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È colpa della genetica o della “società insensibile”? Oppure è la
sfortunata conseguenza dell’essere nati in una famiglia che non è stata
capace di dare sufficienti amore e sicurezza?
Sono interrogativi a cui al momento gli psichiatri stessi non sanno
dare risposte. O meglio quello che non danno sono risposte secche ed
inappellabili, le uniche che una società di quiz televisivi sa invece
accettare.
Fare esperienza in una comunità terapeutica innanzitutto mi ha
permesso di capire che una “guarigione” clinica non deve essere lo scopo
su cui fossilizzarsi: cosa vuol dire guarire? E guarire da cosa? Da se stessi?
Gli ospiti al suo interno sono i “malati” che più di ogni altro fanno
paura, perché, apparentemente sani, soffrono, ma nonostante i passi da
gigante fatti dalla medicina e dalla psicologia non si è ancora trovata la
“pillola magica” che risolva tutti i problemi (altra convinzione invece tipica
delle società abituate agli eroici colpi di scena delle soap opera).
Le storie di questi pazienti sono complesse, sicuramente disseminate
di svariate problematiche mediche e sociali, ma ciò che da sempre ha spinto
ad isolarle, reprimerle, dimenticarle e disprezzarle è stata la loro inquietante
facilità di assimilazione con le proprie storie di vita: a volte può essere stata
anche solo una scelta sbagliata, un momento di debolezza in più ad aver
fatto precipitare in un baratro il delicato equilibrio che si definisce “la
salute mentale”.
Al giorno d’oggi, fortunatamente, stiamo vivendo una fase che si può
definire rivoluzionaria: dopo la ventata innovativa della fine degli anni ’70
si cominciano a veder i primi frutti della nuova organizzazione, con i suoi
punti di forza e di debolezza.
La comunità terapeutica è la rappresentante tipo della nuova idea di
psichiatria territoriale basata sulle strutture intermedie, che hanno uno
scopo ben diverso dal vecchio manicomio.
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Ora non si avverte più la necessità di nascondere, contenere e
difendersi, ma si è girata completamente la visione e la prospettiva:
restituire alla società i suoi membri, anche i “matti” hanno diritto, e per
questo devono assumersene la responsabilità, di vivere nel contesto sociale
liberi di costruirsi le proprie reti e senza il peso di una etichetta così
discriminante.
Ma come poter riprendere in mano le redini di una vita frantumata e
senza scopi? Qui entra in ballo la comunità terapeutica e l’educatore.
Da un lato all’interno di questa struttura operano gli psicologi, con
l’intento di ritrovare il nucleo della personalità dei propri pazienti,
restituirgli l’idea che come tutti gli altri anch’essi sono individui dotati di
un personale sé, inseriti in un preciso tempo e spazio (in un preciso “qui ed
ora”).
Dall’altro c’è l’educatore. Nel mio lavoro ho cercato di mettere
insieme quali sono le operatività e la valenza della sua presenza per fare
maggior luce sulla sua importanza.
Vivere insieme condividendo ogni cosa come in una famiglia: questo
è il senso di un periodo di soggiorno in una struttura comunitaria, questo il
campo di azione di un educatore.
Non c’è un setting limitato e preciso, con un orario definito insieme
nel corso del quale dedicarsi totalmente a tirar fuori i propri più nascosti
fantasmi. Quello educativo è un intervento riabilitativo continuo diluito in
tutti i gesti che fanno quotidianità.
La parentesi “comunità” aiuta a riappropriarsi del valore della vita:
ha il significato di un’esperienza del “come se”, di un periodo di prova in
cui fare chiarezza e rafforzare la propria capacità di scendere di nuovo nel
flusso degli eventi. È una vera e propria metafora dell’esistenza, e
l’educatore è mediatore di questo linguaggio nuovo per lo psicotico
cresciuto dentro una campana di vetro che è stata la sua gabbia dorata di
finta protezione dalle sofferenze del mondo.
