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testimoniare la circolazione degli interessi e della meditazione della
pittura sul proprio statuto e sulla propria struttura di rappresentazione
come segno che viene recepito da un destinatario.
Le differenze artistiche fra Nord e Sud non vanno percepite come
modello oppositivo rigido, ma devono segnalare anche i reciproci
condizionamenti. Svetlana Alpers nell’ Arte del descrivere (1983) si è
occupata del rapporto che l’arte olandese del XVII secolo intrattiene
con il classicismo del Rinascimento italiano, definendolo attraverso le
coppie contrastive italiano/non-italiano, albertiano/non-albertiano,
classico/non-classico, e via dicendo. Il modello olandese si sostanzia
così in due caratteristiche principali: la descrizione e la superficie.
Esse sono delineate sempre per opposizione con gli attributi della
pittura italiana, che al contrario è narrativa (da cui il famoso primato
della pittura di storia, anch’esso in antitesi rispetto ai soggetti
privilegiati dalla più ampia tradizione nordica) e che si configura
come “luogo teatrale” (1983, p. 5), come finestra. È la distinzione tra
aspetto e prospetto, tra uno sguardo percettivo senza preconcetti e uno
sguardo teorico. Di frequente il primo tipo di visione è stato adottato
nel Nord per indagare le possibili relazioni tra l’opera e il fruitore,
mentre la prospettiva geometrica lineare italiana sembra ridurre
l’osservatore a un punto astrattamente costruito. Lo sguardo
prospettico si presenterebbe dunque come univoco e forzatamente
imposto, a fronte di una visione (che non sempre arriva da artisti
nordici, si pensi ad esempio alla resa di una spazialità non prospettica
nelle soluzioni caravaggesche) dotata invece di un soggetto
frammentario e molteplice. Ma non ci si può limitare ad una
valutazione di questo tipo: per dirla con Shearman, il Rinascimento
italiano è pieno di situazioni artistiche che “presumono e richiedono
uno spettatore più coinvolto” (1992, p. 17); ne è un esempio la pala
d’altare di Andrea del Sarto, la cosiddetta Madonna delle arpie (fig.
1), il cui senso ultimo è ravvisato dallo studioso nel coinvolgimento
del riguardante tramite un espediente che ambiguamente confonde i
limiti spaziali dell’opera: “Dove lo spazio reale incontra quello del
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quadro, non c’è né una barriera visiva né una barriera psicologica” (p.
59). Questa sensazione è conseguenza dell’inserimento in alcune zone
della tela di leggeri fili di fumo che sembrano provenire dall’esterno
della pala, emessi da candele o incensi bruciati nella stessa chiesa
dove l’opera era collocata; lo spettatore che non vede il punto da cui si
origina quel fumo, si trova catturato nella finzione rappresentativa,
“l’invenzione di far vedere qualcosa che è scivolato dalla realtà
nell’illusione, è un modo straordinariamente ricco d’immaginazione
per descrivere l’unità fra spazio artificiale e spazio liminale” (p. 60).
L’uso di strategie implicative dello spettatore si riscontra anche in altri
ambienti ugualmente distanti dal modello nordico: si consideri
l’analisi che Marin (1986, pp. 169-175) dedica a La Manna del
campione del classicismo secentesco, Nicolas Poussin, che trascorse la
sua esistenza tra Parigi e Roma e incarnò il prototipo del sofisticato
artista-intellettuale di corte rinnovatore dei modelli antichi unitamente
a quelli rinascimentali italiani. O ancora, nello stesso intervento di
Marin, l’esame delle figure della ricezione nelle immagini di due
cartoni di Le Brun, direttore dell’Accademia e delle Manifatture Reali
alla corte del Re Sole, vero fondatore dello “stile Luigi XIV” e
protagonista della lunga stagione barocca.
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I. Premesse teoriche
Qualunque tentativo di analisi semiotica del visivo, e in particolare
delle vicende che coinvolgono le figure della ricezione e
conseguentemente lo spettatore, non possono prescindere dal modello
generale della teoria dell’enunciazione, che prende le mosse
principalmente da Émile Benveniste. Si tenta di proporre una
schematizzazione dei suoi studi sull’apparato dell’enunciazione,
prendendo brevemente in considerazione anche i contributi fondanti di
alcuni degli studiosi più autorevoli che si sono espressi al riguardo.
