repubblica Segni nel settembre del 1963), il tema di una <<grande riforma>> riferito sia alla
forma di Stato che di Governo è venuto ad emergere nell’agenda politica italiana soltanto
alla fine degli anni ’70. Gli obiettivi che, attraverso questa riforma, si intendevano, in questa
fase perseguire erano essenzialmente quelli del rafforzamento dei poteri dell’esecutivo (cioè,
come si diceva allora, della <<governabilità>>), da attuare attraverso la razionalizzazione
della forma di governo parlamentare tracciata dalla Carta del 1948 (con la definizione di
meccanismi destinati a favorire la nascita di <<governi di legislatura>>) o attraverso il
passaggio alla forma di governo presidenziale. A quest’ottica, prevalentemente orientata
verso il rafforzamento dell’efficienza e della stabilità delle istituzioni governative, si erano in
passato ispirati i diversi progetti elaborati, oltre che dai maggiori partiti, da taluni ambienti
scientifici (come il progetto del <<Gruppo di Milano>> guidato da Gianfranco Miglio, del
1983) o da sedi istituzionali (come il <<decalogo Spadolini>> del 1982 o le proposte
discusse, in questo stesso anno, dalle Commissioni affari costituzionali della Camera e del
Senato).
Questo movimento ha condotto in sede parlamentare, nell’arco degli ultimi
vent’anni, alla nascita di tre Bicamerali, investite, con procedure e poteri diversi, del compito
di mettere a punto un progetto di riforma costituzionale: la Commissione Bozzi – istituita
con atto interno delle due Camere – che opera tra il 1983 ed il 1985 e adotta un progetto (che
non verrà mai discusso in Parlamento) costruito nel solco del modello parlamentare; la
Commissione De Mita-Jotti – istituita con la l. cost. n. 1 del 1993 – che svolge i suoi lavori
tra il 1992 ed il 1994 (e che non concluderà il suo compito in conseguenza dello
scioglimento delle Camere); e, infine, la Commissione D’Alema – istituita con l. cost. n. 1
del 1997 – la quale arrestava i suoi lavori nel giugno del 1998.
L’attività di queste tre Commissioni veniva, d’altro canto, ad intrecciarsi con
l’elaborazione di altri progetti, quali quelli delineati nei programmi dei Governi che si
succedono negli anni ’80 (si veda, in particolare, per la sua ampiezza, il programma del
Governo De Mita).
Il dibattito sulla riforma costituzionale ha, dunque, attraversato nel nostro Paese le
più diverse congiunture politiche fino ad approdare, con l’inizio degli anni ’90, al centro
della crisi che in questi anni ha investito il nostro sistema politico.
E’ accaduto così che le prospettive di una riforma inizialmente sorta sotto il segno
del rafforzamento della stabilità e dell’efficienza dell’esecutivo abbia progressivamente
3
ampliato la sua sfera di incidenza all’intera forma di Stato e di governo, al sistema delle
autonomie, al complesso delle garanzie costituzionali. Agli obiettivi iniziali si sono, di
conseguenza, sovrapposti altri obiettivi, quali quelli dell’adeguamento del quadro
costituzionale (originariamente impiantato secondo un’ottica rigorosamente proporzionale)
all’introduzione, nel 1993, di un sistema elettorale maggioritario o dell’adattamento della
Carta del 1948 alle modificazioni intervenute, dopo Maastricht ad Amsterdam, nel processo
di integrazione europea.
Ma negli ultimi anni – segnati dalla vicenda della terza Bicamerale – la spinta a
ripartire nel processo riformatore è stata anche, in gran parte, determinata dall’esigenza di
compensare la perdita di legittimazione subita dalla classe politica (e dal sistema dei partiti) a
seguito delle vicende di tangentopoli. In quest’ultimo passaggio la riforma si è venuta,
pertanto a collegare a esigenze più pressanti di quelle emerse in precedenza e che venivano a
investire l’intero quadro degli equilibri politici del Paese. Ma nonostante il variare degli
obiettivi e delle esigenze la riforma ancora una volta è tornata in posizione di stallo.
Le cause che possono concorrere a spiegare questa lunga catena di insuccessi e
questo prolungato stato di impotenza vanno probabilmente ricercate su piani diversi.