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Porsi come modello, lasciarsi scoprire e saper essere un appiglio è
quanto il lavoro comunitario richiede ad un educatore: non si usano
maschere, niente inganni o difese personali. Per operare in questo campo
non si può prescindere da un profondo e sincero percorso personale di
svelamento ed autoaccettazione. Con buona probabilità tutto ruota davvero
intorno a questo concetto: ACCETTAZIONE. Di cosa? Di se stessi
innanzitutto, e questo è un obiettivo “terapeutico” che ci pone tutti sullo
stesso piano, pazienti ed operatori, in un processo di crescita che non si
conclude mai: è una meta che non si raggiunge una volta per tutte, è un
traguardo da tagliare ogni volta come se fosse la prima senza dare mai nulla
per scontato.
Questo è quanto insegna un’esperienza in comunità psichiatrica:
niente è mai detto una volta per tutte, non c’è chi vince e chi perde, ogni
attimo è una sfida nuova da vivere fino in fondo rimettendosi
continuamente in gioco.
La vita è una scommessa con se stessi, tale premessa è alla base
anche del progetto che non ho esitato a definire “evocativo” di
montagnaterapia. La trovo estremamente significativa e simboleggia
perfettamente la direzione che la Nuova Psichiatria sta seguendo. Apertura
verso l’esterno, e non un esterno astratto o di cui accontentarsi
mediocremente, ma un rivolgersi verso la natura, verso quanto di più
spettacolare essa ci regala: le vette più alte.
Non importa la stagione, il tempo, l’aspetto fisico o lo stato d’animo.
La montagna aspetta silenziosa ed accogliente chiunque decida di
avvicinarla. Chiaramente non si può farlo da sprovveduti, occorre
attrezzarsi materialmente e mentalmente all’esperienza, occorre sapere,
conoscere quali abilità sono necessarie e quanto è maturo spingersi oltre i
propri limiti oppure quando è raccomandabile fermarsi. Come di fronte a
qualunque novità che possiamo incontrare è necessario prendere coscienza
di tutti gli elementi che la compongono: quanto sacrificio è richiesto e
quale sarà la soddisfazione finale.
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Arrivare in cima vuol dire “ce l’ho fatta”, e questa esclamazione non
si limita all’abilità di aver saputo camminare nel modo giusto: è la spinta
che ognuno ridà a se stesso, rafforzato dal sostegno e dalla condivisione di
questo successo con gli altri che sono vincitori anch’essi, verso la più
importante ed impegnativa scalata che c’è: quella del restituirsi a se stesso,
consapevoli dei propri dolori, della propria malattia se si vuole continuare a
chiamarla così, ma nello stesso tempo consci del fatto che il dolore fa parte
della vita e che l’aver visto il buio non è certezza di fallimento, ma
premessa della capacità di saper gioire e godere a pieno della luce futura,
anche della più fioca.
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CAPITOLO 1.
QUESTIONE DI DIAGNOSI
“…naufragò in una notte cupa, infinita
E non trovò rottami per aggrapparsi,
tutto gli sfuggiva veloce tra le dita
e neppure dei propri sensi poteva fidarsi…”
“Tu Pace, sei l’ultimo orologio che mi rammenta
che si deve lottare per un parallelogramma di vita.
Sono uno sconfitto devotamente folle,
come una pallottola alzata al miracolo o allo scherno,
ma tu, tu taci”
1. QUALI DEFINIZIONI
1.1 PSICOSI
Con questo lavoro ho intenzione di presentare un percorso di tipo
educativo che può essere messo in atto all’interno di una “struttura
intermedia”, qual è la comunità terapeutica psichiatrica, attraverso il lavoro
dell’educatore professionale; sulla base di una diretta esperienza in tale
direzione.
Ma per addentrarsi competentemente in esso, è doveroso inquadrare
innanzitutto quale tipi di “disabilità” conducono una persona a diventare
ospite di una simile struttura.
Ho inserito in testa a questo capitolo due poesie, frutto
dell’immaginazione di uno psichiatra e di un “utente” psicotico.
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Ecco il primo termine su cui soffermare l’attenzione: psicosi. Si
tratta di una parola intorno alla quale sembra dominare un’atmosfera di
diffidenza, timore, quasi angoscia.
Che vuol dire essere definito psicotico? Per non cadere in facili
fraintendimenti e semplicistici pregiudizi, cerchiamo di riprendere quanto
manuali di psichiatria e psicopatologia riportano al proposito.
Nel corso della storia, innanzitutto, questo termine ha raggiunto
un’accettazione universale.