Alla base del sistema linguistico c’è la distinzione saussuriana tra
langue e parole, lingua e discorso, che nel Corso di linguistica
generale (Saussure, 1922) sono presentate come la principale
dicotomia del linguaggio. Esso trova nella parole il momento
comunicativo individuale, e perciò variabile, e nella langue un sistema
invariante di regole, un codice sociale indispensabile alla parole per
esprimersi, ma la cui esistenza a sua volta è riconducibile al
complesso che risulta dalle parlate dei singoli.
La tendenza a cercare le forme permanenti della lingua al di là delle
varianti occasionali, ha comportato una percezione rigida della
disciplina linguistica e semiotica, incoraggiata dalla sensazione che
l’individuo risultasse così inevitabilmente condizionato dal codice
sociale sottostante.
Molti studiosi si sono impegnati in una revisione che ha mutato in
parte gli elementi della questione. John Austin (1962) affianca agli
enunciati constativi, che sono in genere descrittivi, asseriscono uno
stato del mondo reale, e possono perciò essere veri o falsi, un’altra
tipologia di enunciati: i performativi, nei quali i soggetti della
comunicazione linguistica assumono un ruolo più rilevante. Con
l’enunciato performativo si compie una azione nel reale, non si
constata nulla, quindi esso non può definirsi né vero né falso, casomai
più o meno appropriato. Austin porta alcuni esempi di performativi la
5
cui enunciazione costituisce già l’esecuzione di una azione, non è
solamente il dire qualcosa. In questo caso gli enunciati non sono
vincolati da un codice, ma creano nel momento stesso del loro
manifestarsi le regole che li determinano.
In questi esempi [“Sì, prendo questa donna come mia legittima sposa” o
“Battezzo questa nave Queen Elizabeth”] risulta chiaro che enunciare la frase
(ovviamente in circostanze appropriate) non è descrivere il mio fare, (…): è
farlo (1962, p. 18).
La stessa radice del performativo dal verbo inglese perform, eseguire,
che va generalmente a braccetto col sostantivo azione, lo ribadisce.
Dunque fare non è dire, ma dire può essere fare. È poi fondamentale
che le circostanze in cui vengono pronunciate le parole siano
appropriate, e che lo siano anche le persone coinvolte nell’atto
dell’enunciazione, poiché l’enunciato non basta da solo a far
considerare l’azione eseguita.
A partire da questo primo tentativo, è poi Benveniste (1966) che
sviluppa l’idea del fondamento della soggettività nel linguaggio,
diventando l’imprescindibile riferimento teorico per la questione
dell’enunciazione. Confuta la concezione, che definisce semplicistica
e ingenua, del linguaggio come strumento (della comunicazione),
proponendo un riflessione più approfondita; vede nell’uso del termine
strumento l’implicita contrapposizione uomo/natura, come se la lingua
fosse un oggetto, un prodotto materiale dell’uomo che non ha origine
in natura. In realtà l’uomo non ha mai di punto in bianco inventato o
costruito il linguaggio, non è mai stato disgiunto da esso, anzi è
esattamente nel linguaggio che trova la propria definizione. La
capacità comunicativa è garantita dal linguaggio, tramite il quale
l’uomo si pone come soggetto, fonda appunto la propria soggettività.
L’atto discorsivo individuale dell’io attualizza il codice astratto della
lingua, lo mette in funzione: l’enunciazione si definisce dunque come
istanza di mediazione tra lingua e discorso che permette all’emittente
di enunciarsi come soggetto. La riflessione sulla possibilità della
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coscienza di sé solo come contrasto, come polarità io/tu, apre la via
alla concezione della condizione di dialogo come costitutiva della
persona; io si usa solo rivolgendosi a tu, e diverrà tu nell’enunciato di
chi si pone come io. L’io cui ogni parlante rimanda nel suo discorso
costituendosi come soggetto, implica quindi necessariamente un’altra
persona, un tu, non esiste un polo senza l’altro. Un’ulteriore
dimostrazione dell’idea che la soggettività si fondi nel linguaggio sta
nel fatto che in nessuna lingua sono assenti i pronomi personali, anzi
tutte manifestano più o meno esplicitamente la persona.
