complessi rapporti che appunto senza la reciproca individualità non sarebbero neppure
pensabili.
Può accadere nella pratica che, in una iniziativa commerciale un soggetto al solo fine di
sfruttare il nome, uguale a quello associato ad un prodotto celebre dia luogo ad atti di
concorrenza e quindi a dei comportamenti idonei a ingenerare confusione, sfruttando
parassitariamente le altrui spese di avviamento e pubblicità.
Questo pericolo di confusione risulta particolarmente sentito nell’ipotesi in cui la società
si serva, come mezzo di identificazione, di un marchio generale. Un ente o
un’associazione, che sono titolari di un segno o nome, non lo usano esse stesse, ma lo
fanno usare ad altri produttori o commercianti, insomma a imprenditori che non ne sono
titolari, ma sono dipendenti o associati o appartenenti a quegli enti o associazioni. La
legge, vietando l’ingannevolezza dei messaggi comunicati dai marchi, garantisce al
pubblico la veridicità di ciascuno di quei messaggi anche diversi, e fa assurgere a
funzione giuridicamente tutelata la funzione distintiva.
La funzione distintiva viene particolarmente sentita con riferimento ai marchi di servizio.
La legge del 24. 12. 1959, art. 3, ha introdotto anche in Italia i marchi di servizio che
sono destinati a contraddistinguere l’attività di imprese di trasporti e comunicazioni,
pubblicità, costruzioni, assicurazioni e credito, spettacolo, radio e televisione, trattamento
di materiali e simili. Ben spesso questi marchi saranno apposti su oggetti non fabbricati
né commerciati dal titolare, ma da costui soltanto usati nell’espletamento del servizio
offerto
2
. L’apposizione dei marchi sugli oggetti utilizzati per il servizio serve a segnalare
che il servizio è reso da quell’imprenditore che di quegli strumenti, così marchiati, si
serve.
I segni distintivi comunicano a chi li percepisce un messaggio inerente alle
caratteristiche dell’ente contrassegnato, così consentendo di distinguerlo dagli altri dello
stesso genere. L’obbiettivo che si vuole raggiungere non è altro che quello di attribuire
all’imprenditore il diritto esclusivo di valersi del suo segno, si vuole che egli sia
riconosciuto e riconoscibile sul mercato per quello che è. La necessarietà di un segno
intorno all’imprenditore che lo identifica, risponde a quell’esigenza per cui si viene a
creare una sfera di protezione che tende a far si che i frutti del suo lavoro non gli
vengano sottratti con azioni il cui carattere comune è la falsità, intesa anzitutto come
decettività, ossia attitudine a trarre in inganno i consumatori, la cui opera di giudici del
mercato può venir fuorviata.
Possono vedersi pregiudicati i propri interessi da atti concorrenziali anche gli enti e le
associazioni. Si è ritenuto che la disciplina della concorrenza sia così applicabile non
solo agli imprenditori ma anche agli enti pubblici non economici. Un dubbio che è sorto in
passato è stato quello di poter applicare la disciplina in esame all’attività dei liberi
professionisti. Il dubbio è stato risolto positivamente a patto che l’attività del
professionista si innesti su di una struttura organizzata di rilevante dimensione.
2
Il marchio Alitalia sugli aeroplani fabbricati da imprese diverse o il marchio RAI-TV su microfoni o
telecamere. Vercellone P., Impresa e lavoro: la ditta, l’insegna e il marchio, nel Trattato di dir. priv., diretto
da P. Rescigno, Torino, 1983, pag. 73 e ss., per questi casi vale ovviamente il divieto di sopprimere i marchi
legittimamente apposti in precedenza da produttori o commercianti.
Proprio al n. 1 dell’art. 2598 vengono descritte delle fattispecie confusorie, la prima delle
quali consiste nell’adozione di nomi o segni distintivi confondibili con quelli di altri.
