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Per capire meglio il problema di fondo, si è cercato di ana-
lizzare in che misura i mezzi di comunicazione di massa in
generale e la pubblicità in particolare influenzano i modelli di
percezione ed interpretazione della realtà circostante.
Si è individuato, pertanto, che il problema di questi anni è
l’eccessiva quantità di notizie giornaliere che riceviamo perché
producono un rigetto informativo, fuga dalle stesse, con con-
seguente impoverimento conoscitivo, non garantendo
un’immagine più consapevole del mondo di quanto non avve-
nisse in altri periodi storici in cui circolava minore informazio-
ne. Infatti, le notizie sono utili nell’esatta misura in cui possono
essere assimilate e correttamente collocate in una griglia di
senso. L’inondazione, invece, confonde, crea disorientamento
e fa perdere di vista le notizie importanti sulle quali varrebbe la
pena riflettere, impedendo una piena comprensione dei fatti.
L’uso delle nuove tecnologie, inoltre, solleva anche problemi
a livello morale perché, all’aumento della quantità delle infor-
mazioni disponibili, corrisponde una minore qualità dei conte-
nuti trasmessi ed un’elevata violazione di alcune regole base
dell’informazione quali dignità, decenza e buon gusto.
Il problema è tanto più accentuato se si tiene in considera-
zione che i media non si limitano a mostrare il mondo così
com’è, ma sono gli occhiali attraverso i quali guardiamo il
mondo, deformandolo secondo gli interessi del momento.
Esiste una corrispondenza diretta tra l’ordine d’importanza
dato a certi problemi e temi da parte dei media e quello accor-
dato agli stessi problemi e temi da parte del pubblico.
Questa capacità appare in special modo attribuibile alla
pubblicità, in ragione del suo connaturale riferimento al con-
sumo di determinati beni ed all’utilizzazione di particolari
servizi, del suo carattere impositivo e del suo sistematico
ricorso alla ripetizione. La pubblicità, però, esercita la sua
influenza non solo sui consumatori, ma anche sugli stessi
mezzi di comunicazione, orientandone l’organizzazione, le
strategie ed i contenuti, grazie alla forza che le deriva
dall’essere la loro principale fonte di finanziamento, ed in
alcuni casi l’unica.
Pertanto, la risorsa pubblicitaria finisce spesso per distorce-
re il ruolo dei media subordinandolo agli interessi del mercato,
producendo un conflitto d’interessi tra comportamenti etica-
mente corretti e la massimizzazione del profitto.
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L’Auditel, da qualche anno, si è trasformato in giudice unico
ed insindacabile dell’intera programmazione televisiva tra-
sformando la tv in un mezzo volto a procurare ascoltatori alla
pubblicità. Non è un caso, quindi, che la critica alla pubblicità
non trova spazio sui media, lasciando il posto alla sua cele-
brazione ed esaltazione attraverso programmi che, indiretta-
mente, autorizzano i pubblicitari ad “osare”, col rischio di
cadere nel moralmente scorretto pur di emergere dall’effetto di
indifferenziazione degli spot ed aggiudicarsi qualche premio
(simbolico o effettivo).
Proprio nei confronti della pubblicità, il giudizio etico dovreb-
be farsi più “rigido” poiché essa influenza senza dubbio la
nostra cultura, è per sua natura invadente e la subiamo invo-
lontariamente, promuove il materialismo come mezzo per
raggiungere la felicità, sollecita la ricerca di status e trasmette
stereotipi sociali, appiattendo verso il basso la cultura preva-
lente esclusivamente per gli scopi commerciali.
Ovviamente, le critiche mosse alla pubblicità non riguardano
la sua funzione primaria, ossia assicurare in modo leale e
corretto il collegamento tra i produttori ed i consumatori, ma si
riferiscono alle sue conseguenze “collaterali”, determinate
dalla ricerca di elementi scioccanti per attrarre attenzione.
Purtroppo, la strada della regolamentazione, in una materia
così mutevole e complessa come la comunicazione, implica
notevoli rischi, effetti dubbi e controproducenti.
Le regole hanno soltanto una funzione di orientamento pra-
tico. Esse, se non sono sorrette dall’interiorizzazione e dalla
consapevolezza dei valori da cui scaturiscono, servono davve-
ro a poco perché difficilmente verranno rispettate.
Non è possibile, quindi, parlare di etica dei media senza
chiamare in causa elementi quali la responsabilità personale e
la struttura dei valori individuali di tutti coloro che lavorano nel
sistema delle comunicazioni.
In aggiunta a ciò, c’è bisogno anche della responsabilità
degli utenti dei mass-media, consistente tanto nella capacità di
fare un uso critico dei media, quanto nella possibilità di in-
fluenzare la stessa produzione dei messaggi, manifestando un
orizzonte di attese orientato a valori positivi.
Ciò è importante perché, in genere, l’offerta rispetta la do-
manda e, se la domanda continua ad accettare programmi
sciocchi, demenziali e privi di etica, di conseguenza l’offerta
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continuerà a produrre programmi sempre più scadenti e
lontani dal rispetto etico e morale della dignità umana.