I nomi assumono un significato codificato nel linguaggio, in quanto
stanno ad indicare degli oggetti stabili nel mondo. All’opposto, i
pronomi personali hanno nella lingua uno statuto del tutto particolare,
che varia a seconda di chi li enuncia: non indicano né un individuo né
un concetto. Non esiste un concetto io che comprenda in sé tutti gli io
che tutti i locutori enunciano in ogni momento; come non si può dire
che io designi un singolo individuo, perché così dovrebbe
paradossalmente indicare allo stesso tempo sia un soggetto generico
sia uno particolare. Io si riferisce all’atto di discorso individuale, e ne
indica il locutore; non ad un concetto, non ad un individuo, ma ad una
situazione puramente linguistica dunque.
In questa situazione di discorso ogni parlante può enunciarsi come
soggetto (implicando la definizione di un tu), e da questa postazione
riesce a far proprie le forme vuote che la lingua gli mette a
disposizione.
Benveniste prende in considerazione anche i deittici, gli avverbi, i
dimostrativi (qui, ora, questo, ieri….), distinguendo in base alla loro
presenza o assenza il discorso dalla storia: mentre il primo è legato ad
una situazione in cui un io parla in un qui e in un ora, nella storia,
dove la narrazione si svolge in terza persona e al passato, i deittici
enunciativi vengono denegati. Tali elementi dell’enunciato
chiarificano le relazioni spazio-temporali articolandole intorno al
soggetto, dipendono cioè dall’ io che si designa nell’atto di discorso in
cui essi vengono espressi. Anche il tempo rientra in questo stato di
7
cose: rilevato che in tutte le lingue vengono distinti i vari tempi, e che
lo si fa sempre tenendo come parametro distintivo il presente,
Benveniste si concentra su di esso. Anche il presente si definisce in
rapporto alla situazione di discorso in cui si inserisce: il tempo
presente nel linguaggio non può essere altro che il tempo in cui si
enuncia.
Lo studioso fa alcuni esempi che mettono in luce la presenza formale
del soggetto nell’atto verbale: ad esempio “io soffro, tu soffri, egli
soffre” sono forme verbali che non mutano il loro significato con il
mutare delle persone, ma descrivono uno stato delle varie persone in
modo identico. Esistono però verbi che esprimono operazioni mentali
che funzionano diversamente: credere, supporre ad esempio sono
verbi che manifestano la soggettività. Dire Credo che domani pioverà
non denota una descrizione del soggetto di sé stesso nell’atto di
credere, ma la conversione soggettiva di un evento enunciato
impersonalmente (cioè domani pioverà, che è l’asserzione reale). In
tutta una serie di verbi seguiti da che e da una proposizione
l’enunciato è la proposizione, non la forma verbale personale, alla
quale però va attribuito il ruolo di indicatore della soggettività.
Mediante questa forma verbale la proposizione successiva viene
inserita nel contesto dell’atteggiamento dell’enunciatore nei suoi
confronti.
È chiaro che tutto ciò funziona alla prima persona, mentre già alla
seconda si formano delle costruzioni che ripetono o constatano quanto
già detto da un altro io (Tu supponi che domani pioverà). Nel caso di
verbi dichiarativi come “giurare” o “promettere” il mutamento delle
persone provoca anche l’alterazione del significato dei verbi stessi:
servono ad indicare un’azione dell’individuo che tuttavia ha un certo
peso a livello sociale. Io giuro è l’azione effettiva con cui io si
impegna, non è l’enunciato che lo descrive nell’atto di giurare.
Dicendo egli giura invece si compie una semplice descrizione senza
implicazioni nella realtà: egli è definito in opposizione all’io come
non-persona, in quanto non enuncia ma viene enunciato da io. È la
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situazione di enunciazione che contiene il verbo a determinarne il
valore nel momento stesso in cui pone il soggetto, dal quale appunto
dipende il significato della forma verbale. Ed è quindi l’enunciazione
a configurarsi come momento di mediazione tra langue e parole; è il
manifestarsi della lingua, non più concepita come codice soggiacente
astratto, nell’atto di comunicazione effettivo.
Dall’analisi di Benveniste in poi l’enunciazione non sarà più
fenomeno esclusivamente linguistico, ma generalmente semiotico, e
farà il suo ingresso in campi di applicazione diversi. Tra gli altri
quello pittorico, che sfrutterà con profitto le possibilità di definizione
delle relazioni tra io e tu, tra opera e osservatore.