Produrre confusione significa ingenerare nei destinatari del messaggio in cui l’atto
confusorio si traduce un falso convincimento. La legge, dunque, tutela a certe condizioni
contro l’imitazione confusoria i “nomi o segni distintivi” usati dall’imprenditore
3
e perciò
alla ditta, alla ragione o denominazione sociale.
Un problema che è sorto al riguardo, consiste nello stabilire se tra i segni tutelati dalla
norma in esame vi rientrano anche quelli che la legge già tutela altrove, come appunto la
ditta ( e la ragione e denominazione sociale) e il marchio registrato. Si tratta cioè di
stabilire se una contraffazione di ditta o di marchio registrato già prevista come illecito e
sanzionata altrove, costituisca anche atto di sleale concorrenza ai sensi dell’art. 2598 n.
1 e sia quindi oggetto di concorso di due tutele. Sembrerebbe che la legge sia propensa
nel prevedere un concorso delle due tutele
4
.
Anche la ditta rientra tra i nomi e i segni distintivi di cui mi sto occupando. Sembra infatti
non vi siano diversità tra la fattispecie descritta nell’art. 2564 c.c. e l’art. 2598 n. 1 . La
confondibilità per l’oggetto dell’impresa e per il luogo in cui questa è esercitata, prevista
nell’art 2564 c.c., corrisponde infatti ai due elementi della confondibilità richiesta perché
si abbia concorrenza confusoria. Una differenza riscontrabile tra le due discipline la si
può trovare sul piano delle sanzioni, dato che l’art. 2564 c.c. si limita ad imporre
integrazioni o modifiche idonee a differenziare la ditta del contraffattore, mentre la
disciplina della concorrenza prevede l’inibitoria, l’emanazione di opportuni provvedimenti
per rimuovere gli effetti dell’atto confusorio.
Nel caso della ditta, ci si imbatte inoltre di fronte ad un’altra esigenza: quella di tenere
distinto, dal punto di vista analitico, questo segno, che generalmente si assume
distinguere l’imprenditore o l’impresa intesa come insieme di elementi personali o reali,
dai segni di identificazione personale. L’imprenditore individuale svolge la propria attività
valendosi della ditta da lui prescelta (art. 2563 c.c.): per espresso precetto legislativo,
questa deve, almeno tendenzialmente (comma 2 dell’art. 2563 c.c.), coincidere con il
nome anagrafico dell’imprenditore. Non perciò si può confondere tra il nome anagrafico
della persona fisica, titolare d’impresa, con la ditta, sotto la quale egli eserciti la propria
attività. L’una costituisce il nome civile, diritto della personalità, tutelato dalle norme
codicistiche e dalle disposizioni costituzionali che salvaguardano il diritto all’identità
personale, l’altra il nome commerciale, protetto come segno distintivo d’impresa.
3
L’espressione potrebbe apparire pleonastica, dato che anche i nomi, nel senso in cui qui è da intendere il
termine, sono segni distintivi Vanzetti A., Di Cataldo V., Manuale di diritto industriale, Milano, 2003, pag.
38 e ss.
4
Se viene ammessa la possibilità di concorso tra le due tutele, non può dirsi altrettanto per ammettere un
cumulo delle stesse. Il divieto di imitazione confusoria costituisce una norma generale di protezione dei
segni distintivi e permette di rafforzare sul piano sanzionatorio la scarna disciplina dettata a tutela della ditta.
Svolge infatti una funzione integrativa rispetto alle regole sui segni distintivi. In tal senso Abriani N., I segni
distintivi, nel Trattato di diritto commerciale, diretto da G. Cottino, II, Padova, 2001, pag. 6 e ss.;
La stessa distinzione si ripropone negli stessi termini quando l’attività d’impresa sia
svolta in forma collettiva. Anche nel diritto delle società si presenta infatti
5
la dicotomia
tra il nome sociale, segno di identificazione personale del gruppo organizzato in quanto
tale, designato come ragione sociale per la società di persone e denominazione sociale
per quelle di capitali ed assistito, in via di applicazione analogica, da una tutela
corrispondente a quella che assiste il nome civile delle persone fisiche; e la ditta, sotto la
quale è esercitata l’attività dell’impresa collettiva.