Una prima causa è stata da tempo indicata nel paradosso dei <<riformatori-
riformati>>. Chi si richiama a questo paradosso sottolinea il fatto che una riforma destinata
inevitabilmente a produrre attraverso il riassetto degli apparati istituzionali anche una
distribuzione del potere politico non può spontaneamente nascere dalla volontà di questi
stessi soggetti (partiti, forze politiche, gruppi di pressione) destinati ad essere colpiti dalle
conseguenze della riforma e a subire un ridimensionamento della loro sfera di influenza.
Una seconda causa viene, poi, individuata nel particolare stato di parcellizzazione
in cui versa attualmente il sistema politico italiano, stato che, anziché, attenuarsi, si è
ulteriormente aggravato a partire dal 1994 dopo l’abbandono nelle elezioni del sistema
elettorale proporzionale e l’adozione di un sistema a prevalente impianto maggioritario
fondato su collegi uninominali. Le divisioni che oggi caratterizzano il nostro sistema politico
(con la presenza in Parlamento di una ventina di formazioni differenti, aperte alle più diverse
operazioni trasformistiche) rappresenta, infatti, secondo alcuni, l’ostacolo maggiore al varo
di una riforma costituzionale di alto profilo, che non può non fondarsi sulla convergenza di
vaste aree della rappresentanza parlamentare.
A questa causa viene, infine, collegata una terza, che investe direttamente il
tessuto sociale e che emerge nell’assenza, in tale tessuto, della coscienza diffusa della
necessità di una riforma e dei vantaggi che dalla stessa potrebbero derivare ai fini di un
4
miglioramento della funzionalità delle istituzioni e, conseguentemente, della qualità della
vita politica.
Per riprendere il cammino interrotto e superare il blocco che ha impedito sinora a
questa riforma di vedere la luce occorre, dunque, tener conto di alcune premesse.
La prima è che il modello costituzionale tracciato nel 1948, in quanto orientato a
reggere, sotto il segno della democrazia, un sistema sociale e politico caratterizzato da un
tasso molto elevato di disomogeneità, nasceva sotto il segno della garanzia reciproca e,
conseguentemente, della proporzionalità nella distribuzione del peso istituzionale tra le
diverse forze in campo. Su questo piano le scelte dei Costituenti non furono determinate da
motivazioni contingenti, ma dalla necessità di consentire, sulle lunghe distanze il colloquio
tra culture e tradizioni legate a radici tra loro scarsamente permeabili.
La seconda premessa è che questo modello, nonostante la sua apparente fragilità,
ha retto bene la prova della storia consentendo alla democrazia di sopravvivere e
consolidarsi, attraverso la conquista di valori comuni e di una comune identità repubblicana.
Ed è stato proprio il livello di omogeneità raggiunto dal Paese nel corso dell’esperienza
repubblicana a consentire all’inizio degli anni ’90 l’abbandono senza traumi del principio
proporzionalistico ed il passaggio, sia pure incompleto, al principio maggioritario.
La terza premessa da considerare è che la sfera di esercizio della sovranità
nazionale si è andata restringendo nel corso degli anni sotto la spinta del processo di
integrazione europea, che tende oggi a consolidarsi nella definizione di uno spazio
costituzionale comune ai Paesi partecipi di tale processo.
Alla luce di queste premesse si è indotti a ritenere che la riforma costituzionale,
per essere ben radicata nel contesto in cui è destinata ad operare, oltre a registrare tutte le
novità che l’evoluzione del tessuto politico e sociale ha fatto emergere nel corso degli anni,
debba anche darsi cura di non compromettere il <<consolidato>> costituzionale del nostro
Paese, cioè gli approdi di quel percorso cinquantenario che ha condotto a realizzare un
modello di democrazia originale, dove l’insoddisfacente efficienza dei governi è stata
largamente bilanciata dall’espansione delle libertà, delle autonomie, dei meccanismi di
garanzia.
