5
e costruisce la propria personalità. Anche la vacanza smette di essere standardizzata ma
diventa personale e differenziata, spesso investita anche di grandi aspettative. Nasce
attorno al mondo dei desideri un sistema produttivo al alto contenuto relazionale e
simbolico, nascono nuove professioni e nuove competenze legate all’intrattenimento.
Come impresa-simbolo della nuova economia del simbolico e come oggetto di studio
del nostro lavoro di tesi è stato scelto il parco di divertimenti e per le sue peculiarità, in
particolare, il parco acquatico di Riccione Aquafan. Per capire come l’impresa-parco
possa racchiudere in sé i tratti tipici dell’azienda post-fordista, abbiamo ritenuto
opportuno, dedicare il secondo capitolo alla descrizione delle principali teorie
organizzative relative all’apprendimento organizzativo. Attraverso di esse infatti, è stato
poi possibile studiare l’apprendimento organizzativo e la gestione delle risorse umane
nel parco, oggetto del nostro studio. Come abbiamo già accennato infatti,
l’apprendimento organizzativo è oggi risorsa strategica, è il mezzo attraverso il quale le
aziende acquisiscono valore aggiunto, flessibilità e diventano competitive rispetto alle
altre. La produzione di conoscenza, essenziale per ogni tipo di azienda diventa
fondamentale nell’economia del simbolico. Produrre un bene altamente relazionale e
immateriale come il divertimento, implica possedere una grande capacità di
apprendimento, per essere unici, flessibili alle necessità del cliente, innovativi e
sensibili ad ogni cambiamento e tendenza in atto. Concetti come conoscenza tacita e
conoscenza esplicita, il processo di creazione di conoscenza organizzativa, la teoria
dell’apprendimento situato, l’apprendimento come fenomeno sociale, la nozione di
partecipazione legittima e periferica, di comunità di pratiche e di sistemi di attività sono
tutti elementi che abbiamo poi utilizzato nell’analisi del parco per capire come avviene
in esso la creazione di conoscenza. Dopo aver analizzato quindi, l’importante aspetto
dell’apprendimento organizzativo, siamo passati nel terzo capitolo alla trattazione di un
tema altrettanto importante che emerge nel passaggio dal fordismo al post-fordismo.
Riemerge infatti, nell’economia dell’immateriale, l’importanza del territorio. La
riscoperta dei saperi e delle conoscenze legate al territorio, il concetto di capitale
sociale e la nascita dei distretti industriali (Rullani e Romano, 1998), dove il territorio
funge da “collante”, da mediatore cognitivo, ci hanno introdotto all’analisi di quello che
Bonomi (2000) definisce il distretto del piacere: un luogo dove è possibile scoprire
tendenze, stili di vita e di consumo da cui poi dipende la produzione delle merci, un
punto strategico di osservazione, legato alla dimensione del territorio e del locale.
All’interno del distretto dell’intrattenimento vediamo nascere una nuova dimensione del
6
lavoro che si discosta dai tempi e dai luoghi consoni, ma diventa lavoro stagionale,
lavoro così detto “atipico”, professioni che necessitano di competenze specifiche ma
soprattutto di una grande predisposizione personale, data anche dall’essere nati e
cresciuti all’interno di tale distretto ed averne quindi appreso attraverso la pratica e
l’esperienza, i valori guida e i saperi taciti e manifesti. Nel capitolo quarto siamo invece
entrati nel mondo dei parchi, poiché un parco è il tipo di azienda che abbiamo poi
studiato, descrivendo come si inserisce nel mercato globale come organizzazione
emergente, ma di grande successo, nel sistema produttivo del loisir. Dall’esperienza
americana, arrivano anche in Italia i grandi parchi tematici e di divertimento, delle vere
e proprie “città della fantasia” dove massima è l’attenzione alla qualità della vita, al
benessere e al divertimento. Il parco è un luogo chiuso e protetto dove poter trascorrere
una giornata all’insegna del relax e dello svago, dove chi entra diventa protagonista e
dove chi vi lavora diventa un attore il cui ruolo è quello di divertire. Abbiamo infine
cercato di collegare il parco a tutti gli aspetti fin’ora esposti, definendolo come impresa-
simbolo dell’economia del simbolico, come organizzazione in grado di apprendere,
come mezzo di comunicazione di massa, per il legame del parco con il mondo dei mass
media e del legame tra il parco e il territorio. Il parco da noi scelto infatti, sorge a
Riccione, nel cuore della Riviera Romagnola, località già nota e meta di turisti, un
territorio ricco di storia e tradizione. Nel quinto capitolo infatti è stato decritto, il più
dettagliatamente possibile l’oggetto della nostra ricerca, il parco acquatico di Aquafan e
sono stati esposti gli obbiettivi e la metodologia seguita. Il nostro obbiettivo era quello
di trovare riscontro agli elementi teorici prima esposti, all’interno di un parco che, per il
suo grande successo, si differenzia da tutti gli altri parchi acquatici d’Italia. Lo scopo è
stato quindi di capire quale fosse la chiave del successo del parco, cosa lo rendesse
unico e inimitabile, un’organizzazione di servizi sempre all’altezza della situazione e
della competizione. Il capitolo sesto è stato quindi dedicato all’esposizione dei risultati
della ricerca e delle conclusioni. Attraverso le testimonianze degli attori intervistati,
abbiamo cercato di ricostruire il lavoro nel parco, le professioni e le competenze, la
gestione delle risorse umane, le attività formative, abbiamo visto come nasce un’idea
creativa in Aquafan, come avviene la comunicazione, qual è il legame con il territorio e
con le associazioni e gli enti locali.