5
Come è stato limpidamente argomentato da Costi R., Il nome della società, Padova, 1964, pag. 113 e
condivise da Mangini V., In tema di circolazione del nome della società e di ditta sociale derivata, in Giur.
comm., 1975, II, pag. 503, per il caso “Tecnoceram”, non paiono revocate in dubbio dalla proposta, poco
convincente, di radicare la tutela dell’interesse alla corretta identificazione dei gruppi organizzati titolari
d’impresa nell’applicazione analogica del divieto di concorrenza sleale.
Paragrafo secondo:
(segue)… e distintività nell’operatività sul mercato
Particolare rilievo assumono sul mercato i segni distintivi specificamente utilizzati nei
confronti del pubblico dei consumatori, vale a dire inerenti a beni e servizi offerti appunto
ai consumatori. Se è vero che il regime concorrenziale può dare i buoni frutti che il
liberismo da esso si attende solo a condizione che ad essere premiato dal mercato sia
chi realmente vi opera meglio, è chiaro che presupposto della stessa possibilità che la
concorrenza si svolga fruttuosamente, è il fatto che il consumatore possa attribuire i
meriti e i demeriti dei prodotti e dei servizi che gli sono offerti, all’imprenditore dal quale
realmenmte provengono. Ciò sarà possibile solo per il tramite dei segni distintivi.
Nell’ambito di tale nozione rientrano le tre principali categorie di segni distintivi detti
“tipici” (in quanto specificamente considerati e protetti dal legislatore), che sono la ditta, il
marchio e l’insegna. Di essi, l’imprenditore si può avvalere per distinguere,
rispettivamente, la propria attività di impresa, i propri prodotti e i propri esercizi aperti al
pubblico (o locali), dall’attività, dai prodotti e dagli esercizi commerciali dei concorrenti
6
.
La funzione verso cui convergono questi segni distintivi, non è altro che quella di
permettere al pubblico e, in particolare ai consumatori, di individuare i vari operatori
economici, ricollegando a ciascuno di essi le rispettive imprese operanti sul mercato e i
relativi prodotti che in esso vengono offerti, così da poter indirizzare in modo
consapevole le proprie scelte. Sotto questo profilo i diritti sui segni distintivi concorrono a
costituire, in diverse sfumature e con diversa importanza, la forza propulsiva
dell’imprenditore sul terreno concorrenziale.
Secondo un’idea risalente alla dottrina tedesca di fine ottocento, peraltro superata, il
diritto sul segno distintivo non è altro che un diritto di proprietà su un bene immateriale.
La dottrina dei beni immateriali
7
venne elaborata in riferimento al diritto d’autore, alle
invenzioni e ai segni distintivi allo scopo di distinguere tra la creazione intellettuale
oggetto del diritto e la sua estrinsecazione materiale.
Si avvertono qui, con tutta evidenza le suggestioni di un’epoca, ancora abbastanza
vicina, che considerava il diritto di proprietà come modello archetipico della situazione
6
Vanzetti A., Di Cataldo V., Manuale di diritto industriale, Milano, 2003, pag. 119 e ss.;
Sena G., Il nuovo diritto dei marchi, Milano, 2001, pag. 16 e ss.; Di Cataldo V., I segni distintivi, Milano,
1993, pag. 1 e ss.; Ricolfi M., I segni distintivi, Torino, 1999, pag. 2;
Auteri P., voce Segni distintivi dell’impresa, in Enciclopedia giuridica Treccani, XXVIII, Roma, 1992, pag.
