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L’Opa sarebbe amichevole se gli offerenti delle azioni circolanti,
definite di minoranza, intendessero unirsi all’esistente capitale di
comando e non mutare il management. Ma perché, allora
lanciare un’Opa? Basterebbe acquistare gradualmente azioni sul
mercato. L’Opa si giustificherebbe solo se si pensasse che tale
ultima via addurrebbe a pagare, alla fine, un prezzo più alto, ma
l’ipotesi è più da aula scolastica che reale poiché esistono molti
vincoli legali che impongono l’obbligatorietà dell’Opa.
L’Opa sarebbe, invece, ostile se lo scopo finale fosse quello di
sostituirsi al capitale di comando presente e di mutare, in tutto o
in parte, il management.
La definizione precisa di Opa è comunque contenuta nell’art. 1,
comma 1, del Testo Unico delle disposizioni in materia di
intermediazione finanziaria (d’ora in poi : T.U.F.). Per offerta
pubblica di acquisto, recita la norma richiamata, si intende “ogni
offerta, invito a offrire o messaggio promozionale, in qualsiasi
forma effettuati, finalizzati all’acquisto o allo scambio di
prodotti finanziari e rivolti a un numero di soggetti superiore a
quello indicato nel regolamento previsto nell’art. 100 (che
riguarda i casi d’inapplicabilità della disciplina sulla
sollecitazione all’investimento) nonché di ammontare
complessivo superiore a quello indicato nel medesimo
regolamento”.
Per la complessità e la delicatezza degli argomenti, questa
materia è disciplinata attualmente dalle norme contenute nel
capo II (art. 102-112) del T.U.F. Quest’ultimo è poi suddiviso in
due sezioni : la prima (art. 102-104), che sarà dettagliatamente
descritta nel § 4, reca norme di trasparenza, di comportamento e
procedimentali comuni a tutte le suddette offerte ; la seconda
(art. 105-112) disciplina esclusivamente l’Opa obbligatoria, che
sarà spiegata nel § 5.
Al di fuori del T.U.F. vi è, poi una norma di collegamento con la
disciplina Opa, quella antitrust, per il caso in cui tale offerta
realizzi una concentrazione rilevante. Senza voler entrare nel
merito della complessa questione, deve peraltro osservarsi che
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nel nostro Paese l’Opa si presenta più quale strumento di tutela
degli azionisti minoritari che quale tecnica di acquisizione del
controllo di società, come tale suscettibile di effetti giuridici ai
sensi della disciplina antitrust.
E’ importante sottolineare fin da subito che la legislazione
sull’Opa, come si spiegherà nel § 3, si è evoluta nel tempo, ed è,
come risulterà dai confronti del caso italiano con gli altri paesi
europei, nel § 6, e con gli Stati Uniti, nel § 7, estremamente
variegata a livello internazionale. La ragione di questa
differenziazione nei regimi normativi che regolano l’Opa è da
ricercarsi nell’impossibilità teorica di arrivare a definire uno
schema che sia superiore agli altri in qualsiasi circostanza, tutto
ciò si desume dal § 8 dove verrà introdotto un commento
conclusivo sulla normativa italiana.
Di seguito, si vorrebbero fornire, nel § 2, sul piano sistematico,
risposte alla domanda sul perché di una disciplina legale
dell’Opa coerenti con i più generali principi di diritto societario e
dei valori mobiliari, ai quali la Legge italiana si ispira.
1.2 IL PERCHE’ DI UNA REGOLAMENTAZIONE SULLE
OPA
Inizialmente, è doveroso osservare che nell’ambito della
letteratura di tipo economico sulle acquisizioni vengono
identificati generalmente due obbiettivi fondamentali della
regolamentazione, questi sono : l’efficienza economica (o
allocativa) e la protezione degli interessi degli azionisti di
minoranza.
Per quanto riguarda il primo, è noto che la tecnica di
acquisizione del controllo attraverso Opa, anche se ostile,
rappresenta, per una scuola di pensiero oltre oceano il principale
tra i meccanismi che possono garantire l’efficienza della grande
impresa.