Quindi, partendo da ciò, una lettura ragionevole della nostra storia repubblicana
conduce, innanzitutto, a registrare una riforma costruita percorrendo la via di un’Assemblea
Costituente. La nascita di una Costituente presupporrebbe l’azzeramento del quadro
costituzionale esistente e la sostituzione radicale degli equilibri politici e sociali
consolidatisi, nel corso dell’esperienza repubblicana, intorno alla Carta del 1948. Per
5
un’operazione di questo tipo mancano oggi i presupposti di fatto, in assenza di una
<<rottura>> politica ed istituzionale in grado di giustificare la nascita di un nuovo Stato, in
rapporto di completa discontinuità con la realtà preesistente. Appare, d’altro canto, sempre
più evidente che le vicende istituzionali che si sono succedute in Italia dopo la crisi del 1992,
se hanno introdotto forti elementi di novità nel quadro politico, non sono tali da legittimare la
nascita di una nuova Repubblica su fondamenti diversi da quelli costituiti attraverso il
<<patto costituzionale>> del 1946-47. Su questo piano, la stessa lunghezza del processo di
<<transizione>> che si è aperto nel 1992 concorre a dimostrare come le recenti vicende
istituzionali italiane si siano sviluppate non sotto il segno della <<discontinuità>> bensì in
via incrementale, attraverso adattamenti successivi che hanno condotto ad orientare gli
sviluppi della prassi dentro l’originario modello costituzionale, di volta in volta adattato,
attraverso letture evolutive, alle nuove esigenze.
Dopo tanti tentativi inutili la via più realistica che oggi può essere percorsa resta,
dunque, ancora quella di una riforma condotta attraverso l’impiego degli strumenti della
revisione costituzionali previsti dagli artt. 138-139 della stessa Costituzione e condizionati al
rispetto del nucleo fondante (la forma repubblicana) del disegno tracciato nella Carta del
1948. Questa è stata, del resto, la strada ragionevolmente seguita – dopo il fallimento della
terza Bicamerale – con le riforme da ultimo introdotte, mediante le leggi costituzionali nn. 1
e 2 del 1999, in tema di ordinamento regionale e di <<giusto processo>>.
Ma non v’è dubbio che per attivare un processo di riforma costituzionale di ampio
respiro – ancorché condotto con gli strumenti tradizionali della revisione costituzionale – sia
anche molto importante individuare (e graduare) i punti di attacco più appropriati.
Molti elementi inducono a ritenere che questi punti di attacco vadano oggi
ricercati tanto con riferimento agli equilibri interni del nostro sistema politico quanto con
riferimento al rapporto che si va delineando tra il nostro impianto costituzionale e il quadro
europeo.
Sul primo piano l’obiettivo primario da realizzare investe, ancor prima della
riforma costituzionale in senso stretto, la legge elettorale. E’ certo, infatti, che, fino a quando
l’attuale situazione pulviscolare del sistema politico italiano resterà immutata, sarà anche
impossibile condurre in porto una riforma costituzionale costruita intorno a scelte di largo
respiro e di lunga durata. E’ evidente che, in tale situazione questa possibilità verrà sempre
bloccata dai veti delle forze minori e da considerazioni di opportunità legate alla politica
contingente. Su questo piano l’obiettivo da perseguire passa, dunque, oggi attraverso il
completamento della scelta maggioritaria operata nel 1993, che, almeno sinora, non ha dato i
6
frutti sperati sul piano dell’aggregazione delle forze in campo. E’, d’altro canto, evidente
che, in una situazione complessa quale quella italiana, il percorso da seguire su questo
terreno non potrà che essere graduale e investire livelli diversi così da mettere in gioco,
accanto alla legge elettorale, anche strumenti connessi (quali i regolamenti parlamentari, la
disciplina del finanziamento dei partiti politici, le forme di accesso ai mass media, eccetera)
in un’azione coordinata verso il fine di un efficace funzionamento del sistema politico.
Ma la riforma, infine, per avere successo, dovrà anche valorizzare al massimo il
percorso europeo, legato all’esigenza di allineare il quadro costituzionale interno al contesto
europeo come prefigurato dai trattati di Maastricht ed Amsterdam.
7
Capitolo 1
La forma di governo in Italia
1.1 Definizione di “Governo”
Il termine Governo sta ad indicare nel linguaggio giuspubblicistico
contemporaneo, uno dei tre tradizionali elementi costitutivi dello Stato (accanto al popolo ed
al territorio): vale a dire a dire, l’insieme degli organi che reggono lo Stato stesso
1
.