Louis Marin riprende queste tematiche in un articolo scritto in
omaggio proprio a Émile Benveniste, dove intraprende una rilettura
della teoria dell’enunciazione alla luce delle sue riflessioni sulla
rappresentazione visiva (Marin, 1976). Parte dalle categorie essenziali
dell’enunciazione già indagate da Benveniste, la persona e il tempo.
Particolarmente interessante l’analisi delle persone: l’io è un
indicatore per mezzo del quale il parlante si riferisce a sé stesso. Su di
esso convergono per Marin l’identità stessa (evidentemente), ma
anche la differenza stessa, le loro forme più estreme. Il dire io per il
parlante è un atto ogni volta rinnovato, che lo conduce sempre in una
nuova circostanza temporale e discorsiva; Marin parla dell’io come di
una “unità semantica singolare, unica, in ogni istante altra” (1976, p.
34) e sottolinea l’“estraneità di questa familiarità” (ib.).
Il rapporto che unisce lo stesso e l’altro è un rapporto dialogico che
necessita contemporaneamente della separazione tra io e tu. Nello
scambio linguistico è l’altro come tu a costituire l’io, a trasformarne la
costitutiva differenza in possibile identità.
Per quanto riguarda il tempo, a Marin interessa la distinzione tra un
presente permanente che è poi quello del discorso, che avanza insieme
al discorso, e resta dunque sempre presente; e un presente “ora” che
viene rifondato ogni volta che il parlante enuncia, ed è quindi un
istante sempre nuovo, per Marin “un istante originario (…) in cui
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sorge l’avvenimento dell’atto di discorso” (p. 35). A manifestare il
presente dell’io è lo stesso progredire del discorso, con la sua
esistenza in luogo del silenzio. Non c’è un altro indicatore di esso
all’interno del discorso, mentre ve ne sono che esprimono il futuro e il
passato, sempre definiti a partire dal presente, come punti situati prima
o dopo di esso. Perciò nel discorso il presente si indica per assenza: il
suo significato assente è definito dai significanti del futuro e del
passato, attraverso la demarcazione di ciò che esso non è.
i due riferimenti temporali del passato e del futuro (…) indicano il presente
come pura linea di separazione tra ciò che non è più presente e ciò che non lo è
ancora (p. 37).
Il concetto viene chiarito ulteriormente da Marin con le espressioni
“autoindicazione muta” e “significanza del non-presente” (ib.).
È soprattutto Greimas a cercare la definizione di un campo semiotico
che sia valido per i diversi sistemi di significazione.
Per lui ogni enunciato, a prescindere dalla modalità espressiva cui
viene affidato, implica sempre una enunciazione, intesa come atto
produttivo originario: esso può essere dichiarato o meno
nell’enunciato, senza per questo venir meno. L’enunciazione non
dichiarata, ma nascosta, è perciò altrettanto significativa di quella resa
esplicita.
Greimas (1979) definisce così il débrayage, atto produttivo iniziale
sempre presente, e le tre categorie correlate dell’Attore, del Tempo e
dello Spazio. Distingue un débrayage enunciazionale, in cui
l’enunciato enuncia l’enunciazione, e riproduce al suo interno il
soggetto dell’enunciazione come io che parla in un ora e in un qui; e
un débrayage enunciativo che nega l’enunciazione, e in cui
l’enunciato si costruisce su un non-io, un non-ora e un non-qui.
Le categorie dell’Attore, del Tempo e dello Spazio nell’enunciato
possono cambiare e dar luogo a numerosi casi di débrayage, ma
Greimas individua anche il caso in cui ci sia un ritorno a figure
precedenti, cioè un embrayage. Lo spiega con l’esempio del racconto
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nel racconto: qui il débrayage aziona una seconda narrazione, alla
quale solitamente segue un ritorno alla narrazione primaria, e questo
ritorno è appunto l’embrayage verso le categorie (l’Attore, il Tempo e
lo Spazio) instaurate in precedenza.