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Questo fenomeno è quello per cui le acquisizioni che sono
considerate efficienti sotto un profilo sociale, ovvero quelle che
portano ad un aumento del valore dell’impresa e, in alcuni casi,
del benessere collettivo, non dovrebbero essere scoraggiate da
una regolamentazione che può renderle troppo onerose.
Generalizzando si può sintetizzare, dicendo che la ragione
fondamentale che giustifica l’aumento di valore dopo
l’acquisizione risiede nei vantaggi di costo o più generalmente
nei recuperi di efficienza manageriale, che generano esternalità
positive non solo per gli eventuali azionisti di minoranza ma
anche per l’intero sistema (ipotizzando, ovviamente, che la
struttura dei mercati sia tale per cui i risparmi di costo siano
passati interamente nei prezzi). Per questi motivi, l’assenza totale
di una regolamentazione sulle cessioni di pacchetti di controllo
(cosiddetta market rule o MR) è da vedersi come uno strumento
che non impedirebbe che si realizzino acquisizioni motivate da
obbiettivi di espropriazione degli azionisti di minoranza, ma che
farebbe realizzare tutte le acquisizioni che creano valore.
Di tale impostazione teorica, altra autorevole dottrina contesta
quasi tutto. L’Opa non sempre provoca efficienze allocative
nella proprietà dell’impresa, visto che in casi marginali favorisce
solo la scalata di società da parte di raiders completamente
disinteressati alle sorti di questa. Fusioni successive
all’acquisizione del controllo della società bersaglio con quella
dell’offerente, smembramenti della società e altre tecniche
similari testimonierebbero la bontà dell’assunto. In capo
all’azionista di minoranza, l’assenza di una protezione legale
determina, inoltre, un danno ritenuto per lo più ingiusto,
consistente nella impossibilità di profittare dell’opportunità
offerta all’azionista di controllo di alienare il proprio pacchetto a
un prezzo unitario decisamente superiore rispetto a quello medio
di mercato del titolo. Da ciò la necessità dell’intervento
legislativo onde garantire parità di trattamento a tutti gli
azionisti.
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E’ questo, il secondo obbiettivo, la protezione degli azionisti di
minoranza, che nel dibattito giuridico viene prevalentemente
ricollegato al principio di equità e di parità di trattamento fra
azionisti di una stessa società (cosiddetto Equal Opportunity
Rule o “EOR”). Questo obbiettivo vorrebbe far sì che, qualora la
partecipazione di controllo di un’impresa quotata passi di mano a
un prezzo superiore ai corsi di Borsa, anche l’azionista di
minoranza possa partecipare pro quota al premio pagato per il
controllo dell’impresa, tramite il riconoscimento del diritto di
vendere le proprie azioni all’offerente allo stesso prezzo a cui è
stato ceduto il pacchetto di controllo (cosiddetta mandatary bid
rule). L’esistenza di un premio per il controllo deriva, infatti, o
da un guadagno di benessere sociale (qualora l’acquirente riesca
a gestire meglio l’impresa) o da benefici privati o da
combinazioni dei due. Se non vi fossero benefici privati, infatti,
non vi sarebbe un problema di protezione degli azionisti di
minoranza e quindi la necessità di regolamentazioni volte a
riconoscere il premio di controllo a tutti gli azionisti e a mitigare
gli effetti negativi dei problemi d’agenzia che emergono dalla
propensione a consumare benefici privati, come la
regolamentazione sull’Opa. Questo perché, se non vi fosse la
possibilità di estrarre benefici privati dal controllo di un’impresa,
l’acquisto di un pacchetto di controllo a un prezzo superiore ai
prezzi di mercato si verificherebbe solamente se l’imprenditore
acquirente ritenesse di poter aumentare il valore dell’impresa
sotto la sua gestione, il che si tradurrebbe in un aumento di
valore anche delle azioni detenute dagli azionisti di minoranza.
Nella letteratura di tipo economico, questo approccio
ultimamente è stato posto in discussione e si è preferito
considerare la protezione degli azionisti di minoranza come
obbiettivo “intermedio” rispetto a quello “finale” di incentivare
la canalizzazione del risparmio verso il mercato di Borsa : la
tutela degli azionisti risponderebbe all’obbiettivo di rendere
“attraente” l’investimento in azioni.