La via da percorrere, quindi, dovrebbe essere quella di san-
cire il “principio responsabilità”, proposto già nel 1979 da Hans
Jonas, ancorandolo in modo adeguato ai processi formativi
degli operatori di settore e da affiancarsi a poche regole, certe
e condivise.
Per comprendere maggiormente l’importanza della “respon-
sabilità”, sono stati analizzati anche altri filosofi contemporanei
quali John Rawls, Karl Otto Apel, Jürgen Habermas, Daniel
Lerner e Luc Boltanski.
Le loro teorie sono risultate, in alcuni casi, in contrasto, ma
tutti percepiscono il potere immenso dei mass-media e la
necessità di maggiori controlli per contenere il loro strapotere.
Il quadro che ne emerge è piuttosto variegato, ma mette in
luce che il sistema dei media, così come funziona attualmente,
non è in grado di controllare da solo i suoi effetti “indesiderati”.
È, pertanto, emersa l’esigenza di una “macroetica planetaria
della responsabilità” (secondo la definizione di Apel) valida per
tutti i popoli di tutte le culture, per rispondere alle nuove esi-
genze morali e giuridiche di una società multi-culturale e multi-
etnica. Per questo motivo, sono stati presi in considerazione
gli effetti prodotti sui paesi del Terzo Mondo, stravolti dagli stili
di vita del mondo Occidentale, che vorrebbero imitare, ma
purtroppo non possono per la mancanza di risorse materiali e
strutturali, cadendo in un circolo virtuoso (e vizioso) dal quale
difficilmente riescono ad uscire perché il cambiamento, quan-
do avviene, è irreversibile.
Le immagini degli spot occidentali possono, nei paesi sotto-
sviluppati, portare alla distruzione di culture secolari per
l’effetto dell’imitazione e condizionare l’orizzonte delle aspetta-
tive legate alla migrazione.
Per tutti questi motivi, K. R. Popper, analizzando la televi-
sione dei suoi tempi, proponeva come giusta soluzione una
sorta di “patente per fare tv”, concessa soltanto dopo un corso
di addestramento e ritirata a vita qualora si agisca in contrasto
con certi principi. Egli temeva che l’eccessiva violenza tra-
smessa in televisione potesse avere delle conseguenze
soprattutto per l’educazione dei bambini, che agiscono e
ragionano per esemplarità e che nutrendosi di nutella e vio-
lenza (poiché entrambi prodotti televisivi) potessero ragionare
11
con la logica del dominio del più forte sul più debole, invece
che con idee ispirate al dialogo, alla tolleranza ed al rispetto
reciproco.
Accanto alla formazione dei comunicatori, però, occorrereb-
be aggiungere quella dei soggetti cui la comunicazione è
destinata, a partire dalla tenera età, attraverso l’aiuto
dell’istituzione scolastica (la quale dovrebbe insegnare a
discutere sui programmi televisivi, capire gli aspetti tecnici,
distinguere tra realtà e finzione ed essere telespettatori critici
già in età precoce) e l’impegno dei genitori (i quali hanno un
importante ruolo di mediazione nella scelta dei contenuti
televisivi da guardare).
Da alcune ricerche, è emerso che quanto più una persona è
sola davanti alla televisione, tanto più facilmente può restarne
ammaliata poiché tenderà a guardarla più a lungo e sarà più
impressionabile da ciò che vede.
Per tale motivo, quando si parla di etica della pubblicità, non
si può non tenere in considerazione anche la questione dei
minori poiché, anche per loro, proprio come per i popoli dei
paesi sottosviluppati, si teme possano subire, nel loro proces-
so di sviluppo, gli effetti devianti degli spot.
Questo timore è determinato dalla constatazione che gli
spot pubblicitari trasmessi dalla tv nel corso di una settimana
sono circa 9.384, con una distribuzione giornaliera di 1.340
comunicati. Ciò comporta che la maggior parte delle persone
che fruisce almeno due ore di televisione al giorno, si trova ad
assistere, in quel lasso di tempo, a più di 300 spot, con la
conseguenza di esserne direttamente o indirettamente condi-
zionate, perché dalla pubblicità nascono vagues, modi di dire,
comportamenti e stili di vita.
Fino a qualche anno fa, alcuni studiosi temevano per
l’incapacità dei minori nel distinguere la differenza fra i pro-
grammi televisivi e gli spot pubblicitari, ritenendoli vittime
indifese di un lavaggio del cervello abilmente attuato dal
capitalismo mediale. Successivamente, però, si è compreso
che i bambini, sin dai primissimi anni di vita, sono perfetta-
mente in grado di distinguere il genere pubblicitario (perché di
un genere si tratta) dagli altri contenuti televisivi, poiché cre-
scono in un ambiente familiare che non è più caratterizzato
solo dalla presenza dei genitori, ma anche dall’esistenza dei
media. Essi nascono con il televisore già in casa e quindi si
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abituano molto precocemente allo schermo, da cui risultano
molto attratti dato che la tv è un mezzo coinvolgente ed auto-
revole, sempre disponibile e diffuso in ogni classe sociale.