E’ chiaro, che negli Stati moderni il Governo si articola necessariamente in
numerosissimi organi: dei quali, alcuni, detti costituzionali, sono stati posti al vertice della
sua elaborata struttura, su un piano di reciproca parità giuridica, mentre tutti gli altri si
presentano in una posizione nettamente subordinata rispetto ai primi e vengono, perciò,
definiti organi dipendenti. Fra gli organi menzionati sono, poi, distribuite tutte le diverse
funzioni dello Stato; e, di massima, negli Stati contemporanei – ispirandosi alla ben nota
<<teoria della divisione dei poteri>> – mentre ad un ristretto nucleo dei medesimi (che
costituiscono il Potere legislativo) è conferita la funzione normativa, ad un altro gruppo
d’organi (che formano il Potere esecutivo, con al suo vertice i Ministri) sono attribuite le
funzioni amministrative e di Governo, e ad una terza serie d’organi (che formano il Potere
giudiziario) rimane la funzione giurisdizionale.
Nel suo più ristretto significato, invece, il termine Governo (allora con la G
maiuscola) sta ad indicare quei soli organi che sono preposti ai diversi dicasteri
amministrativi del Potere esecutivo: ossia si allude col medesimo all’insieme dei vari
Ministri. Siffatti elevati organi esecutivi costituenti il Governo nelle forme parlamentari
assumono un rilievo preponderante, poiché – venendo a formare il Gabinetto, sotto la guida
del Presidente del Consiglio – essi costituiscono, di conseguenza, l’organo competente a
delineare l’indirizzo politico generale, alla sola condizione di mantenere continuativamente
la fiducia del Parlamento (mentre al Capo dello Stato resta il delicatissimo compito di agire
da coordinatore ed armonizzatore di tutte le attività pubbliche più elevate, nella veste di
supremo tutore della Costituzione). La Costituzione italiana del 1947 ha conferito al Governo
8
(nel titolo III della sua parte II) una piena autonomia anche nei confronti del Presidente della
Repubblica; di modo che il Governo, oggi, si pone quale vero ed unico organo costituzionale
preposto all’intero Potere esecutivo.
In Italia, inoltre, il Governo si presenta nella veste di un organo complesso nel
senso che esso appare formato essenzialmente: a) dal Presidente del Consiglio spesso
coadiuvato da uno o più vice-presidenti; b) dai vari Ministri, con o senza portafoglio; c) dal
Consiglio dei Ministri, organo collegiale che comprende i precedenti quando essi debbano
agire congiuntamente (art. 92 Cost.). Sotto taluni aspetti, inoltre, possono farsi rientrare nel
Governo della repubblica pure: d) i sottosegretari di Stato; e) gli Alti Commissari e i
Commissari; che, pur non essendo menzionati esplicitamente dalla Costituzione, continuano
a sussistere in forza di leggi particolari.
1
Cfr. P. BISCARETTI RUFFÌA, Governo, in Novissimo Digesto, Utet, 1990.
9
1.2 Struttura del governo
L’art. 95 della Cost., delinea il Governo come un organo complesso; cioè
composto da una pluralità di organi che sono, anch’essi, organi costituzionali: 1) il Consiglio
dei Ministri; 2) i Ministri; 3) il Presidente del Consiglio dei Ministri. Dopo aver elencato i tre
organi che compongono il Governo, l’art. 95 della Costituzione non precisa, però, né il
numero né le attribuzioni dei singoli Ministri; in quanto afferma che deve essere la legge
ordinaria a determinarle <<…..il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei Ministeri>>.
Il fatto che il numero dei Ministeri non sia determinato dalla Costituzione consente che il
numero effettivo dei Ministri di un Governo possa essere maggiore o minore rispetto a quello
risultante dalle leggi.
Ricorre la seconda ipotesi quando uno o più Ministeri siano retti ad interim dal
titolare di un altro ministero (o dal Presidente del Consiglio). Questa prassi è oggi utilizzata
per coprire transitoriamente un ministero rimasto senza titolare per morte o dimissioni del
Ministro.
La prima ipotesi, quella dei Governi composti da un numero superiore a quello
previsto dalle leggi, è, invece, costantemente praticata; in quanto per antica consuetudine
esistono organi di Governo, non necessari e non previsti dalla Costituzione, denominati
Ministri senza portafoglio: Ministri facenti parte a pieno titolo del Governo pur senza essere
posti a capo di un ministero. La proliferazione, spesso non funzionale, dei Ministri senza
portafoglio, la loro incerta responsabilità politica, ha indotto il Parlamento ad innovare
profondamente in questa materia con l’art. 9 della legge n. 400 del 1988. In conformità a tale
articolo, oggi i Ministri senza portafoglio svolgono le loro funzioni su delega del Presidente
del Consiglio.