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PARTE PRIMA
Capitolo primo
Dal fordismo al post-fordismo. La nascita della società del loisir
1.1. La società del loisir
La società contemporanea viene descritta, da studiosi e ricercatori delle scienze
economiche e sociali, come una società in crisi d’identità. La crisi delle tradizionali
istituzioni sociali e le trasformazioni economiche in senso post-fordista, hanno
determinato, infatti, profondi cambiamenti nella vita sociale ed economica delle persone
tanto da definirla come fa Bauman la società dell’incertezza, ovvero, una società dove
le politiche statali e le decisioni pubbliche e collettive lasciano sempre più all’individuo
la responsabilità di pensare alla propria formazione e realizzazione personale (Bauman,
1999). Il modello di capitalismo post-fordista infatti, come si vedrà in maniera
approfondita nei prossimi paragrafi, rischia di costringere l’uomo contemporaneo a
rinunciare ad un progetto di vita e di carriera lavorativa lineare e coerente, vivendo
quindi in uno stato di continua precarietà ed incertezza (Sennet, 1999).
La crisi dell’occupazione, dei sistemi tradizionali di regolazione del mercato del lavoro
e del welfare state, hanno aperto a ricercatori e amministratori due nuove prospettive di
analisi e di ricerca: una sul tema della flessibilità ed una sugli effetti di trasformazione
strutturale indotti dal processo di terziarizzazione
1
, in atto nei sistemi produttivi. Ế in
questo clima di grandi trasformazioni che prende forma quella che si indicherà come la
società del loisir, una nuova dimensione dove l’individuo possa ricercare nuovo senso,
nuova identità e nuovi profili professionali, un tipo di società che nasce in seguito al
passaggio dal fordismo al post-fordismo, e che incarna di quest’ultimo tutte le
caratteristiche. Gli autori Minardi e Lusetti, nella loro opera “Luoghi e professioni del
loisir” (1997b), individuano, a partire da queste trasformazioni dei sistemi produttivi e
soprattutto delle grandi innovazioni tecnologiche, due concetti chiave: informazione, da
un lato e tempo libero dall’altro. L’informazione, in stretta connessione con
l’innovazione tecnologica, ha permesso, infatti, la ristrutturazione e la rivalutazione
delle professionalità e dei sistemi tecnici di produzione rimasti immodificati per troppo
1
Sotto il profilo economico, indicano gli autori Minardi e Lusetti, si vedano i contributi di F. Somigliano e, sotto il
profilo sociologico, l’approfondita rassegna, anche se un po’ datata, effettuata da Manuela Olagnero (Terziario e
terziarizzazione nell’analisi sociologica. Profili di analisi e di ricerca, Angeli, Milano, 1982).
8
tempo. L’informatizzazione e l’automazione si sono trasformate in un vero e proprio
fattore di produzione, capace di dare nuovo valore ai processi produttivi. Il tempo
libero, invece, da una parte, rappresenta per gli individui il risultato di un processo di
liberazione di tempo di lavoro, facilitato appunto dall’innovazione tecnologica e dalla
rivoluzione dell’informazione, e d’altra parte, la possibilità di compiere quelle attività e
dedicarsi a quei consumi, che generano domande di beni relazionali e di prestazioni di
servizio per il benessere individuale e lo scambio simbolico. Gli autori vogliono
sottolineare come informazione e tempo libero hanno provocato strutturali cambiamenti,
sia nella sfera dei consumi simbolici che in quella dello sviluppo di nuove opportunità
occupazionali, da cui nasceranno poi, come si vedrà più avanti, inediti profili
professionali. Nella nuova società post-fordista mentre i soggetti dell’economia sociale
sono impegnati sul mercato e sullo sviluppo di un nuovo tipo di stato sociale, attraverso
una diversa distribuzione del tempo di non lavoro si è formata la società del loisir , un
vero e proprio sistema produttivo di beni relazionali a prevalente contenuto simbolico.
Nuovi profili professionali e nuovi sistemi produttivi si sono sviluppati proprio attorno a
questa parola loisir, che non trova una degna traduzione nella lingua italiana. Loisir è il
tempo libero, ma non solo, è divertimento e ricreazione sociale, è ozium come lo
intendevano i latini, ma dal carattere essenzialmente sociale e collettivo che esso ha
assunto nelle società post-fordiste. Il concetto di loisir, inoltre, si lega alla necessità dei
sistemi organizzativi di una maggiore flessibilità per la produzione di beni materiali e
immateriali.