La televisione, per tale motivo, contribuisce alla formazione
di una determinata mentalità e visione del mondo, svolgendo
un ruolo di diffusione e di amplificazione dei valori e dei com-
portamenti conformistici attraverso stereotipizzazioni, mode e
sistemi culturali. Non tutti i bambini vengono, però, condiziona-
ti acriticamente dal piccolo schermo poiché gli effetti del
mezzo devono essere rapportati alla personalità ed
all’esperienza sociale dei telespettatori, tenendo conto
dell’influenza della famiglia, della scuola e dei gruppi dei pari.
Il vero problema non è quindi la televisione, ma la crisi della
formazione e della socializzazione, poiché molti bambini non
traducono in comportamenti la propria esperienza televisiva.
Sono a rischio solo i ragazzi predisposti all’aggressività ed
alla delinquenza, quelli non assistiti e non seguiti dagli adulti,
che vivono una condizione personale di disadattamento psico-
logico e sociale.
Analizzando le teorie contrapposte dell’ormai storico dibatti-
to tra apocalittici ed integrati, è emerso che, in realtà, i minori
non sono più telespettatori indifesi da proteggere, poiché sono
perfettamente in grado di navigare con disinvoltura all’interno
dei palinsesti distinguendo rapidamente i vari generi televisivi
e sono in grado di evitare gli spot, qualora lo volessero.
Tra i sostenitori di questa teoria vi è il sociologo Mario Mor-
cellini il quale, con dati empirici alla mano, ha dimostrato che
la tv non è riuscita a distruggere la società, poiché i bambini
ed i ragazzi ora la guardano di meno ed in maniera più critica,
preferendo ad essa altre attività ricreative.
Dall’analisi, però, è emerso anche che i minori adorano gli
spot, ritenendoli un genere televisivo superiore agli altri per
qualità ed originalità, mostrando la propensione a fruirne come
se si trattasse di uno spettacolo piuttosto che subirne diretta-
mente il potere persuasorio.
I bambini, molto più degli adulti, seguono con attenzione la
pubblicità e ricordano perfettamente contenuti, struttura,
musiche e battute in essa veicolate. Ciò è spiegato dal fatto
che i tempi d’attenzione dei bambini piccoli sono brevi e quindi
non sono in grado di seguire la trama di una vicenda comples-
sa, mentre riescono a comprendere ed apprezzare con facilità
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gli spot pubblicitari perché sono maggiormente in sintonia con
i loro tempi d’attenzione e comprensione.
Se gli adulti apprezzano la pubblicità solo quando è qualita-
tivamente ed esteticamente valida, il piccolo telespettatore ne
apprezza soprattutto il carattere informativo e socializzante del
contenuto. Per il bambino è importante conoscere i giochi
pubblicizzati, prendere spunto da essi per la costruzione di
mondi fantastici in cui giocare ed essere informato delle novità
per non essere tagliato fuori dai discorsi dei coetanei, dato che
la pubblicità è uno dei generi televisivi di cui si parla più spes-
so con gli amici.
Ipotizzare strategie per educare i minori ad evitare gli spot è
un falso problema, prodotto dalla visione adultocentrica con
cui si riflette sul rapporto bambini-tv. Piuttosto, bisognerebbe
prevenire, con programmazioni intelligenti, l’abbandono della
televisione da parte delle nuove generazioni.
Resta da dire, però, che c’è anche chi, come Postman, ac-
cusa la televisione di indebolire i confini tra bambini ed adulti
portando ad un’anticipazione della fine dell’infanzia rispetto al
passato poiché, dato che sono pochissime le espressioni della
sessualità umana che la televisione considera abbastanza
delicate da lasciare nell’ambito del privato, i bambini vengono
a conoscenza troppo presto di situazioni tipiche dell’età adulta
che prima si cercava di tenere loro nascoste.
David Buckingham, invece, ritiene che le posizioni degli a-
pocalittici e quelle degli integrati non sono diametralmente
opposte, ma hanno molti punti in comune.
L’età infantile è sempre stata vista come uno spazio in cui
proiettare le proprie ansie e timori circa il mutamento sociale in
atto. Gli adulti sono talmente presi dall’idea di dover protegge-
re questa categoria dai pericoli del mondo esterno, da non
essersi resi conto che, in realtà, l’infanzia sta cambiando, ma
in maniera meno drammatica, ambivalente e contraddittoria di
quanto gli apocalittici tendono a suggerire, poiché essa non è
socio-culturalmente scomparsa, ma è soltanto più prossima
all’adolescenza.
La nozione del bambino come essere vulnerabile da pro-
teggere è stata via via rimpiazzata da quella del bambino
come “consumatore sovrano”, poiché esercita un’influenza
significativa sugli acquisti dei genitori e spesso ha anche un
proprio reddito personale. Per tale motivo, molti spot utilizzano
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mini-testimonials non solo per prodotti destinati ai bambini, ma
anche in quelli per gli adulti, degradando i genitori a meri
intermediari tra figli e mercato.
Solo nel 20,5% dei casi la presenza di bambini negli spot è
funzionale alla storia, mentre negli altri casi non è fondamen-
tale per il suo sviluppo ed in ben il 17,2% dei casi è del tutto
superflua.
L’immaginario televisivo oscilla principalmente tra la polarità
domestico-familiare e quella giovanile che i bambini identifica-
no con il clima che vivono all’interno delle mura domestiche.