1;
7
Questa teoria riconosce che i segni distintivi possono essere considerati e tutelati come beni autonomi,
come beni immateriali; è l’oggettiva considerazione del segno, suscettibile a sua volta di circolazione, che
permette di ravvisare in questo un bene immateriale, oggetto di diritto assoluto, contrapponendo perciò la
relativa disciplina a quella generale della concorrenza sleale. Ascarelli T., Teoria della concorrenza e dei
beni immateriali, Milano, 1957, pag. 269 e ss.;
Greco P., Apporto in società del nome commerciale e di beni immateriali in genere, in Riv dir. comm., 1949,
II, pag. 340;
giuridica attiva, e ad esso, coerentemente riconduceva ogni diritto soggettivo, per tal via
sopperendo, col richiamo ad una normativa articolata e completa (appunto quella della
proprietà)
8
, alla povertà della disciplina speciale.
Il nostro sistema normativo dedica ai marchi una disciplina analitica contenuta negli art.
2569-2574 del c.c. e nel r.d. 21 giugno 1942 n. 929 (la cosiddetta legge marchi):
disposizioni in più punti novellate dal d. lgs. del 4 febbraio 1992 n. 480, a cui vanno ad
aggiungersi numerosi accordi e convenzioni internazionali. A questa completa ed
articolata disciplina si contrappone l’essenziale regolamentazione della ditta, alla quale
sono dedicati gli art. 2563-2567 c.c.
La ditta non è altro che il segno distintivo dell’impresa: si vedrà poi se maggiormente in
funzione soggettiva, cioè volta a distinguere il soggetto singolo od associato che esercita
l’impresa, o in funzione oggettiva, cioè volta a distinguere l’azienda ossia quel
complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa.
Si dice che la ditta è, al contrario degli altri mezzi di identificazione (marchio, insegna,
ecc.), un segno distintivo necessario
9
. Con questo ci si vuole riferire al fatto che, se
l’imprenditore all’atto di iniziare l’attività non ha provveduto ad adottare una ditta allora
vorrà dire che il suo nome commerciale coinciderà con il suo nome che di fatto utilizza
ossia col suo nome civile (prenome e cognome). Ma la differenza tra nome civile e ditta
dal punto di vista concettuale è evidente visto che il nome civile distingue l’imprenditore
nei rapporti extra aziendali mentre la ditta riguarda i rapporti afferenti l’esercizio
dell’impresa. Mentre nei rapporti extra aziendali si può verificare l’identità del nome civile
(omonimia), nei rapporti imprenditoriali l’interferenza della funzione concorrenziale della
ditta esclude l’esistenza di ditte identiche.
Non si tratterà quindi di una coincidenza concettuale tra ditta e nome civile, in quanto
quest’ultimo (oggetto di un diritto personale e intrasmissibile), in vista di queste
considerazioni, conserverà una funzione e una disciplina nell’art. 7 c.c. del tutto distinte
rispetto a quelle assegnate dagli art. 2563 ss. c.c. alla ditta, oggetto di un diritto di natura
patrimoniale e disponibile.
Il marchio che è il segno distintivo del prodotto o del servizio che l’impresa offre sul
mercato, viene considerato il più efficace tra tali segni di identificazione, la cui funzione
di individuare il risultato finale di un’attività di produzione o di scambio non può non
assumere connotati di essenzialità in un mercato caratterizzato dall’affluenza di beni
strumentali e di consumo delle più diverse provenienze.