Una particolare figura di Ministro è costituita dal vicepresidente del Consiglio dei
Ministri. Anche quest’organo deve essere considerato organo costituzionalmente solo
eventuale, non necessario del Governo. Fino all’approvazione della legge n. 400 si è, anzi,
molto discusso sulla legittimità costituzionale del vicepresidente, che la prassi ha introdotto
da alcuni decenni nel nostro ordinamento per il fine, politico, di attribuire particolare
importanza alla partecipazione ad un Governo di quel partito al quale appartiene il
vicepresidente. Oggi l’art. 8 della legge n. 400 non soltanto prevede che il Presidente del
Consiglio possa proporre al Consiglio dei Ministri la nomina di uno o più vicepresidenti, ma
aggiunge che, in caso di nomina di un vicepresidente, <<in caso di assenza o d’impedimento
10
temporaneo>> del Presidente del Consiglio spetta al vicepresidente la supplenza delle
funzioni presidenziali. L’art. 8 è interpretato riduttivamente (Labriola, Paladin) nel senso che
la supplenza non può riguardare che l’ordinaria amministrazione, non la direzione politica
del Governo
2
.
Ancora non fanno parte della struttura costituzionalmente necessaria del Governo,
i sottosegretari di Stato nati in Gran Bretagna, e introdotti in Italia dalla legge Crispina del
1888. A lungo si è discusso su queste figure: se esse potessero essere considerate organi del
Governo; quali funzioni spettassero loro; sul loro numero e sulle loro procedure di nomina.
Anche a questo proposito, è intervenuta la legge n. 400 del 1988 che ha risolto quasi tutti i
problemi, salvo quello del numero dei sottosegretari: che è tradizionalmente eccessivo e
rimane, in base alla legge, indeterminato. Per il resto, la legge ha rafforzato, giustamente, la
figura dei sottosegretari come delegati del Ministro: sia perché, riguardo alle loro funzioni
essi <<…coadiuvano il Ministro ed esercitano i compiti a loro delegati con decreto
ministeriale pubblicato nella Gazzetta Ufficiale….>>, sia perché è, oggi, necessario, per la
loro nomina il concerto del Ministro interessato; in un procedimento che prevede la proposta
del Presidente del Consiglio, l’assenso del Consiglio dei Ministri ed il decreto di nomina del
Presidente della Repubblica
3
.
Sempre della struttura costituzionalmente non necessaria del Governo fanno parte
i commissari straordinari del Governo, che la legge n. 400 ha voluto istituire per realizzare
<<specifici obiettivi>> determinati dal Parlamento o dal Consiglio dei Ministri o per
particolari esigenze di coordinamento tra diverse amministrazioni statali. I commissari sono
nominati con decreto del Presidente della Repubblica per proposta del Presidente del
Consiglio previa deliberazione del Consiglio dei Ministri: nel decreto debbono essere
determinati i compiti del commissario, i mezzi per raggiungerli e il termine della nomina.
Varie leggi ordinarie e la stessa legge n. 400/1988 hanno integrato nel tempo la struttura del
Governo con la previsione di altri organi costituzionalmente non necessari, denominati
Comitati interministeriali fra i quali si può annoverare il Consiglio di Gabinetto previsto
dall’art. 6 della legge 23 agosto n. 400 del 1988. Coerentemente con la breve storia di
quest’organo, l’art. 6 attribuisce al potere di direzione-organizzazione del Governo proprio
del Presidente del Consiglio la decisione relativa all’an della Costituzione del Consiglio di
2
Cfr. S. MERLINI, Il Governo, in G. AMATO e A. BARBERA (a cura di), Manuale di diritto pubblico, Bologna, 1997.
3
Cfr. A. PREDIERI, Lineamenti della posizione costituzionale del Presidente del Consiglio dei Ministri, Firenze, 1951.
11
Gabinetto ed al quomodo della sua formazione: nel senso che l’organo è composto <<dai
Ministri da lui designati, sentito il Consiglio dei Ministri>>.