Infatti, quasi la metà di tutti gli spot analizzati nell’arco di una
settimana evocano la famiglia, la casa, le tradizioni; nel 19%
dei casi il contesto è di tipo giovanile; nel 10% l’atmosfera
dello spot è sportiva e/o competitiva, mentre decisamente
minoritarie sono le atmosfere erotiche (2,2%) o trasgressive
(4,1%). Questi dati dovrebbero dimostrare che le preoccupa-
zioni per le influenze devianti della pubblicità nei confronti dei
minori sono piuttosto vaghe e prive di fondamento.
Pertanto, si è ritenuto che la ricerca dovesse concentrarsi
maggiormente sugli stravolgimenti che i valori veicolati dalla
pubblicità portano sugli adulti, ancorati al loro mondo utopico
fatto di valori “sani”, quei valori che erano presenti nella loro
infanzia, quando la tv non esisteva, ma non esisteva nemme-
no tutto il benessere presente al giorno d’oggi.
In effetti, non ci sarebbe nulla di male nel dichiarare che
alcuni riferimenti espliciti al sesso, alla violenza, alla volgarità
possono dare fastidio, invece di nascondersi dietro l’alibi della
tutela dei minori.
Pertanto, la questione dell’etica in pubblicità è un falso pro-
blema per i bambini, ma un tentativo della old generation di
portare indietro le lancette dell’orologio alla loro infanzia, o
peggio ancora, un modo per far zittire le coscienze di tutti quei
genitori che, troppo presi dalla loro vita frenetica, fatta di
lavoro ed hobbies, vorrebbero relegare l’istruzione e la forma-
zione dei propri fanciulli al mass-media per eccellenza ma, al
contempo, non vorrebbero che ne risultassero influenzati
negativamente, suscitando inesistenti allarmismi apocalittici.
Certo, ammettere che i mass-media non hanno il compito di
preoccuparsi della formazione dei minori, né tanto meno di
intrattenerli mentre i loro genitori sono altrove, non li autorizza
a “distruggere” valori e costumi legati al buon senso, a dege-
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nerare nel cattivo gusto e ad arrecare continue offese alla
morale ed alla religione.
La pubblicità propone ossessivamente il corpo umano se-
condo canoni esasperati di bellezza, giovinezza ed attrazione,
offrendolo perennemente alla provocazione erotica. Non di
rado il corpo viene proposto con immagini ambigue, ai confini
della sessualità, che possono provocare un senso di inade-
guatezza e disprezzo di sé in coloro che non si sentono molto
attraenti. L'esposizione strumentale della persona umana,
anche nelle sfere private ed intime, rimodellate e falsificate in
funzione di uno scopo persuasivo, è uno degli aspetti più
pericolosi della pubblicità, poiché conduce alla disgregazione
del valore umano del pudore.
I valori dei diritti della persona, del diritto a crescere, della
verità, della cooperazione sociale, della non ipocrisia, della
libertà di scelta, vengono messi a dura prova dall’uso distorto
della pubblicità. Eppure, poiché lo spot ha un ruolo sociale ben
preciso (pubblicizzare un prodotto o un servizio), mostrare
delle immagini un po’ “crude”, a volte, può avere una sua
utilità (Cfr. pubblicità progresso) che manca, invece, alle
immagini di violenza fini a se stesse.
La pubblicità è, però, un mezzo che distorce la percezione
della realtà poiché crea delle aspettative nelle persone che si
possono riassumere in: “sesso, soldi, benessere”.
Sin dalle sue origini, la pubblicità è stata considerata come il
simbolo del capitalismo, che infonde nei consumatori i valori
del consumismo e del materialismo, che crea falsi bisogni in
grado di sostituire i valori e le relazioni umane più autentiche,
promuovendo negli individui l’idea che la loro identità sia
fondamentalmente il risultato di quello che possiedono e
consumano. La pubblicità propone il consumo come risposta
alle secolari afflizioni che si accompagnano alla solitudine, alla
malattia, alla noia, alla mancanza di appagamento sessuale,
creando, al contempo, nuove forme di malcontento esaspe-
rando l’infelicità, l’insicurezza personale, la preoccupazione
per il proprio status sociale. Insomma, istituzionalizza l’invidia
ed i suoi tormenti proponendosi come uno specchio distorto
della realtà.
Quindi, anche i pubblicitari si trovano, al giorno d’oggi, di
fronte a delle responsabilità molto grandi che riguardano sia i
rapporti umani che le relazioni civili.
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A rimediare alle distorsioni di alcuni comunicati troppo spinti,
vi è il contributo dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria che,
con il suo Codice, in vigore dal 1966, cerca di mantenere
l’equilibrio nel sistema.
Infatti, il mondo dell’informazione non è una “giungla” perché
le regole esistono, anche se sono poco conosciute ed ancora
meno osservate, a causa di sanzioni poco efficaci e la man-
canza di norme nazionali appropriate, dato che quelle esistenti
si occupano esclusivamente della quantità dei messaggi sui
singoli mezzi e della “pubblicità ingannevole”.
Il Codice di Autodisciplina Pubblicitaria italiano è nato per
iniziativa delle imprese, dei pubblicitari e dei mezzi di comuni-
cazione con l’obiettivo di difendere gli annunci da alcune
possibili degenerazioni. Ha quindi lo scopo di assicurare che
la pubblicità venga realizzata come servizio per il pubblico,
con speciale riguardo alla sua influenza sul consumatore.