10
8
Valse quindi a giustificare l’assolutezza della tutela fornita dall’ordinamento a tali creazioni, che venne
affermata tramite l’applicazione delle regole del diritto di proprietà, parlandosi appunto di proprietà su un
bene immateriale Santini G., I diritti della personalità nel diritto industriale, Padova, 1959, pag. 1 e ss.;
Franceschelli R., Beni immateriali (saggio di una critica del concetto), in Riv. dir. ind., 1956, I, pag. 380;
9
Buonocore V., (a cura di), Manuale, op. cit., pag. 517 e ss.; Mangini V., voce Ditta, op. cit., pag. 79;
10
Secondo una ricostruzione elaborata alla fine degli anni venti e peraltro ancora attuale, possono ravvisarsi
tre distinte funzioni economiche del marchio: funzione di garanzia di qualità, funzione di indicazione di
provenienza o funzione distintiva e funzione attrattiva. Di esse le prime due, tra loro piuttosto vicine, sono
funzioni che il marchio ha storicamente conosciuto fin dal suo primo apparire, mentre la terza appare con
chiarezza solo in sistemi economici che diano largo spazio alle tecniche di pubblicità commerciale, e quindi
Secondo il legislatore, il marchio è quindi un segno distintivo e a questa funzione
corrisponde d’altra parte la struttura del diritto sul marchio, che come ogni diritto su
segno distintivo è diritto di esclusiva. Tale natura esclusiva del diritto è essenziale in
ordine ai segni distintivi, che ove potessero essere adoperati da una pluralità di soggetti,
distintivi non sarebbero più. Ed a ciò si collega il fatto che si ha violazione del diritto al
marchio quando esso venga usato da terzi, cosicché quando si parla di tutela del
marchio ci si riferisce al sistema di prevenzione e di sanzioni che la legge dispone per
impedire quest’uso.
Il marchio costituisce, come del resto anche gli altri segni distintivi, un tipico strumento
collettore di clientela
11
, che questa volta si riferisce al prodotto, (fabbricato, messo in
commercio, introdotto nello stato) o ad un servizio (attività delle imprese di trasporto o
comunicazione, pubblicità e costruzioni, assicurazioni e credito, spettacolo, radio e
televisione, trattamento di materiale e simili).
Tale funzione del marchio ha riscontrato un notevole successo forse per via della
ambiguità che tale definizione racchiude. Con tale definizione si intende che il marchio,
in qualche modo indirizza la clientela verso quel prodotto, ma nulla aggiunge sul come e
perché ciò si verifichi. Questo porta alla considerazione che tale definizione è da evitarsi
proprio per via della sua ambiguità in quanto fonte di possibili equivoci.
A differenza della ditta, che identifica quel determinato imprenditore (o quella
determinata azienda) o dell'insegna, che identifica quel determinato locale (o quella
determinata azienda nel suo complesso) il marchio "caratterizzerà dunque una
subcategoria del prodotto pur contraddistinto da quelle caratteristiche generiche che
corrispondono alla sua denominazione: fra tutte le pipe quelle Dunhill sono
contrassegnate da un puntino bianco-avorio"
12
.
risulta un fenomeno tipico dell’età contemporanea Di Cataldo V., op. cit., pag. 20, Ascarelli T., op. cit.,
pag. 352 e ss.; Franceschelli R., I marchi, op. cit., pag. 161 e ss.;
10
Mangini V., op. cit., pag. 57 e ss.;
Franceschelli R., voce Marchi d’impresa, in Nuoviss. dig. it., X, Torino, 1968, pag. 216; Aghina G, La
utilizzazione atipica del marchio altrui, Milano, 1971, pag. 27 e ss.; Galli C., op. cit., pag. 51 e ss.; Auteri
P., op. cit., pag. 2. Oggi la funzione attrattiva viene tutelata in via autonoma, e alcuni autori ritengono che la
principale funzione sia quella distintiva, in tal senso Ghidini G., Auteri P., La riforma della legge marchi,
Padova, 1995, pag. 8 e
Ghidini G., Auteri P., op. cit., pag. 92.
11
Vanzetti A., Funzione e natura giuridica del marchio, in Riv. dir. comm., 1961, I, pag. 47; Ascarelli T.,
op. cit., pag. 313 e ss.; Guglielmetti G, Rapporti tra nomi e marchi, in Riv. dir. ind., 1953, I, pag. 316;
Auletta G., Mangini V., Del marchio del diritto d’autore sulle opere dell’ingegno letterarie e artistiche in
commentario del codice civile a cura di Scialoja e Branca, Bologna.-Roma, 1977, pag. 5; Galli C., Funzione
del marchio e ampiezza della tutela, Milano, 1996, pag. 11;
12
Ascarelli T., op. cit., pag. 349;