La sociologia italiana ha affrontato il tema del loisir seguendo principalmente due
approcci di studio: uno maggiormente empirico sugli usi sociali del tempo libero,
attraverso ricerche già cominciate negli anni ‘60
2
, o più di recente le ricerche sui bilanci
di tempo
3
, di particolare rilevanza per la capacità di esaminare in una dimensione più
ampia l’organizzazione sociale del tempo, soprattutto nelle città; ed uno, più recente,
incentrato sulla rielaborazione in un quadro di mutamenti della struttura sociale ed
economica di tipo post-fordista
4
. Minardi e Lusetti (1997b) invece, propongono il loro
interesse di ricerca per rintracciare le forme, i contesti organizzativi, i fattori produttivi,
i codici della rappresentazione e della comunicazione, i mediatori professionali,
2
Ci si limita qui a ricordare, senza rispettare l’ordine cronologico, le ricerche di B. Grazia-Riesi e di E. Koch-Weser.
3
Gli studi più recenti ed approfonditi sono di M. C. Belloni (in particolare si veda: Id., “Il tempo libero in una
metropoli”, in Quaderni di sociologia, XXIX, 1980-81, n. 3.)
4
la tradizione e quella di Paul Lafrargue, a cui si rivolge Domenico De Masi, nel testo da lui curato, Economia dell’ozio
(Olivares, Roma, 1992); in questo testo a Lafargue associa Bertrad Russel con il suo “Elogio dell’ozio”. A questo testo
D. De Masi fa poi seguire una brillante conversazione su L’ozio creativo, a cura di M. S. Palieri, Ediesse, Roma, 1995.
9
attraverso i quali il loisir, come insieme di attività sociali non immediatamente
riconducibile ai tradizionali processi della produzione industriale, si afferma come uno
dei fattori attorno ai quali ruota la riorganizzazione dei modelli dell’organizzazione
sociale, anche se si tratta chiaramente di uno dei fattori e non di quello esclusivo.
Le trasformazioni del lavoro introdotte con l’innovazione tecnologica hanno
determinato un effetto di liberazione di forza lavoro, ma soprattutto hanno creato nuovo
tempo, un tempo liberato, di particolare importanza per i mutamenti sociali e culturali
che a sua volta induce. Il tempo liberato è un tempo diverso, che non coincide
esattamente con il riposo, né con il tempo necessario alla riproduzione sociale e
culturale, né con gli spazi temporali prodotti dalla maggiore flessibilità del lavoro. Il
tempo liberato è quella dimensione nella quale l’individuo può costruire il proprio
percorso di identità e di differenziazione, dove può cercare forme di rappresentazione
del sé e di nuova legittimazione sociale, sfuggendo ai criteri di conformità, ad istituzioni
già stabilite, a luoghi e spazi programmati per lo sviluppo di attività socialmente e
funzionalmente utili (Minardi e Lusetti, 1997b). Le politiche di riduzione dell’orario di
lavoro sono importanti per una nuova e diversa politica dei tempi nella vita delle
persone e delle comunità, ma non incidono sul tempo liberato, poiché esso rappresenta
la possibilità e non la necessità, che gli individui hanno di appropriarsi di una autonoma
progettazione e di una originale costruzione sociale. Il tempo liberato diventa
espansione della qualità della vita, un prolungamento delle sue abilità a partecipare ai
diversi “giochi di società”
5
. Nel loisir si comprendono quindi tutte quelle attività volte
al piacere estetico, al divertimento individuale e collettivo, alle attività creative e
comunicative, all’ozium creativo, al viaggio come percorso di esplorazione in mondi
reali e immaginari, alla rappresentazione della memoria e del sogno. Tutte queste
attività danno vita a nuove forme di relazioni sociali, che organizzano e distribuiscono
nuovi beni simbolici.
La società del loisir porta con sé diverse conseguenze a partire dalla crescita di imprese
ed addetti operanti nel settore della creazione artistica, della comunicazione sociale,
della mobilità turistica, dell’intrattenimento e dello spettacolo dal vivo; la formazione di
bacini territoriali dove la forte componente turistica ha incentivato l’insediamento di
attività ed imprese finalizzate alla comunicazione, alla promozione delle abilità
5
Il tempo liberato starebbe anche alla base dell’insieme delle attività volontaristiche e solidaristiche che si sogliono
ricondurre al settore della economia sociale (o detto al “terzo settore”). Si vedano in proposito le tesi di G. Aznar,
Lavorare meno per lavorare tutti. Venti proposte, Bollati Boringhieri, Torino, 1993, ad ancora più recenti quelle di J.
Rifkin, La fine del lovoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato, Baldini & Castoldi,
Milano, 1995.