Nei codici autodisciplinari iniziali l’attenzione era maggior-
mente concentrata sul mantenimento di rapporti stabili tra i
concorrenti piuttosto che sul miglioramento delle decisioni di
acquisto del consumatore. Attualmente, l’Autodisciplina tutela
la pubblicità come tale in relazione all’importanza della sua
funzione economico-sociale, la concorrenza economica ma
anche e soprattutto i consumatori.
Il fatto di nascere all’interno della categoria pubblicitaria e
che essa stessa si rendesse conto della necessità di limiti
precisi alla propria attività, ha fatto sì che il Codice di Autodi-
sciplina abbia svolto finora un ruolo di moderazione delle
possibili derive “selvagge” dell’attività pubblicitaria.
Per tale motivo, la pubblicità italiana dovrebbe essere tra le
più tutelate. Ciò, però, non avviene a causa dei numerosi limiti
e contraddizioni presenti all’interno del Codice, che lasciano
spazio a numerose scappatoie e violazioni, indirettamente
giustificate da errate interpretazioni delle norme.
A ciò si aggiunge il fatto che i tempi di attuazione delle san-
zioni, per quanto notevolmente ridotti nel corso degli anni,
rischiano di incorrere nel momento in cui la campagna sia già
terminata promuovendo azioni di “hit and run” attraverso le
quali alcuni pubblicitari progettano anticipatamente delle
campagne decisamente in contrasto con il Codice, preveden-
do la loro cessazione in concomitanza con l’eventuale inter-
vento dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria.
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Il Codice di Autodisciplina, così come funziona attualmente,
non è in grado, quindi, di contenere gli eccessi della pubblicità
poiché stabilisce solo forme di controllo e di censura successi-
ve alla diffusione dei messaggi consentendo agli spot violenti,
volgari ed indecenti di venire ugualmente visualizzati.
Ad emblema di ciò, è stato analizzato il caso dello spot Dol-
ce & Gabbana “D&G Time - For Real Lovers”, censurato
soltanto due mesi dopo la sua messa in onda televisiva.
Lo spot era imperniato su vari momenti di incontro fra un
ragazzo ed una ragazza interrotti da sonore flatulenze emesse
dai due protagonisti, degenerando decisamente nel trash.
L’Autodisciplina non ha condannato il gesto in sé, ma la sua
gratuita rappresentazione in un contesto di massima esposi-
zione al pubblico che può, non soltanto infastidire qualcuno
(ed in tale ambiente basta anche un solo telespettatore turbato
per ritenere lo spot di cattivo gusto), ma può anche avere delle
influenze negative sui minori, inducendoli a comportamenti di
emulazione.
Dall’analisi è emerso anche che per i creativi non importa se
l'idea è kitsch, non importa se lo spot non piace, ciò che conta
è che se ne parli, anche se male. Gridare forte, infatti, è un
metodo per farsi sentire. Però, se si grida troppo forte, si
rischia di risultare sgradevoli e di ottenere l’effetto contrario.
Il Giurì dell’Autodisciplina Pubblicitaria ha ritenuto, sulla ba-
se dell’art. 9 del Codice, che il carattere volgare di un'afferma-
zione o rappresentazione deve essere valutato secondo il
gusto e la sensibilità del pubblico, delegando alla cultura di un
dato sistema umano, in un dato momento storico, lo stabilire i
limiti dei comportamenti moralmente accettati.
Infatti, non spetta al Giurì farsi arbitro del buon gusto e del
valore educativo dei comunicati, ma è suo dovere intervenire
quando vengono oltrepassati i livelli di guardia che il Codice
pone a tutela dei consumatori e dell’immagine stessa della
pubblicità. Una volta le pubblicità entravano in testa per i loro
personaggi storici che le interpretavano, oggi passano senza
lasciare traccia e quindi devono stupire, scioccare, disgustare
ed inventarsi delle deviazioni dalle regole comunemente
accettate, pur di arrivare alle persone.
Pertanto, ogni tabù è stato rotto, nonostante continuano ad
essere molti gli aspetti della realtà che il pubblico preferisce
rimangano confinati nella sfera del privato.
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La valutazione del grado di volgarità ed indecenza tollerabi-
le in pubblicità non può prescindere né dalla considerazione
che il contesto sociale sia mutato, né dalla passiva accettazio-
ne di un malcostume diffuso.
Il Giurì ha quindi escluso la possibilità di considerare gli
spettacoli televisivi più spinti come termine di valutazione per
la correttezza della pubblicità, perché in tale contesto il livello
di indecenza e volgarità tollerabile deve essere valutato se-
condo criteri molto più rigorosi, di natura qualitativa, che
tengano conto, non soltanto dei suoi fini commerciali, ma
anche dell’involontarietà dello spettacolo pubblicitario per molti
utenti. Il vero problema, allora, diventa il preservare quel
minimo di moralità che ancora c’è rimasto ed evitare che il
mondo si autodistrugga per un eccesso di “cattive abitudini”,
violenza e volgarità che, a lungo andare, andrebbero a peg-
giorare sempre più.