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Il doppio prezzo dei titoli che inevitabilmente si manifesta ogni
qual volta ricorra un’Opa senza un’adeguata tutela degli
azionisti, e cioè il prezzo offerto dal proponente e quello
ufficiale di listino, costituirebbe un sicuro ostacolo alla fiducia
del pubblico nelle capacità del mercato di riflettere l’esatto
valore delle azioni. Non a caso, tra le principali funzioni dei
moderni mercati dei valori mobiliari, quella di assicurare la
pronta convertibilità dei titoli negoziati in denaro contante a una
valutazione che possa definirsi equa, ne costituisce una tra le più
significative.
Da quest’ultimo punto di osservazione, bisogna notare che la
mancata protezione si tradurrebbe perciò in un aumento del
premio per il rischio richiesto dagli investitori e quindi in un
minor ricorso al mercato azionario da parte delle imprese per
soddisfare il proprio fabbisogno di capitale ; la liquidità del
mercato si ridurrebbe e si genererebbe un vero e proprio circolo
vizioso di sottosviluppo per la Borsa.
La regolamentazione dovrebbe assegnare, quindi, un giusto peso
sia all’obbiettivo della promozione dell’efficienza economica,
che a quello della protezione degli azionisti di minoranza,
considerato che esiste un trade-off tra i due obbiettivi.
Bebchuck, nel 1994, ha analizzato questo trade-off, mostrando
quali siano le condizioni necessarie per risolvere il dilemma tra
regole del mercato (nessun diritto per gli azionisti di minoranza
collegato alla transazione per la vendita del controllo) e la norma
di pari opportunità (che coincide con l’Opa successiva totalitaria
secondo cui gli azionisti di minoranza hanno il diritto di vendere
le loro azioni allo stesso prezzo del blocco di controllo).
Bebchuck è giunto alla conclusione che l’EOR non costituisce
una soluzione regolamentare efficiente in quanto può scoraggiare
passaggi di controllo che aumenterebbero il valore delle imprese
ed inoltre può determinare un aumento della diffusione delle
imprese con una struttura di controllo concentrato.
11
Altri economisti, Schleifer e Vishny, invece, nel 1997, hanno
insistito sull’importanza della protezione degli azionisti di
minoranza collegandola al problema di un effettivo sistema di
corporate governance. Gli autori hanno sostenuto che “...la
protezione legale contro il rischio che gli amministratori e gli
azionisti di controllo si approprino dei benefici privati risulta
necessaria qualora si vogliano attirare i piccoli investitori
verso il finanziamento delle imprese”. In altri termini un
investitore razionale può anticipare la possibilità che venga
sottratta ricchezza all’impresa con il cambio del controllo e
richiedere uno sconto quando acquista i titoli azionari o decidere
di restare fuori dal mercato. In questo contesto la tutela degli
azionisti è da vedersi come un mezzo per incoraggiare gli
investimenti sul mercato.
Il dibattito sul trade-off tra i due obbiettivi si complica
notevolmente se si cerca di ricondurlo ai due modelli estremi di
governance delle imprese, più precisamente a quello dell’
“azionista-imprenditore”, dove la proprietà e il controllo sono
concentrati nelle mani di uno o pochi azionisti, ed a quello dell’
“azionariato diffuso” (le cosiddette public companies), dove
proprietà e controllo sono separati. Una delle differenze più
palesi tra queste due strutture proprietarie consiste, infatti, nelle
differenti modalità e i problemi normativi connessi, attraverso le
quali si trasferisce il controllo dell’impresa.
Nel primo modello, tale trasferimento avviene con modalità più
riservate basate sulla trattativa diretta tra detentore del pacchetto
di controllo e potenziale acquirente. Nel secondo modello,
invece, il trasferimento è legato all’effettuazione da parte
dell’acquirente di un’offerta pubblica preventiva agli azionisti
più nota come scalata.
A seconda perciò delle diverse caratteristiche degli ambienti e
del grado di concentrazione degli assetti proprietari (cosiddetta
disclosure), la scelta degli obbiettivi e degli strumenti da parte
del regolatore (cosiddetta policy) risulta estremamente difficile.
Questa decisione dovrebbe dipendere, comunque, da quale
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motivazione si ritiene più plausibile per spiegare le acquisizioni
e quindi da quale effetto in termini di benessere ci si attende. In
altri termini non esistono normative ottimali e la questione degli
assetti regolamentari dovrebbe essere una scelta essenzialmente
empirica.