10
artistiche, all’intrattenimento ed allo spettacolo; la crescita elevata di pubblici fruitori
dei beni di intrattenimento e spettacolo, prodotti da soggetti ed imprese che passano da
tempi di attività strettamente stagionali ad annuali; la differenziazione e la
moltiplicazione dei luoghi di insediamento di imprese di loisir; la formazione e lo
sviluppo di percorsi di professionalizzazione e di profili professionali inediti, che da
stagionali diventano permanenti determinando effetti positivi sull’occupazione ed
infine, l’affermarsi di una particolare domanda di managerialità nelle imprese del loisir,
che richiedono standard elevati e performances specifiche (Minardi e Lusetti, 1997b).
Esisterebbe, quindi, uno spazio temporale che si differenzia, ma è legato allo stesso
tempo, dal lavoro salariato, dotato di una sua autonomia di fini e di organizzazione che
si traduce nella costruzione di azioni che elaborano senso, si rivestono di simboli e di
significati, originano processi comunicativi e di scambio nell’insieme delle interazioni
sociali tra individui e gruppi sociali che negli spazi del “non lavoro” trovano ragioni e
fondamento della propria identità e della ricerca di una nuova legittimazione. Il tempo
di non lavoro è qui da intendere come il tempo che sfugge al controllo diretto della
struttura normativa e simbolica del sito lavorativo. Minardi e Lusetti, spiegano, al fine
di evitare fraintendimenti, che sia il concetto di tempo liberato, sia quello di attività di
loisir, non sono da intendere come attività pure ed incontaminate, anche perché
andrebbe contro a tutto quello che si sosterrà nei prossimi paragrafi. Il loisir che si fa
impresa, dimostra infatti, come le due sfere, lavoro e tempo libero, si confondono dando
vita alla società della conoscenza e alla produzione immateriale di beni simbolici che
caratterizzano la produzione post-fordista. Gli autori vogliono, usando definizioni forse
un po’ estreme, enfatizzare l’importanza del fenomeno, e esprimere la necessità di
studiarlo, sia per la rilevanza economica della nuova industria del divertimento, sia per i
cambiamenti sociali e culturali che la società del loisir riflette in seguito al passaggio
dal fordismo al post-fordismo. Le attività di loisir diventano uno dei possibili canali
attraverso cui si diffondono modelli culturali e si riproducono immagini e
rappresentazioni della realtà, si configurano processi comunicativi e di ricerca di nuove
legittimazioni sociali, si predefiniscono ruoli e profili sociali che vanno dal campo del
management a quello delle nuove mediazioni sociali, simboliche e culturali.
11
1.2. Economia e società nel post-fordismo
Ế necessario, ora, fare un piccolo passo indietro, per capire e descrivere più a fondo
quelle trasformazioni socio-economiche che hanno determinato la nascita della così
detta società del loisir. Non si può infatti analizzare tale realtà senza inserirla in un
contesto più ampio e senza conoscerne lo sfondo delle trasformazioni dei sistemi
produttivi e della regolazione sociale.
Quando si parla del passaggio dal fordismo al post-fordismo si parla di una transizione
da un paradigma consolidato e riconosciuto in maniera univoca da tutti gli studiosi, a un
paradigma dai contorni ancora sfumati, ancora in via di formazione e definizione
(Rullani e Romano, 1998). Dal secolo scorso infatti, si è assistito all’indiscusso declino
del fordismo, al modo in cui aveva plasmato istituzioni e modi di vivere degli individui,
aprendo la strada a quel paradigma che viene denominato appunto post-fordismo, come
un’immagine al negativo di qualcosa che già si conosce. Parlando di un “paradigma
emergente” Rullani e Romano (1998), sottolineano come il post-fordismo non è
riducibile solo a tutto quello che si discosta dal modello fordista, ma è molto di più. La
caratteristica del nuovo modello post-fordista è infatti, in primo luogo, la complessità,
oggi gestibile grazie ai nuovi mezzi tecnologici, organizzativi e culturali. La transizione
in corso si caratterizza per l’assenza di un’organizzazione coerente, e per la sua, già
definita, ma duttile, apertura e indeterminatezza. Si è ormai lontani dalla rigidità della
catena di montaggio, oggi si parla di flessibilità, di riorganizzazione cognitiva, di realtà
virtuale, che ridefiniscono e danno nuovo significato alle azioni, ai problemi e alle
soluzioni. I comportamenti collettivi non sono più regolati da un severo sistema
gerarchico, ma basati sulla cooperazione, sulla comunicazione e sulla condivisione di
esperienza e conoscenza. Il post-fordismo ha come suoi punti di forza robusti
presupposti cognitivi e relazionali che gli permettono di svilupparsi nella complessità: la
capacità di apprendimento e la capacità di trasmettere e diffondere a tutti coloro che
nella rete hanno bisogno di quanto si è appreso. Il sistema post-fordista, punto
estremamente rilevante per il sistema del loisir, riserva i suoi investimenti più
importanti, non più alle strutture fisiche o ai sistemi proprietari come nel secolo scorso,
ma nello sviluppo dei sistemi cognitivi che organizzano la conoscenza distribuita
all’interno delle imprese e tra i loro membri; nella struttura a rete che permette a più
individui anche se distanti tra loro di lavorare in un rapporto di reciproca
interdipendenza; i linguaggi che organizzano la loro comunicazione e la cooperazione; i
12
sistemi di garanzia che danno forma alla divisione del lavoro cognitivo e i modelli di
condivisione del rischio.