Maggiore tolleranza, per contro, il Giurì ha dimostrato nei
confronti di pubblicità che, pur utilizzando doppi sensi ed
insinuazioni al fine di creare una suggestione erotica, fanno
leva sull’umorismo e la satira del costume, suscitando nel
pubblico ilarità e non, invece, ostilità.
Di questo secondo caso fanno parte molte pubblicità inerenti
la sfera religiosa in cui compaiono preti o monache come
veicoli bonari di commercializzazione di alcuni prodotti, svinco-
lati da ogni collegamento spaziale o verbale con luoghi o
avvenimenti sacri.
Nel corso della tesi si sono presi in considerazione, attra-
verso l’esempio di casi concreti, soltanto alcuni articoli del
Codice (Artt. 8, 9, 10 ed 11) che proteggono le sfere più
riservate della personalità umana. La scelta è stata determina-
ta dal coinvolgimento, in questi articoli, di giudizi e valutazioni
soggettive e fortemente discrezionali, apportando una maggio-
re incidenza di valori etici e morali in simili decisioni.
I soggetti incaricati di interpretare ed applicare il C.A.P.
(Giurì e Comitato di Controllo) sono del tutto svincolati dal
mondo commerciale e da coloro che devono essere giudicati.
Ciò, se da una parte garantisce la massima obiettività e tra-
sparenza dei giudizi emessi, dall’altra bisogna ricordare che si
tratta comunque di esseri umani con i propri limiti e le proprie
convinzioni culturali e che, talvolta possono adottare, soprat-
19
tutto per quanto riguarda questi articoli del Codice, valutazioni
soggettive.
In una società articolata come la nostra, il concetto di pudo-
re, di decenza ed il grado accettabile di violenza consentita
sono concetti impossibili da circoscrivere perché variano a
seconda dei tempi, dei luoghi e della cultura di riferimento.
Quindi, chi giudica una pubblicità, deve decidere a quale
livello di sensibilità ancorarsi.
In una decisione del 1980 il Giurì definì che non tutto ciò
che è lecito in sede di manifestazione del pensiero lo è anche
in pubblicità, poiché è giusto esigere che i messaggi non
investano di cariche negative i prodotti che intendono vendere.
Sono state, quindi, censurate, nel corso degli anni, pubblicità
che toccavano in modo inopportuno e gratuito temi quali la
tossicodipendenza, l’AIDS, la nascita e la morte che, di per sé,
non sono censurabili, né sono idonei a ledere la sensibilità
della persona, ma che lo diventano nel momento in cui vengo-
no sollevati non per affrontare un dialogo, sensibilizzare
l’opinione pubblica o fornire delle informazioni, ma solo ed
unicamente a fini commerciali, per imprimere nella mente del
consumatore un marchio.
Lo stesso Giurì ha più volte manifestato la difficoltà ad ap-
plicare questi articoli del C.A.P. che, per loro natura, si sot-
traggono ad una precisa definizione. Pertanto, è capitato più di
una volta che alcune pubblicità, che sarebbero potute incorre-
re nella censura a causa dei loro contenuti difformi al Codice,
in realtà hanno continuato ad operare indisturbate.
Tra queste è stato analizzato il caso “Santa Sermetra”, pub-
blicità che ha rappresentato un’assicurazione d’auto con una
statuetta votiva della Madonna, sul cruscotto di un’auto, in
preghiera come vuole l’iconografia sacra, ma con un volante
stretto tra le mani.
Si è urlato alla bestemmia, alla mancanza di rispetto,
all’assenza di buon gusto e proposto il boicottaggio perché,
raffigurare la Madonna con un volante tra le mani non soltanto
è un chiaro segno di profanazione ma, denominare anche
l’agenzia di assicurazioni con l’appellativo “Santa”, comporta
la deificazione del prodotto pubblicizzato sostituendolo
all’oggetto proprio del culto.
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I consumatori hanno diritto a non essere urtati nelle proprie
convinzioni religiose da campagne commerciali e da iniziative
propagandistiche strumentali ad interessi economici.
Il mancato intervento dello I.A.P., è stato “giustificato” dalla
sua impossibilità di controllare tutti i comunicati di volta in volta
immessi nel mercato, poiché il controllo è occasionale e
basato soprattutto sulle segnalazioni di terzi.
Dall’analisi, è emerso anche che i casi di pubblicità giudicate
in contrasto con questi quattro articoli del Codice sono meno
ricorrenti rispetto alla violazione di altre norme. Ciò, se da un
lato potrebbe evidenziare un maggiore impegno etico dei
pubblicitari, dall’altro induce ad interrogarsi sulla effettiva
chiarezza e completezza delle norme che potrebbero, così
come formulate oggi, lasciare spazi non regolamentati ed
indurre interpretazioni arbitrarie, spingendo i creativi sulla
strada dell’infrazione.
In mancanza di una legge statale adeguata, l’autodisciplina
ha sicuramente diversi vantaggi, quali rapidità di intervento e
tempestivo aggiornamento del Codice.