Anche, le funzioni di Gabinetto sono strettamente correlate secondo l’art. 6, ai
poteri di direzione del Governo attribuiti dall’art. 95 della Cost. al Presidente del Consiglio;
poiché è nello svolgimento di tali funzioni che il Presidente può essere <<coadiuvato>> da
quel particolare comitato interministeriale che è denominato Consiglio di Gabinetto.
12
1.3 Linee d’evoluzione dell’assetto costituzionale di Governo e
della figura del Presidente del Consiglio
La struttura del Governo prefigurata dalla Carta costituzionale, pur contenendo
indubbi e rilevanti elementi di novità, rappresenta peraltro, sotto certi profili, il punto
terminale del processo d’evoluzione della forma organizzativa dell’Esecutivo esistente in
Italia durante il periodo di vigenza dello Statuto Albertino, anche se naturalmente molto
diverso è il rapporto interorganico fra le diverse componenti, in conformità alle differenze
che sussistono tra la forma di governo costituzionale pura di quel tempo e l’attuale sistema
parlamentare.
Dopo l’emanazione dello Statuto, sulla scorta dell’evoluzione del modello
inglese, si è attuato, in una prima fase in via convenzionale e in un secondo momento anche
in via legislativa, un processo di progressiva autonomia e di progressiva rilevanza
costituzionale del <<Consiglio dei Ministri>> ed anche del Presidente del Consiglio. Tale
evoluzione si compì non solo sul piano consuetudinario, ma anche attraverso una serie di
provvedimenti legislativi, tra i quali, in particolare, vanno ricordati per la loro importanza: il
r.d. n. 1122/1850 con cui s’incentrava nel Consiglio dei Ministri il potere di deliberazione
collegiale delle questioni di Governo e d’alta amministrazione; il r.d. n. 3829/1876, emanato
per proposta di Depretis, sanciva il passaggio dalla configurazione del Presidente del
Consiglio quale primus inter pares a quella di Capo del Governo; il decreto Zanardelli n.
466/1901, che confermava la validità del modello di Gabinetto caratterizzato dalla
preminenza del Presidente del Consiglio
4
.
E’ infine da ricordare con l’avvento del regime fascista, la legge n. 2263/1925, in
cui la mutata canalizzazione della responsabilità del Capo del Governo dalle Camere verso la
Corona dimostrava simbolicamente, ma tangibilmente, la profondità del cambiamento
dell’assetto di Governo e la <<rottura>> con il sistema allora vigente. Con tale ultima legge
l’evoluzione del sistema di Governo aveva evidenziato la rilevanza del Gabinetto come
organo collegiale e, nel suo ambito, del Presidente del Consiglio il quale progressivamente
veniva ad accentuare la sua posizione di primazia rispetto agli altri Ministri.
4
.Cfr. E. ROTELLI., La Presidenza del Consiglio dei Ministri, Milano, 1972.
13
Se dunque si può affermare che sostanzialmente sussistano alcuni tratti di
continuità nella struttura e nella composizione del Governo fra l’ordinamento statutario e
quello repubblicano, occorre allora esaminare lo stato della legislazione in materia al fine di
individuare l’eventuale vigenza, nel periodo attuale, oltre che naturalmente delle norme
costituzionali, delle disposizioni legislative preesistenti. In proposito, va ricordato che
nell’arco di tempo dei primi 25 anni del Novecento si sono avuti, come si è già detto, due
testi legislativi, ossia il decreto Zanardelli e la legge n. 2263/1925 che disciplinano con
diversa ampiezza e con ottiche completamente differenti – essendo l’uno rivolto al modello
di governo parlamentare e l’altra al modello di governo autoritario – lo stesso oggetto delle
competenze del Consiglio dei Ministri e del ruolo del Presidente del Consiglio.
L’omogeneità della materia trattata rende pertanto molto verosimile il verificarsi d’ipotesi di
forme d’abrogazione che, in mancanza d’espressa indicazione legislativa, vanno tuttavia
individuate anche sulla base degli orientamenti forniti al riguardo dalla dottrina dell’epoca.
Seguendo quest’impostazione, pertanto, si dovrebbero ritenere abrogate, per effetto della
legge n. 2263/1925, le norme del decreto Zanardelli relative alla funzione del Presidente del
Consiglio di rappresentare il Gabinetto e di mantenerne l’unità d’indirizzo, quelle relative
alla controfirma dei decreti di nomina del Presidente del Consiglio e dei Ministri e quelle
relative alle funzioni del Ministro segretario del Consiglio dei Ministri
5
.