Il fordismo classico era basato su un’idea scientifica del sapere produttivo, la
produzione stessa veniva considerata un processo completamente artificiale,
scientificamente controllato e indifferente al contesto. Luoghi e tempi della produzione
dovevano essere sempre controllabili e non dovevano contenere elementi che potessero
differenziare un contesto locale da un altro, una situazione contingente da un’altra
(Agostinelli, 1997). La produzione fordista nel suo progetto classico, seguiva una
razionalità de-territorializzata e de-storicizzata. Tutto secondo il progetto di Ford e
Taylor, doveva essere, oggettivo, computabile e controllabile. In questo modo il
fordismo assume tutti i tratti dell’autoritarismo con un potere centralizzato che risolve
problemi ed ha responsabilità, e gli operatori situati nei diversi contesti che eseguono
pedissequamente gli ordini che prescindono dal loro contesto specifico. Controllo totale
delle dinamiche di mercato e della produzione, completa autosufficienza, crescita
indefinita dei volumi produttivi (economie di scala), e standardizzazione, tutti i principi
su cui di fondava il sistema fordista erano destinati a crollare. Ci si rese presto conto
infatti che tali pretese non erano realizzabili e si cominciò a riconoscere la qualità
specifica di ciascun luogo dello spazio e di ciascun momento del tempo (Rullani, 1996).
Il sapere produttivo “astratto” ha dovuto così cominciare ad integrare conoscenze
pratiche di tipo contestuale acquisibili solo recandosi nei luoghi e collocandosi nel
tempo.
D’altro canto però, il fordismo, non è stato solo massificazione ma ha prodotto anche
identità collettive e forme di partecipazione. L’adesione degli individui a forme
collettive di azione sociale nella grande impresa e nello stato hanno, infatti, rafforzato il
potere contrattuale di ciascuno, ma, soprattutto, hanno reso possibili forme non
marginali di partecipazione e di identificazione con l’ordine sociale. La crisi della
rappresentanza e la perdita delle sicurezze, garantite un tempo dalle istituzioni e dalla
negoziazione fordista, viene fortemente percepita (Revelli, 1995). Si avverte più forte la
perdita di senso e il ridursi in frantumi delle identità prima trovate (Bonomi, 1996). La
società si scopre come un’insieme di individui che non hanno legami tra loro, ognuno
segnato dall’insicurezza individuale, soggetti che vivono lo stesso spazio senza avere
un’identità comune, condividono lo stesso destino senza essere una comunità in cui
potersi riconoscere (Marazzi, 1996). Ế proprio nella transizione che si ricercano nuovo
senso e nuovi obbiettivi, nuove energie e nuove possibilità, poiché essa ha il pregio di
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essere sperimentale, emergente. L’individuo ora è esposto al rischio, ma libero di
esprimere creatività e potenzialità, non essendo più schiacciato dai grandi sistemi e dai
meccanismi anonimi della razionalità sistemica. I soggetti sono chiamati a costruire
nuove relazioni, nuovi linguaggi, nuovi significati del produrre e del consumare. Il
sistema produttivo post-fordista pone infatti come suo concetto chiave quello di
flessibilità, indispensabile per affrontare la nuova competizione globale. Flessibilità è
qui intesa non come un sintomo di regressione rispetto alla rigida organizzazione del
modello precedente, ma anzi come condizione necessaria per la produzione di quel
valore aggiunto che permetterà all’impresa di sopravvivere. Le imprese post-fordiste, in
questo senso, devono imparare a muoversi cercando di seguire la variabilità dei mercati,
sostituendo a lunghi cicli di produzione ed alti volumi produttivi, una produzione di
beni e servizi che sia espressione di un sapere specifico finalizzato, in primis, alla
risoluzione dei problemi espressi dalla clientela (Reich, 1993). La flessibilità deve
essere anche in grado di “snellire” l’impresa liberandola dagli spechi, da tutto ciò che è
improduttivo, obsoleto e superfluo.
La razionalità economica dell’era industriale quindi è duramente in crisi. L’intera
cultura d’impresa che prevedeva la possibilità di pianificare gli investimenti produttivi,
la possibilità di progettare lo sviluppo su cicli di lungo periodo, la possibilità di
calcolare costi e rendimenti futuri, la possibilità sul piano individuale di progettare la
propria carriera professionale e di appoggiarsi e conformarsi a pratiche produttive
istituzionalizzate, oggi non esiste più. L’azienda vincente sarà, dunque, oggi quella che
riuscirà a meglio muoversi nella complessità, grazie alla flessibilità, alla capacità di
prendere decisioni in tempi rapidi, risolvere problemi inaspettati, scegliere tra diverse
possibilità di investimento, comunicare con l’ambiente in tempo reale e apprendere da
esso. La cultura post-fordista obbliga i suoi attori ad abbandonare rigidi progetti e
strategie ma ad investire sempre sull’innovazione e a saper prendere decisioni efficaci.