In conclusione, in un mercato come quello italiano, dove il
controllo di un‘impresa consente di estrarre una quantità
notevole di benefici privati e la riallocazione proprietaria
avviene quasi esclusivamente tramite la cessione di pacchetti
azionari di controllo, una normativa sull’Opa volta a proteggere i
diritti degli azionisti di minoranza, senza essere talmente
penalizzante per i potenziali acquirenti da ingessare il mercato
per il controllo proprietario, è da considerarsi desiderabile.
Il principio della parità di trattamento trova, infatti, una sua
espressa consacrazione legislativa nell’art. 103 del T.U.F. che
prevede “l’offerta è rivolta a parità di condizioni a tutti i titolari
dei prodotti finanziari che ne formano oggetto”.
1.3 LA NORMATIVA ITALIANA SULLE OPA : UN
PERCORSO OSTICO
Per le ragioni viste in precedenza, l’impianto della disciplina
sulle Opa delineato dal T.U.F. rappresenta il punto di arrivo di
una sofferta evoluzione normativa, idealmente scomponibile in
tre fasi.
In una prima fase, dal 1974 al 1992, la disciplina sulle Opa non
aveva una dignità autonoma, ma era riconducibile alle
disposizioni generali sulla sollecitazione del pubblico risparmio
di cui agli art. 1/18 e ss. L. 216/1974 che ne garantivano la
trasparenza dell’offerta. Queste norme si limitavano a sancire
l’obbligo, per chi intendeva sollecitare il pubblico risparmio, di
comunicarlo alla Commissione Nazionale per le Società e la
Borsa (d’ora innanzi Consob), di pubblicare un correlativo
prospetto informativo e di fornire dati e notizie alla Consob per
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la durata dell’operazione qualora fossero richiesti. Regole sul
procedimento, ma meramente deontologiche, erano contenute nel
Codice di comportamento per le offerte pubbliche di acquisto di
titoli del Comitato direttivo degli agenti di cambio della Borsa.
La seconda fase, dal 1992 al 1998, si caratterizzava per
l’introduzione il 18/2/1992, ad opera del capo II della
L.149/1992, di un regime speciale per le Opa aventi ad oggetto
titoli quotati con diritto di voto, che si aggiungeva alla
disciplina generale della L.216/1974.
La Legge del 1992 rappresentava il coronamento, se così si può
chiamare, di preoccupazioni che risalgono a circa 20 anni prima,
originate, in buona parte, dalla scalata Sindona alla Bastogi nel
1971. Scalata che venne appunto tentata con il metodo
dell’offerta pubblica d’acquisto. Da allora fino alla legge
approvata nel 1992 i tentativi di legiferare si susseguirono
numerosi, possiamo ricordare il progetto di legge Valiante del
1971 e del 1974, la proposta di legge Lombardi del 1972, il
disegno di legge Atleti del 1977, per arrivare poi ai disegni di
legge Berlanda del 1983 e del 1988.
L’obbiettivo del legislatore che introdusse la norma era quello di
garantire parità di trattamento, cioè consentire agli azionisti di
minoranza di beneficiare del premio di controllo, e finalità di
trasparenza. Dalla lettura dei lavori parlamentari della Legge 149
si trae qualche sostegno a tale interpretazione : “l’obbiettivo è
quello di portare alla luce, di pubblicizzare, di sottoporre a
controlli e sanzioni alcuni comportamenti e fenomeni di quella
che per qualche aspetto si può definire finanza sommersa. Si
allude in particolare ai frequenti passaggi di proprietà di
consistenti quantitativi di titoli che consentono il controllo di
società quotate, passaggi che avvengono privatamente a
condizioni particolari, all’insaputa degli azionisti di minoranza
e del pubblico o nell’impossibilità per essi di prendervi parte :
ciò in contraddizione stridente con lo speciale status che è
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proprio di una società quotata ufficialmente, ossia di una
società aperta al mercato”.