In definitiva l’enunciato presenta delle marche al suo interno (io/non-
io, ora/non-ora, qui/non-qui) che rimandano al soggetto
dell’enunciazione, vale a dire all’enunciatore e all’enunciatario:
rispettivamente simulacro testuale di chi ha prodotto l’enunciato e
simulacro testuale di colui cui l’enunciato si rivolge.
A differenza di Austin, Greimas sostiene che non solo i performativi,
ma anche i constativi, in breve tutti gli enunciati linguistici, siano atti
semiotici; anche il constativo, che appunto constata un qualcosa del
mondo, ha determinati effetti sul destinatario e implica precisi intenti
dell’enunciatore. È anzi esattamente quel genere di enunciato che nega
la sua enunciazione (mediante il débrayage enunciativo): per farlo
cancella al suo interno le tracce del débrayage che ne ha permesso la
costituzione, e suona come Oggi piove piuttosto che come Io, qui ed
ora dico che oggi piove.
L’enunciazione è un’azione: produce un enunciato che contiene le
marche già viste le quali si riferiscono al soggetto dell’enunciazione
stessa; analogamente una azione produce un oggetto che ha in sé i
segni di chi lo ha prodotto, ossia rinvia alle azioni stesse che si sono
rese necessarie alla sua costruzione.
Da questo discende che l’enunciazione (azione) può subire
l’applicazione dei modelli semiotici elaborati per lo studio delle
azioni: si tratta dei modelli narrativi. Essi fanno della comunicazione
un racconto, i cui personaggi basilari (emittente, messaggio,
destinatario) sono attanti narrativi. La comunicazione origina
un’azione in cui il soggetto operatore/enunciatore, unisce un soggetto
di stato/enunciatario, con un oggetto/messaggio.
Il messaggio porta inscritto un valore di verità: il soggetto operatore si
fa anche destinante manipolatore immettendo nell’oggetto il valore
della verità e proponendolo all’enunciatario, o destinante giudicatore.
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Questo quindi non è chiamato solo a subire passivamente il
messaggio, ma ne deve valutare il valore di verità.
Seguendo questo ragionamento va evidenziato lo scarto tra i
protagonisti dell’enunciazione come attanti e gli attori reali della
comunicazione verbale. Enunciatore ed enunciatario sono al tempo
stesso sia le persone fisiche che si scambiano il messaggio sia i loro
simulacri testuali; in una conversazione gli attori restano
concretamente gli stessi, mentre gli attanti, cioè i ruoli di enunciatore
ed enunciatario si alternano, in virtù della costituzione stessa della
comunicazione come scambio.
Riassumendo: dalla parte dell’enunciatore ci sono i ruoli narrativi del
soggetto operatore e del destinante manipolatore, mentre da quella
dell’enunciatario si trovano i ruoli del soggetto di stato e del
destinante giudicatore; tutti questi ruoli/attanti possono essere
sostenuti da un solo attore reale, oppure dividersi tra più soggetti fisici
della comunicazione.
I valori modali (volere, dovere, sapere, potere) contraddistinguono in
modi diversi sia l’enunciatore che l’enunciatario; essi si relazionano
proprio in base ai carichi modali: se il destinatario è dotato di dovere
(come una classe di alunni) è una cosa, mentre se è dotato di volere
(come l’opinione pubblica cui si rivolge il discorso giornalistico) è
un’altra. E se l’enunciatore si pone come soggetto che ha del potere,
oppure come soggetto che non ne ha, è forse ancora più lampante
come la situazione cambi.
Enunciatore ed enunciatario in quanto soggetti operatore e di stato,
sono soggetti pragmatici; ma in quanto destinanti manipolatore e
giudicatore sono soggetti cognitivi. Ciò significa che nella
comunicazione si inserisce un momento in cui si contrattano i valori
che entreranno nel discorso, i ruoli dei soggetti che interverranno e la
loro gerarchia. Così un enunciato è vero o falso non in relazione al suo
grado di adeguatezza al mondo di cui predica uno stato, ma piuttosto
in base al rapporto che si costituisce al suo interno tra enunciatore ed
enunciatario: essi a seconda dei carichi modali trovano appunto un
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accordo sulla verità dei significati che si scambiano nell’atto
comunicativo. Insomma la verità è il risultato di un rapporto cognitivo
tra gli attanti.