Questo comporta chiaramente, l’assumersi dei rischi, ora non più calcolabili come in
passato, ma basati sull’istinto, l’intuizione, la capacità di leggere tra le righe. La cultura
del rischio investe non solo il campo dell’economia, ma anche i comportamenti sociali,
mettersi in gioco, accettare le sfide della società globalizzata sono la chiave per il
raggiungimento di uno status privilegiato (Sennet, 1999).
Marazzi (1996) propone di vedere il passaggio dal fordismo al post-fordismo come una
svolta linguistica dell’economia, necessaria per modificare tempi e modi di produzione.
Ế la comunicazione che permette di sostenere il rovesciamento tra produzione e
14
consumo, offerta e domanda ed è sempre grazie alla comunicazione che il processo
produttivo può diventare sempre più flessibile. Nel post-fordismo la forza lavoro deve,
infatti, essere in grado di leggere il flusso continuo delle informazioni, deve saper
lavorare comunicando e sapersi adattare a ritmi e mansioni sempre nuove, non solo
nell’ambito della produzione ma nell’azione sociale, sono le identità ad essere messe al
lavoro e non più solo le competenze professionali.
Ế abbastanza intuitivo vedere, come tutte le caratteristiche dell’impresa post-fordista qui
descritte, siano pienamente rintracciabili nel sistema produttivo del loisir, e in
particolare nelle così dette nuove fabbriche del divertimento: i parchi. Flessibilità,
intuizione, grande professionalità, competenze specifiche ma allo stesso tempo capacità
di improvvisazione devono essere le parole chiave per questo tipo particolare di impresa
che produce beni ad alto contenuto relazionale e simbolico. Per questo è necessario
approfondire temi come l’importanza della circolazione e la creazione della conoscenza,
la produzione di beni immateriali, il capitale sociale legato al territorio, il capitale
umano che un’impresa possiede, le trasformazioni nel mercato del lavoro; per poterli
poi rintracciare nel sistema produttivo del loisir, dove per eccellenza devono essere
messi in opera.
1.3. La società della conoscenza
La fine dell’epoca fordista mette quindi l’individuo nella condizione di ricercare da solo
il proprio senso, la propria identità, senza l’involucro del sociale che lo aveva fino ad
allora vincolato ma anche protetto (Bonomi, 1996). Partiti, sindacati, associazioni,
tendono a perdere la loro funzione di mediatori sociali, ed ognuno partecipa alla
competizione e alla contrattazione sociale, individualmente. Il sentire individuale, le
emozionalità diventano le parole chiave per la continua ricerca di senso, in un contesto
sociale in cui si lavora comunicando immersi in una continua competizione. “La perdita
del passato e ciò che rende sospese le nostre vite” dice Bonomi (1996, pag. 23). La
società che si sta delineando secondo l’autore, è una società globale dove i processi
sociali si estendono facendo del mondo intero un unico sistema. La bioingegneria,
l’intelligenza artificiale, la realtà virtuale, l’agire comunicativo messo in rete per
lavorare, sono i tratti caratteristici nella nostra epoca e vanno ad incidere su quella che
era sempre stata considerata come la sfera privata. Oggi, Bonomi (2000), parla della
“nuda vita messa al lavoro”, dove non esistono più spazi sociali dove pensare, agire ed
15
essere. Nella società globalizzata e mondializzata ognuno è “formalmente” libero di
ricercare e di fare propri i simboli, i significati, le immagini in cui si riconosce meglio,
dimostrando in questo modo che il vero problema della nuova società post-fordista, non
è la mancanza di senso, ma la sua proliferazione.