Anche ritenendo, sulle orme della migliore dottrina, che la legislazione fascista
abbia solo alterato il quadro operativo e l’interpretazione del decreto Zanardelli e non abbia,
invece, provocato la totale caducazione in conseguenza dell’affermazione del principio di
supremazia del Capo del Governo, che svuotava di ogni significato le attribuzioni collegiali
del Consiglio dei Ministri, la rilevanza attuale del decreto stesso è in ogni caso piuttosto
scarsa. Tuttavia questo testo normativo, per la sua corretta aderenza al modello di governo
parlamentare può tuttavia costituire per certi aspetti, una forma, per così dire, residuale
d’integrazione normativa. Del resto, pur movendosi prevalentemente il decreto Zanardelli in
un’ottica di tutela della collegialità, nondimeno non sono menomate le attribuzioni del
Presidente del Consiglio, cosicché, anche sotto questo profilo, può essere confermata la sua
compatibilità anche con una certa ambivalenza di formulazione che sembra caratterizzare le
disposizioni costituzionali in tema di Governo.
Appare invece condivisibile quell’orientamento dottrinale che ritiene decaduta,
insieme con la scomparsa del regime fascista, anche la legge n. 2263/1925, secondo
5
Cfr. C. LAVAGNA, Contributo alla determinazione dei rapporti fra Capo del Governo e Ministri, Roma, 1942.
14
un’applicazione estensiva del principio cessante ratione legis cessat et ipsa lex. E, infatti,
quella legge disciplinava esclusivamente, il Capo del Governo, che non solo è stato
soppresso nella denominazione ufficiale, ma anche quale ufficio dell’organizzazione
costituzionale.
Se dunque si accoglie l’opinione già prospettata secondo cui la legge del 1925
non ha caducato integralmente il decreto Zanardelli e si accoglie altresì l’opinione che la
stessa legge sia totalmente decaduta, si deduce che la normazione di grado legislativo
esistente nel settore era costituita fino all’entrata in vigore della l. n. 400/1988, oltre che
naturalmente dalle disposizioni della Carta costituzionale, dalle norme del decreto
Zanardelli, peraltro in larga parte modificato o in via esplicita o, per così dire, in via
<<tacita>>, per effetto di consuetudini interpretative e di comportamenti squisitamente
politici seguiti dagli operatori del settore.
Lacunosità e limitatezza della normazione scritta, almeno fino all’entrata in
vigore della legge n. 400/1988, hanno lasciato un notevole spazio a norme non scritte, di
diversa natura e valenza, vale a dire o consuetudinaria o convenzionale, disponenti non solo
secundum Constitutionem, vale a dire nel senso di una specificazione dei precetti
costituzionali, ma anche, negli spazi non coperti da normazione scritta, praeter
Constitutionem, vale a dire nel senso di un integrazione-sviluppo dei precetti costituzionali.
Si può affermare che la rilevante mobilità di queste regole che la prassi costituzionale,
soprattutto degli ultimi tempi, ha evidenziato è un sintomo d’instabilità del sistema e pone
certamente problemi di funzionalità della forma di governo prefigurata nel testo
costituzionale
6
.
Le soluzioni, o le mancate soluzioni, che la Costituzione repubblicana dà ai
problemi del Governo, non possono essere affrontate senza ricordare, prima, gli elementi
essenziali del dibattito che si svolse su quest’argomento all’Assemblea Costituente tra il
settembre 1946 ed il novembre 1947.
Le sinistre, Partito Comunista Italiano (PCI) e Partito Socialista Italiano (PSI),
fecero quadrato proprio attorno al principio di collegialità, che ritenevano indispensabile
garanzia d’ogni Governo di coalizione. Secondo i comunisti e i socialisti, solo l’assoluta
preminenza del principio di collegialità sugli altri principi organizzatori del Governo avrebbe
reso possibile la formulazione di un unitario indirizzo politico del Governo, evitando, nello
stesso tempo, i rischi d’unilaterali interpretazioni dell’indirizzo già stabilito e d’unilaterali
6
Cfr. P. A. CAPOTOSTI, Governo, in Enciclopedia Giuridica Treccani, XV, Firenze, 1989.