Il DSM –IV –TR
1
, il manuale diagnostico più aggiornato a cui
attualmente si rifanno gli specialisti per le diagnosi, propone due
definizioni:
ξ Una più restrittiva, fa riferimento ai deliri ed allucinazioni che
si verificano senza la consapevolezza della loro natura
patologica da parte della persona stessa;
ξ L’altra meno limitativa, include le allucinazioni che il
soggetto riconosce come esperienze allucinatorie
Con il termine psicosi, il DSM–IV–TR indica “una perdita dei
confini dell’Io o una compromissione della capacità d’esame della
realtà”.
2
Ciò che si verifica è un ripiegamento del soggetto all’interno, con
una conseguente diminuita relazione con la realtà: questo comporta
esperienze di derealizzazione (difficoltà di contatto con un mondo che
appare meno concreto) e depersonalizzazione (non si sa chi si è, chi
comanda i propri movimenti o ci si sente distaccati da se stessi).
Lo psicotico, in definitiva, può arrivare a non riconoscere la propria
identità e quella degli altri
3
; perdendo la percezione dei confini tra sé e il
mondo esterno e la coscienza della particolarità del proprio modo di
pensare, sentire, agire.
1
American Psychiatric Association, DSM –IV – TR, Masson, Milano 2001
2
C. SERRA, Lezioni e schemi di psicopatologia generale, ediz. Kappa, Roma 2003, pp 87 ss
3
M. FALABELLA, ABC della psicopatologia, Magi, Roma 2002, p 103
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I principali “sintomi” che caratterizzano la psicosi sono i deliri, le
allucinazioni, il pensiero disorganizzato.
Oltre a questi aspetti una persona che soffre di un disagio psicotico
può sviluppare disturbi del pensiero (es. disturbi della forma, cioè
dell’ideazione e del contenuto, quindi alterazioni delle idee) con fughe o
inibizioni, rallentamento del corso del pensiero stesso, povertà di temi e
ideazione dissociata.
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1.2 MECCANISMI DI DIFESA
In una cornice sintomatologica di questo genere, centrale è l’analisi
dei meccanismi di difesa che ogni paziente può mettere in atto. Si tratta per
prima cosa di meccanismi molto primitivi.
Cos’è un meccanismo di difesa? In realtà si tratta di modalità di
reazione, di comportamento che interessano la vita di ognuno di noi, perché
rappresentano un tentativo di risposta dell’apparato psichico di fronte a
conflitti insopportabili, particolarmente dolorosi.
Il cuore di un disturbo psicotico è proprio un’estrema condizione di
sofferenza, una difficoltà a funzionare come un’entità con la costante
minaccia di disgregazione del mondo e della propria personalità, tanto forte
da condurre l’individuo a mettere in atto un processo di Regressione a
quelle fasi dello sviluppo in cui la distinzione Io – Mondo ancora non si è
stabilizzata e definita nettamente.
Questo meccanismo, che innalza un muro di inibizione, rifiuto e
chiusura verso l’esterno, scatta parallelamente ad un altro che ne completa
l’azione, la fissazione: cioè il richiudersi in una certa fase dello sviluppo
bloccando il proprio personale processo di crescita e maturazione.
Entrambi questi meccanismi trovano la loro ragion d’essere nel fatto
che la loro funzione difensiva (intrinsecamente distruttiva) sta nel cercare
una parvenza di equilibrio nel rivivere in un ciclo senza fine un periodo
della vita carico di soddisfazioni, perché non più presenti nella fase attuale
dell’esistenza.
Il periodo in cui rimane fissato lo psicotico è l’epoca dello
svezzamento, in cui l’Io obbligato a rinunciare alla madre nella realtà
compensa questo intollerabile sacrificio diventando, in qualche modo, la
propria madre nell’immaginazione: richiudendosi così in una condizione,
variabilmente inaccessibile, di autismo.
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In questo modo la disgregazione dell’Io, derivante dalla malattia,
viene ricompensata attraverso una realizzazione simbolica
4
.
Questo meccanismo è in sé autodistruttivo, perché mina sempre più
la già debole capacità di difesa all’invasione della psicosi conclamata.
4
M. A. SECHEHAYE, Diario di una schizofrenica, Giunti, Torino 2000, pp 117 ss