L’economia basata sulla conoscenza, infatti, non produce solo valore di scambio, ma
produce e commercializza prima di tutto senso: senso nel lavoro, senso nel consumo,
senso nel ricoprire ruoli assegnati dalle istituzioni sociali. Nel funzionamento della
società della conoscenza c’è una domanda di senso che deve essere soddisfatta con
l’offerta di senso data dai lavori, dai consumi e dai ruoli sociali. Molte delle attività
svolte dalla collettività non sono finalizzate alla produzione di beni materiali, non
possiedono un valore di scambio quantificabile attraverso il loro prezzo, ma hanno un
valore invisibile non meno importante di quello visibile. L’esperienza del consumo, così
come quella del lavoro, è un’esperienza cognitiva, che ha valore per il significato che le
viene dato. Il valore invisibile è, infatti, un valore estetico e comunicativo, non un
valore oggettivo, riconosciuto da tutti, ma che appartiene solo a chi ne fa esperienza. Ế
per questo motivo, grazie alla disperata ricerca di senso di lavoratori, consumatori e
produttori, che la conoscenza è diventata la forza produttiva principale in tutto il mondo
industrializzato, l’unica capace di produrre valore e vantaggi competitivi durevoli. La
conoscenza entra a far parte della vita quotidiana, nasce dalla pratica, esplora nuovi
bisogni, arricchisce le imprese con nuove idee e nuovi messaggi, influenza le attività di
produzione e i consumi (Rullani, 2002a). Il lavoro principale dell’uomo non consiste
più nel trasformare fisicamente le cose, ma consiste nel produrre le conoscenze che gli
permetteranno di trasformarle, attraverso la produzione industriale. La disciplina
dell’economia della conoscenza nasce per rendere visibili ed analizzabili i processi
attraverso cui le conoscenze generano valore, e il suo centro sta nel rapporto tra
materiale e immateriale nei processi produttivi. L’immateriale usa il materiale come
punto di partenza per ulteriori trasformazioni cognitive che aggiungono valore alle
proprietà naturali e il loro valore d’uso degli oggetti materiali. Nella knowledge-based
economy (OECD, 1999a, 1999b), le merci vengono prodotte attraverso l’utilizzo della
conoscenza. Essa viene impiegata nei processi produttivi sia come fattore autonomo, sia
sotto forma di conoscenza che appartiene alle persone, incorporata negli oggetti e nei
servizi che contribuiscono al risultato produttivo. La conoscenza diventa quindi allo
stesso tempo, sia fattore produttivo che prodotto, in altre parole “si produce conoscenza
a mezzo di conoscenza” (Rullani, 2002a). La conoscenza, una volta prodotta, non deve
16
soltanto riprodursi , ma deve sopratutto innovarsi, adattarsi, svilupparsi, non perché si
consuma con il tempo ma in modo da sostituire le vecchie conoscenza con le nuove e
re-inventare, andare oltre. Ad ogni uso la conoscenza si rigenera, arricchendosi
attraverso l’esperienza di nuove sfumature, varianti, possibilità e grazie
all’apprendimento creativo dell’esperienza altrui. Altra caratteristica della conoscenza
quindi è quella di non essere mai finita e di non essere mai scarsa, poiché può sempre
essere riprodotta nei diversi contesti d’uso (Vicari,1998; Vicari, Trailo 1999).
1.4. Il capitale immateriale nel cuore della produzione
Economia e conoscenza sono oggi due sfere sociali, come si è visto, in stretto legame
tra loro. L’economia ha permesso alla conoscenza di espandersi e specializzarsi in
maniera sempre più approfondita e in diversi campi, mentre la conoscenza, a sua volta,
ha fornito all’economia idee, soluzioni, linguaggi necessari per innovare i sistemi
produttivi e di consumo. La conoscenza, nonostante sia stata di fondamentale
importanza nel passaggio tra fordismo e la nuova economia post-fordista, è stata sempre
considerata, per la teoria prevalente, una risorsa invisibile, o fuori mercato, o ridotta al
pari delle merci scambiabili. Rullani (2004), si discosta da questa visione e propone di
non considerare la conoscenza come una merce, ma come una risorsa in grado di
produrre valore e vantaggi competitivi proprio in ragione della sua differenza specifica,
che ne fa una non-merce. Ế da queste premesse, infatti, che nasce, secondo l’autore, il
capitalismo post-moderno, centrato sulla valorizzazione del capitale così detto
immateriale, o capitale umano, o capitale conoscenza, o capitale intelligenza, dove la
conoscenza viene considerata come la forza produttiva principale e la principale fonte di
ricchezza. Nei profondi sconvolgimenti del sistema economico, entra in crisi anche il
concetto di valore, fondamentale per capire le caratteristiche del capitale immateriale. Il
valore di scambio delle merci, materiali o no, non è più o non è più prevalentemente
determinato dalla quantità di lavoro impiegata a produrle, ma dal loro contenuto di
conoscenze, informazioni e intelligenza generali. La conoscenza racchiude in sé una
grande varietà di capacità eterogenee, come ad esempio il giudizio, il senso estetico, il
livello di formazione e di informazione, la facoltà di apprendimento e di adattamento a
situazioni impreviste, capacità a loro volta messe in pratica da attività eterogenee che
vanno dal calcolo matematico alla retorica e all’arte di convincere l’interlocutore, dalla
ricerca tecnoscientifica all’invenzione di norme estetiche (Gorz, 2003). L’etereogeneità
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delle attività di lavoro dette cognitive e dei prodotti immateriali che esse producono e le
capacità e i saperi in essi racchiusi, rendono non misurabile tanto il valore delle forze
lavoro quanto quella dei loro prodotti. La crisi della misura del lavoro in quest’ottica
comporta inevitabilmente la crisi della tradizionale misura del valore. Quando il tempo
necessario a produrre diventa incerto, diventa incerto anche il valore di scambio di ciò
che si è prodotto. In senso economico il valore indica il valore di scambio di una merce
con altre merci. Esso è essenzialmente relativo, nel senso che non risponde alla
domanda su che cosa vale, ma a quanto vale, in rapporto ad un’unità di misura: il
denaro. Questo chiaramente può essere applicato solamente alle merci, cioè a quei beni
che sono stati prodotti con lo scopo di effettuare scambi mercantili. I saperi e le
conoscenze allora, che valore hanno? E come possono costituire capitale immateriale? Il
sapere è, secondo Gorz (2003), innanzi tutto, una capacità pratica, un saper fare che non
implica necessariamente conoscenze formalizzabili o codificabili. La maggior parte dei
saperi non si apprendono attraverso la formazione teorica, ma attraverso la pratica. La
loro trasmissione consiste nella capacità del soggetto di prodursi da sé, e di capire di
aver appreso una volta che si è dimenticato di aver dovuto apprendere. Marazzi (1999,
p. 77), da la definizione di “nuovo capitale fisso” che ha come caratteristiche il fatto di
essere in appropriabile, indivisibile, non quantificato, diffuso:
(…) il nuovo capitale fisso è costituito dall’insieme dei rapporti sociali e di vita, dalle modalità di
produzione e di acquisizione delle informazioni che, sedimentandosi nella forza-lavoro, vengono poi
attivate lungo il processo di produzione.