A ciò, però, fanno fronte anche numerosi limiti, tra i quali
possono essere citati il ridotto potere sanzionatorio; il mancato
coinvolgimento nelle decisioni delle parti potenzialmente lese,
ossia i consumatori, e la mancanza di un monitoraggio com-
pleto e sistematico in grado di verificare tempestivamente tutti
i casi di violazione del C.A.P. Inoltre, le sanzioni per le pubbli-
cità giudicate in contrasto con il Codice consistono quasi
esclusivamente nella “cessazione della campagna”, mentre la
pubblicazione della sentenza è usata molto raramente e la
pubblicità correttiva quasi mai.
Non è raro, poi, leggere nelle pronunce del Giurì le dichiara-
zioni di inserzionisti che proclamano la propria estraneità al
sistema o che non aderiscono allo I.A.P.
In aggiunta a ciò, bisogna dire che circola un’informazione
assai ridotta sulle norme e sulle decisioni autodisciplinari.
Basti pensare che la metà dei giovani da me intervistati,
hanno dichiarato di non essere nemmeno a conoscenza
dell’esistenza di un Codice di Autodisciplina Pubblicitaria,
indipendentemente dal titolo di studio e dallo status sociale.
A questo punto, si è cercato di trovare risposta ad alcuni
quesiti sui limiti dello I.A.P. realizzando un’intervista telefonica
con la segreteria dell’Istituto.
21
È stato chiesto come mai fra gli enti che costituiscono lo
I.A.P. non è presente alcuna categoria di consumatori, alla
quale hanno risposto dicendo che l’adesione al sistema è del
tutto spontanea e l’Istituto si limita ad aggiornare l’elenco degli
aderenti, non preoccupandosi della mancata partecipazione di
qualcuno. Pertanto è emerso che ciò che inizialmente sem-
brava un limite dell’autodisciplina, in realtà è un limite delle
categorie di consumatori, le quali ancora non hanno deciso di
aderire allo I.A.P.
In secondo luogo, è stato domandato all’istituto se è a co-
noscenza della scarsa popolarità di cui gode presso buona
parte dei cittadini. Dall’intervista, però, è emerso che lo I.A.P.
non si spiega questo gap informativo tra consumatori e pubbli-
cità contestate poiché provvede, tempestivamente, a pubblica-
re sul sito internet tutte le sentenze emanate, mese per mese.
Quindi, ritiene che spetti al buon senso dei cittadini informarsi
al riguardo, poiché hanno fatto il possibile per far conoscere il
loro operato al pubblico, arrivando anche a creare una cam-
pagna pubblicitaria celebrativa, nell’estate 2002.
Bisogna aggiungere, però, che i limiti del sistema non ren-
dono nullo il suo operato, poiché esso è in evoluzione e mi-
glioramento costante, anno dopo anno.
Per approfondire la ricerca, si sono analizzate anche le con-
siderazioni dei giovani, di età compresa tra i 15 ed i 35 anni,
sugli eccessi della pubblicità odierna, ottenute attraverso la
somministrazione di questionari cartacei e web survey.
Il 60% del campione intervistato dichiara di evitare gli spot,
cambiando canale o approfittandone per fare altro ma, nono-
stante ciò, ben il 65% parla di pubblicità con i propri amici.
Per il 43% degli intervistati, alcune pubblicità sono troppo
violente, mentre per il 70% sono troppo volgari. Ciò è tanto più
comprensibile se si tiene conto che la violenza presente negli
spot è di gran lunga inferiore rispetto a quella contenuta nei
programmi televisivi di varietà, fiction e film.
Dall’analisi delle sensazioni prodotte nel visualizzare mes-
saggi che fanno esplicito riferimento a sesso, violenza e/o
volgarità, metà dei ragazzi intervistati ha risposto “indifferen-
za”, mentre l’altra metà “fastidio”, la cui risposta simboleggia
che il messaggio ha un forte e negativo impatto emotivo.
Il giudizio complessivo sulle pubblicità televisive risulta, pe-
rò, piuttosto negativo. Infatti, soltanto il 32% degli intervistati
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ritiene che le pubblicità sono ben fatte e spettacolari, mentre la
stragrande maggioranza del campione le considera eccessi-
vamente banali e stereotipate, inutili, tecnicamente mal fatte
ed addirittura da eliminare. Sommando tutte queste caratteri-
stiche negative, la pubblicità ne esce distrutta.
I giovani salvano soltanto pochi annunci che ai loro occhi
appaiono geniali.
Nonostante i dichiarati fastidi provocati da alcuni spot troppo
“spinti”, la maggior parte del campione intervistato ritiene di
odiare soprattutto l’eccessiva quantità dei messaggi pubblicita-
ri ai quali viene sottoposto, lasciando in secondo piano la sua
qualità, poiché anche degli spot ritenuti inizialmente “carini” e
“piacevoli”, a causa dell’eccessiva ripetitività, finiscono col
risultare odiosi ed insopportabili. Infatti, la battuta di un com-
mercial fa ridere la prima volta, la seconda fa a malapena
sorridere, dalla terza volta in poi irrita. Insomma, è come voler
strappare il sorriso al pubblico raccontandogli sempre la
stessa barzelletta.
Molti, si ritengono immuni dalle seduzioni della pubblicità.