La teoria dell’enunciazione interviene così nella problematica del
punto di vista, definendo il soggetto dell’enunciazione come attante
pragmatico (che scambia un messaggio), cioè qualcuno che fa; e
contemporaneamente come attante cognitivo, cioè qualcuno che sa.
Fontanille (1989) definisce l’enunciazione come un atto presupposto
dall’enunciato, nel senso che la presenza dell’enunciato ci dà
l’illusione dell’enunciazione. Analizza dunque l’enunciato stesso
attraverso la valutazione delle sue tre dimensioni; la pratica-
pragmatica: l’enunciato è “un prodotto concreto, trasmissibile” (1989,
p. 44); la cognitiva : “veicola un sapere” (ib.); e la timica-passionale:
“è un oggetto affettivo” (ib.). Ecco dunque le tre dimensioni della
soggettività enunciativa. In particolare l’analisi della dimensione
cognitiva consente di studiare il fenomeno più caratteristico
dell’enunciazione, e cioè la costruzione dei punti di vista.
Il modello di certe teorie della comunicazione degli anni Sessanta, che
vedeva nel messaggio essenzialmente una trasmissione di
informazione da un emittente ad un ricevente, per Fontanille non è
applicabile alla semiotica della pittura, alla descrizione dell’atto
comunicativo fra pittore e spettatore. I soggetti enunciativi nel quadro
non agiscono con una trasmissione tra le due istanze tradizionalmente
intese, ma “tutto avviene come se l’enunciatario vedesse il quadro
dalla stessa posizione dell’enunciatore, o meglio 'alle sue spalle'” (p.
45). Per questo lo studioso sostiene che nel momento in cui la
modalità di significazione sia quella visiva, per immagini, allora la
relazione fra i soggetti enunciativi si determina in base ad una
“sostituzione d’istanze” (ib.). Identifica un soggetto dell’enunciazione
scisso tra il ruolo di destinante-enunciatore e quello di destinatario-
enunciatario. Tale scissione dà luogo a diversi punti di vista: quello
dell’enunciatore che si pone come destinante-manipolatore nei
confronti del destinatario, il cui fare sarebbe precostituito dalla
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struttura dell’enunciato; e il punto di vista dell’enunciatario, il quale
assume il ruolo di destinante-giudicatore della significazione
dell’enunciato, e dell’enunciatore stesso.
Sia l’enunciatore che l’enunciatario sono perciò Soggetti, ma il primo
è anche destinante manipolatore, in quanto gli spettano le operazioni
di manipolazione e di costruzione, mentre il secondo riveste anche i
ruoli di Destinante giudice e di Destinatario, spettandogli invece la
ricostruzione e il riconoscimento. L’enunciatore scegliendo un punto
di vista cerca di imporre all’enunciatario un’interpretazione univoca
dell’enunciato: in quel modo riesce a simulare nell’enunciato la sua
posizione di enunciazione, posizione in cui l’enunciatario sarà
obbligato porsi per ricostruire la significazione dell’enunciato.
A tal punto Fontanille distingue un soggetto dell’enunciazione, che
sarebbe la generica istanza presupposta congiuntamente all’atto
enunciativo; un enunciatore che, al pari dell’enunciatario, si definisce
come un arci-attante perché come si è visto entrambi ricoprono vari
ruoli attanziali; ed i soggetti enunciativi, “simulacri discorsivi grazie
ai quali l’enunciazione dà l’illusione della sua presenza nel discorso-
enunciato” (p. 48).
L’osservatore è un soggetto enunciativo cognitivo definito “quel
simulacro mediante il quale l’enunciatore provvede a manipolare,
attraverso lo stesso enunciato, la competenza osservativa
dell’enunciatario” (ib.). Ad esso si affianca un altro soggetto
enunciazionale detto informatore. Essi si scambiano un sapere:
l’informatore può più o meno aprirsi alla facoltà conoscitiva
dell’osservatore, mentre questo a sua volta può essere più o meno
dotato di tale capacità. Interagendo possono trovare un accordo, se ad
esempio il primo vuole farsi conoscere e il secondo vuole conoscere;
oppure entrare in conflitto, se invece l’informatore non volesse farsi
conoscere, ma è da tali interazioni che scaturisce in ogni caso il
sapere.
Con Louis Marin ci si addentra nello specifico della rappresentazione
visiva e della sua analisi semiotica, esplorata sotto molteplici aspetti.