Questo nuovo capitale fisso, che entra a far parte delle produzione, è di natura
essenzialmente sociale, comune a tutti.
Se il capitale immateriale, dunque, non può essere espresso in unità che ne quantifichino
il valore, come può essere definito capitale? I prodotti, nell’industria della conoscenza,
non sono merci in se stessi. Le conoscenze non sono prodotte per il loro valore di
scambio ma in quanto fonti di valore, che saranno incorporate dalle merci durante il
processo di produzione. La dimensione immateriale dei prodotti prevale sulla loro realtà
materiale, il loro valore simbolico, estetico o sociale sul loro valore d’uso pratico e sul
loro valore di scambio, che viene addirittura cancellato. La maggior parte degli utili è
realizzata grazie alla dimensione immateriale delle merci, basti pensare ai prodotti di
marca ad esempio. La marca da al prodotto un valore che va oltre la sua utilità,
funzionalità o il suo valore di scambio, rende l’oggetto unico ed incomparabile. Il
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capitale fisso immateriale di una azienda che produce oggetti di marca, comprende
quindi, la sua notorietà, il suo prestigio, che a loro volta costituiscono il capitale
simbolico e il talento, il saper fare, la creatività del personale che la produce e la
dimensione quasi artistica degli articoli (Gorz, 2003).
1.5. Capitale sociale e legame con il territorio
Si è già visto come il sistema fordista sia entrato in crisi proprio sotto la pressione delle
forze da lui stesso suscitate (Roobeek, 1987). Il controllo dei fattori di turbolenza o
incertezza e la realizzazione di grandi volumi di vendite, per assorbire gli elevati costi
fissi di programmazione e controllo, si dimostrano fallimentari a prevedere e a
governare la complessità ambientale, entrano in gioco due variabili fuori controllo, che
mettono in moto dinamiche imprevedibili con il conseguente aumento del rischio
(Kelly, 1994). Da qui nasce la necessità di gestire situazioni complesse, con elevata
variabilità e indeterminazione, attraverso l’applicazione di metodi sperimentali e
intuitivi, da usare con fantasia e spirito imprenditoriale (Pilotti, 1990). L’impresa post-
fordista deve andare a ricercare per la propria sopravvivenza, la flessibilità e il sapere
dove già c’è, e lo può fare aprendo dei veri e propri circuiti di conoscenza tra imprese
diverse (Piore e Sabel, 1984). Dagli anni settanta in poi, l’impresa moderna deve cercare
nuovi mediatori per la produzione e la propagazione delle conoscenze: l’interazione
comunicativa, il comune contesto di esperienza e il capitale sociale condiviso (fiducia,
riconoscimento reciproco, condivisione identitaria) (Lipparini, 2002; Rullani, 1998). Il
territorio fornisce ai sistemi decentrati quel bene relazionale di cui hanno bisogno, per
passare da un mercato disperso e impersonale, ad una rete localizzata di relazioni di
scambio e di condivisione tra persone e imprese concrete, direttamente coinvolte nella
relazione (Storper, 1997, 1998; Lanza, 2002). Piore e Sabel (1984) parlano di
specializzazione flessibile, un modello che caratterizza l’Italia del Centro-Nord, la
Germania Sud-occidentale, e , la Svizzera fino ad arrivare a Londra. In questo modello,
che in Italia trova la sua applicazione nei distretti industriali, è il territorio l’alternativa
al fordismo, ovvero il capitale sociale che la storia ha sedimentato nella cultura e nelle
pratiche delle società locali (Putnam, 1993; Becattini, 2000a; Bonomi, 1996, 1997,
Corò, 1998).