La L. 149/1992 introduceva una disciplina speciale dell’Opa, ed
in particolare, disposizioni sulla trasparenza dell’offerta, in
buona parte sostitutive di quelle già previste per le operazioni di
sollecitazione del pubblico risparmio, ed una disciplina del
procedimento, secondo cui l’offerta doveva svolgersi, e della
condotta che tutti i soggetti in essa coinvolti dovevano seguire,
nonché una regola di parità di trattamento degli oblati.
In aggiunta, venne introdotto l’istituto dell’Opa obbligatoria nei
casi di:
1) OPA PREVENTIVA (cosiddetta takeover). Chiunque fosse
intenzionato ad acquisire il controllo di una società quotata,
anche tramite la partecipazione ad un sindacato di voto, era
obbligato a lanciare un’Opa sulle azioni ordinarie della società
medesima. Ai fini dell’applicazione della norma, il controllo si
realizzava attraverso una partecipazione che consentiva di
disporre della maggioranza dei diritti di voto dell’assemblea
ordinaria, ovvero di esercitare un’influenza dominante sulla
stessa.
2) OPA INCREMENTALE. Chiunque possedesse la metà delle
azioni che garantivano il controllo della società non poteva
aumentare la propria partecipazione oltre un quinto dei titoli
posseduti o il 2% del capitale sociale se non tramite un’Opa.
La Consob rendeva periodicamente nota per ogni impresa
quotata la soglia di possesso azionario oltre la quale sarebbe
scattato l’obbligo dell’Opa.
3) OPA SUCCESSIVA. Chiunque avesse acquistato il controllo
o il semicontrollo di una società quotata senza aver utilizzato
l’Opa preventiva, ad esempio tramite l’acquisto fuori Borsa
del pacchetto di controllo, era tenuto a lanciare un’Opa
successiva per un quantitativo di titoli pari almeno a quelli già
acquistati ed ad un prezzo d’acquisto non inferiore alla media
ponderata dei prezzi di acquisto corrisposti sulle azioni già
rilevate. Di conseguenza, qualora un soggetto avesse rilevato
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fuori Borsa un pacchetto di controllo superiore o pari al 50%
delle azioni, dovendo promuovere l’acquisto di un numero di
titoli almeno pari a quelli già acquistati, avrebbe dovuto
lanciare un’Opa successiva che sarebbe risultata totalitaria
ovvero rivolta all’acquisto della totalità delle azioni sul
mercato, soddisfacendo appieno il principio di pari
trattamento di tutti gli azionisti.
4) OPA RESIDUALE. Qualora le azioni in circolazione (ovvero
il flottante) di un’impresa quotata si fosse ridotto al di sotto
del 10% o di una soglia inferiore stabilita dalla Consob,
rendendo impossibile garantire corrette negoziazioni
borsistiche, il soggetto controllante era tenuto a lanciare
un’Opa sulla totalità dei titoli in circolazione al fine di ritirare
la società dal listino azionario.
Le offerte aventi ad oggetto titoli non quotati o quotati, ma privi
del diritto di voto, continuavano ad essere disciplinate dalle sole
norme di trasparenza previste dalla L. 216/1974 poiché le nuove
disposizioni, come accennato, riguardavano le sole offerte aventi
ad oggetto titoli quotati in Borsa (o del mercato ristretto) con
diritto di voto. La limitazione dell’obbligo di Opa alle sole
società quotate veniva, infatti, spiegata e giustificata dalla
sussistenza di un interesse pubblico ad assicurare l’afflusso di
capitale di rischio verso tali società, approntando, per i relativi
azionisti, un trattamento privilegiato rispetto a quello riservato
agli azionisti di società non quotate. Di tale trattamento
privilegiato l’Opa obbligatoria rappresentava, appunto, una delle
più rilevanti espressioni. In sintesi, agli azionisti minoritari
veniva riconosciuto il diritto, innanzitutto, di partecipare, seppur
parzialmente, stante il carattere non totalitario dell’Opa
successiva, alla distribuzione del premio di controllo nel caso di
trasferimento dello stesso ; e, successivamente, di uscire dalla
società previo riconoscimento di un indennizzo a fronte della
perdita della qualità di socio di società quotata (Opa residuale).