Ma proprio questa convinzione può denunciare la capacità di
presa di coscienza dei suoi allettamenti divertenti e spettacola-
ri poiché la dimostrazione del prodotto non persuade nessuno
fino in fondo, ma la pubblicità gratifica il consumatore con un
calore che lo conquista.
A questo punto si è cercato di capire i gusti pubblicitari dei
giovani chiedendo loro di indicare lo spot che piace più di tutti
e quello che invece ritengono più noioso ed insopportabile.
Sono risultate piacevoli le pubblicità innovative, geniali che,
oltre a presentare la marca, riescono nel loro poco tempo a
disposizione ad attrarre l’attenzione in maniera sobria, con
colonne sonore toccanti, slogan non invadenti e vicende in
alcuni casi divertenti, poiché un tono spiritoso crea simpatia
intorno al prodotto.
Per quanto riguarda gli spot più noiosi ed insopportabili, so-
no state indicate, invece, tutte quelle pubblicità in cui si urla
troppo, scontate, ripetitive, omologate, che passano in conti-
nuazione sui vari canali, eccessivamente utopiche e false. Altri
tipi di spot sono ritenuti fastidiosi per i testimonial utilizzati.
Quasi nessuno ha segnalato gli spot volgari, perché ormai è
come se fossero “assuefatti” da tale tipo di spot. Infatti, oggi
l’esposizione promiscua ad un’eccessiva quantità di segnali
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rischia di compromettere sia la nostra capacità di distinguere
forme e contenuti sia quella di interpretarli, mettendo sullo
stesso piano creatività e trash.
Dall’analisi è stata confermata l’ipotesi iniziale di un grande
interesse per l’argomento da parte dei giovani nati e cresciuti
con la tv in casa, indipendentemente dalla provenienza geo-
grafica, dal titolo di studio e dalla fascia d’età, nonostante il
giudizio sulla pubblicità che ne emerge è prevalentemente
negativo.
La pubblicità, purtroppo, è degenerata terribilmente negli
ultimi anni a causa del passaggio dallo “hard selling” al “soft
selling”, determinato dal fatto che i prodotti di una stessa
categoria merceologica non hanno più nessuna differenza tra
loro.
Oliviero Toscani, che è stato il primo a fare scalpore con le
sue pubblicità scioccanti, era convinto che la pubblicità non
serva per far acquistare un prodotto, ma solo per far memoriz-
zare il marchio, considerando assolutamente indifferente se la
pubblicità sia positiva o negativa perché, con il passare del
tempo, resterà nella mente del consumatore soltanto il ricordo
del marchio e non la sensazione ad esso associata.
La funzione economica, però, non può giustificare in nessun
modo la disfunzione educativa ed il turbamento anche di un
solo consumatore non vale il risultato di un’intera campagna
pubblicitaria.
L’autocontrollo e l’intervento pubblico non potranno mai an-
dare oltre un certo contenimento quantitativo ed il controllo
parziale dei singoli messaggi. Inoltre, le regole, da sole, hanno
un valore assai limitato, se non sono sostenute da una con-
vinzione etica diffusa e profonda. Le stesse leggi dello Stato
servono a poco se sono applicate senza sistematicità e se non
prevedono sanzioni adeguate. L’impegno educativo, a sua
volta, non può essere considerato, da solo, sufficiente.
Quindi, agire solo “a monte” o solo “a valle” è illusorio.
È emerso che la possibilità di contrastare le conseguenze
negative della pubblicità è strettamente legata all’integrazione
degli interventi regolamentari ed educativi.
Il riferimento ideale sarebbe un sistema dei media fondato
su un ruolo non condizionante della pubblicità, che non la
demonizzi ma che sia adeguatamente critica, riconoscendone
sia i benefici che le possibili degenerazioni.
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Si tratta, insomma, di trasmettere alla pubblicità un carattere
meno conflittuale con gli interessi generali e che possa fornire
un contributo positivo non soltanto alla situazione economica,
ma anche a quella sociale e culturale.
La pubblicità, infatti, ha un ruolo importantissimo nella no-
stra società ed essa riesce a svolgerlo nella maniera migliore
possibile ogni qualvolta si ha a che fare con dei creativi re-
sponsabili in grado di creare spot divertenti ed emozionali.
Purtroppo, la pubblicità italiana, dal punto di vista creativo,
non è ai primi livelli mondiali risultando, in molti casi, tra le più
polemiche e petulanti a causa dell’irresponsabilità di quei
pochi che cercano di rimediare con la trasgressione ai deficit
in termini di budget o di inventiva.
Pertanto, non basta la messa al bando del messaggio in-
gannevole per proteggere il cittadino, ma occorre un impegno
più alto per abolire ogni forma di comunicazione che offenda
valori e dignità della persona-soggetto.
Proprio perché l’autodisciplina non è perfetta, sono state
ipotizzate delle proposte di miglioramento che possono essere
sintetizzate in:
a) necessità di essere affiancata da qualche legge stata-
le che ne “aiuti” e “sostenga” l’operato;
b) rivedere meglio la formulazione di alcune norme auto-
disciplinari, rendendole più chiare, specifiche e meno
soggettive;
c) sanzioni più efficaci in grado di arrecare un effettivo
danno (simbolico o materiale) in tutti coloro che si ac-
cingono a violare le norme del Codice.