La Borsa italiana era venuta dunque a disporre di uno strumento
che l’avvicinava ai mercati più sofisticati e che poneva le basi di
16
una democrazia azionaria fondata sulla proprietà diffusa e su una
reale protezione dei soci di minoranza. Purtroppo la norma non
appariva un esempio di chiarezza legislativa : Weigmann nel
1992 era giunto a definirla “frutto di una nascita deforme e un
testo macchinoso ed infelice, che contiene molte incongruenze
ed anche errori di scrittura”. L’esperienza applicativa aveva
spinto la Consob a presentare, alla fine del 1995 una proposta di
modifica ; successivamente il legislatore, in vista della legge
comunitaria del 1996, aveva delegato il governo a rivedere entro
due anni la disciplina sulle società emittenti titoli sui mercati
regolamentati, nella quale è da ricomprendersi la L. 149/92.
La terza fase può farsi iniziare con l’entrata in vigore in data
1/7/1998 del T.U.F. fino ad arrivare ai giorni nostri.
La disciplina contenuta nelle disposizioni del T.U.F., attuattive
della proposta della Direttiva Comunitaria sopracitata, da un
lato, razionalizza e semplifica, dall’altro, innova il regime
previgente. Detta opera di razionalizzazione e di semplificazione
si coglie già nell’impianto della nuova normativa e, infatti, il
T.U.F. stabilisce, in primo luogo, norme comuni a tutte le Opa, a
prescindere dalla natura dei titoli, quotati o meno, con o senza
diritto di voto, e secondariamente, detta una disciplina speciale
dell’Opa obbligatoria, applicabile alle sole società italiane con
titoli quotati in mercati regolamentati italiani.
Ma l’opera di razionalizzazione e di semplificazione si apprende
anche nel riparto tra aspetti, la cui disciplina è riservata alle
norme primarie, e aspetti, la cui regolamentazione è rimessa alle
autorità di controllo. Significativa appare subito la
delegificazione realizzata in materia di trasparenza e di
procedimento di offerta. In tali materie il T.U.F. si limita a
dettare norme di principio, rimettendo alla Consob l’adozione, in
alcuni casi, di regole di dettaglio e, in altri casi, di
comunicazioni successive inerenti alla funzione esplicativa della
norma. Ciò consente di aggiustare più rapidamente il contenuto
della norma all’evoluzione della prassi di mercato. E’, infatti,
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noto che, negli ultimi tempi, le esigenze operative dei mercati
finanziari si evolvono con considerevole rapidità, a causa,
innanzitutto, della realtà in cui sono inseriti, che risulta
estremamente mutevole e, successivamente, in virtù dei
fenomeni che sfuggono al controllo degli Stati nazionali, quali la
globalizzazione. Tutti questi fattori rendono vincente la scelta di
sottrarre il minuto adeguamento della normativa ai tempi lunghi
del legislatore primario, in capo a cui permangono, tuttavia le
scelte cosiddette strategiche, per affidarlo al più tecnico
legislatore secondario, il quale può intervenire nelle decisioni
più marcatamente operative con la opportuna prontezza e
competenza tecnica. La disciplina di secondo livello sulle Opa è
ora contenuta nella Delibera 11.971, emanata dalla Consob in
data 14/5/1999. Rispetto a quello previgente, la Delibera 11.520,
il suindicato nuovo provvedimento non ha apportato comunque
modifiche alle disposizioni sulle Opa.
Si è detto che, oltreché razionalizzare e semplificare, il T.U.F.
innova sotto molti aspetti la precedente disciplina dell’Opa ; ciò
con riguardo sia alle regole di comportamento e, più in generale,
quelle procedimentali, sia a quelle sull’obbligo di Opa.
Sotto il primo profilo, la nuova disciplina riequilibra la posizione
delle parti in pendenza dell’offerta. Innanzitutto, vengono
avvicinate le posizioni dell’offerente e della società bersaglio. E’
ora, infatti, previsto un obbligo e non più una mera facoltà, come
nella L.149/1992, della seconda di diffondere un comunicato,
contenente ogni dato utile per l’apprezzamento dell’offerta e la
propria valutazione al riguardo. Viene introdotta la possibilità
per la società bersaglio, di compiere atti e operazioni, noti come
tecniche di difesa (cosiddetta passivity rule) che possano
contrastare l’offerta, a condizione, però, che siano autorizzati
dall’assemblea. Ma il T.U.F. avvicina anche le posizioni
dell’offerente originario e dell’offerente concorrente, in quanto
contempla la possibilità di più rilanci (cosiddetta multiple
bidder) sia da parte del primo sia da parte del secondo, pur se
con il limite di un termine massimo.
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Le innovazioni di maggior rilievo riguardano però il secondo
aspetto, ovvero la disciplina dell’Opa obbligatoria. Questi
cambiamenti sono stati necessari per avvicinare il nostro mercato
finanziario a quello di altri Paesi europei, rendendolo più
attraente rispetto al passato, anche sotto il profilo del
trattamento riservato a chi intenda investire in capitale di rischio
di società quotate, per l’eventualità che muti il controllo delle
stesse. Le innovazioni principali possono così riassumersi :
a) introduzione di una soglia fissa (individuata nel 30% dei titoli
del Capitale sociale) al superamento della quale scatta un
obbligo di Opa successiva totalitaria ad un prezzo non
inferiore alla media aritmetica tra quello medio ponderato di
Borsa negli ultimi 12 mesi e quello più elevato pattuito
dall’offerente ;
b) capovolgimento del rapporto tra Opa preventiva ed Opa
successiva in quanto è ora che quest’ultima può essere evitata
nel caso in cui sia stata previamente lanciata un’Opa
preventiva sulla totalità dei diritti di voto o, nel rispetto di
certe condizioni, un’Opa preventiva volontaria sul 60% degli
stessi ;
c) abrogazione dell’Opa incrementale e introduzione di un’Opa
totalitaria anche per colui che, possedendo più del 30% dei
diritti di voto nell’assemblea ordinaria, ma senza disporre
della maggioranza di questi ultimi, effettui acquisti volti a
consolidare la partecipazione detenuta ;
d) possibilità che il corrispettivo sia rappresentato, in tutto o in
parte, da strumenti finanziari ;
e) rilevanza, ai fini dell’obbligo di Opa, di talune ipotesi di
acquisto concertato ;
f) ammissibilità dell’Opa a cascata, a prescindere dalla
circostanza che la società tramite cui si acquista il controllo di
una quotata sia o meno essa stessa quotata ;
g) introduzione di un sistema di più deroghe all’obbligo di Opa,
con attribuzione alla Consob di stabilire in via generale a
quali casi esse si applicano ;
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h) possibilità di evitare l’obbligo dell’Opa residuale mediante la
ricostruzione di un flottante sufficiente ad assicurare il
regolare andamento delle negoziazioni ;
i) previsione del diritto per colui che, a seguito di Opa totalitaria,
abbia più del 98% delle azioni con diritto di voto, di
acquistare le azioni residue (il cosiddetto Squeeze-out).
1.4 OPA :LE DISPOSIZIONI GENERALI
Gli art. 102, 103, 104 del T.U.F. e l’art.35 della Delibera 11.971
prevedono i principi generali che regolano il procedimento
dell’offerta.
L’art. 102 comma 1, e il sopracitato art. 35, prevedono che
chiunque effettui un’Opa è tenuto a darne preventiva
comunicazione contestualmente alla Consob, all’emittente dei
titoli oggetto di offerta e al mercato, ed a pubblicare un
documento informativo contenente le informazioni necessarie
per consentire ai destinatari di valutare consapevolmente
l’offerta.
Identici, rispetto alle norme previgenti, restano anche i poteri
della Consob, secondo l’art. 103 comma 4, di dettare
disposizioni secondarie sul contenuto del documento informativo
e sulle modalità di pubblicazione dello stesso. Quanto ai termini
entro cui la Consob esercita il potere di richiedere integrazioni
all’informativa fornita dall’offerente o di stabilire modalità
diverse di pubblicazione, questo è ora di 15 giorni, decorrenti
dalla comunicazione ; mentre le offerte aventi ad oggetto titoli
non quotati, né diffusi tra il pubblico in misura rilevante, ai sensi
dell’art. 116, o aventi quale corrispettivo detti titoli, è di 30
giorni. Il maggior termine previsto per l’esercizio dei poteri
istruttori da parte della Consob, per il caso di offerte aventi ad
oggetto titoli non quotati o non diffusi tra il pubblico, trova
giustificazione nella circostanza che gli emittenti di detti titoli