pensiamo che lo spiazzamento prodotto dallo stacco è qualcosa che non
sperimentiamo nella vita quotidiana»
5
.
In realtà, anche nella vita d’ogni giorno capita che si verifichino degli
stacchi netti: ad esempio la visione di un osservatore potrebbe essere determinata
da veloci movimenti della testa o del corpo realizzati con l’intento di focalizzare
determinati particolari dell’ambiente, oppure, nel caso in cui esso si trovi seduto
accanto al finestrino di un qualsiasi mezzo di trasporto, potrebbe essere
caratterizzata da “stacchi” determinati dalla chiusura momentanea degli occhi.
Afferma Gibson,
«la visione è un sistema percettivo globale, non un canale sensoriale. […]
Le capacità percettive dell’organismo non risiedono in parti anatomiche del
corpo tra di loro separate, ma in sistemi con funzioni intrecciate»
6
.
Questo significa che il mondo visivo, quello che circonda l’osservatore, è
il risultato di una raccolta di informazioni invarianti
7
dell’ambiente e della
posizione del proprio corpo durante il movimento. In altre parole, gli elementi
osservati possono uscire dal campo visivo e rientrarvi girando la testa o
guardandosi attorno, ma persistono anche quando sono fuori dalla visuale. È per
questo che nella visione reale «posti ed oggetti separati sono percepiti come
coesistenti»
8
.
La situazione cinematografica, invece, caratterizzata com’è da una sala
buia e da uno schermo illuminato, realizza una vera e propria scissione tra il
mondo visivo proiettato e il mondo propriocettivo reale: «il campo di visione della
cinepresa diventa l’assetto ottico dello spettatore»
9
il quale può vedere, così,
«“esattamente” ciò che è delimitato dal campo di ripresa: “tutto” quello ma
“solamente” quello»
10
, condizione che giustificherebbe la percezione dello
“stacco”.
Come mai, allora, il montaggio cinematografico non è avvertito dallo
spettatore, nonostante la sua esistenza sia da una parte così palesemente evidente
5
Walter Murch, In un batter d’occhi. Una prospettiva sul montaggio cinematografico nell’era
digitale, Lindau, Torino, 2001, p. 57.
6
Gibson J.J., Un approccio ecologico alla percezione visiva, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 316.
7
«Secondo il mio modo di vedere le cose, cogliere l’invariante è percepire la persistenza di una
superficie» (in Idem, p. 320).
8
Idem, p. 321.
9
Idem, p. 444.
10
Cassani D., Manuale del montaggio. Tecnica dell’editing nella comunicazione cinematografica
e audiovisiva, Torino, UTET, 2000, p. 64.
6
alla coscienza e dall’altra assai discordante dalla percezione della realtà
quotidiana? In altre parole, il montaggio è «un’invenzione che fa comodo ai
cineasti e a cui la gente si è in qualche modo abituata, o ha qualche oscuro
fondamento nella nostra esperienza?»
11
.
Per quanto riguarda il primo quesito è ovvio come lo spettatore
cinematografico si sia evoluto rispetto alle origini e sia tutt’oggi ancora in
evoluzione: il desiderio di comunicare emozioni e idee sempre più complesse
costringe i registi a sperimentare metodi di continuità visiva nuovi e più evocativi.
Eppure, anche di fronte allo spiazzamento determinato dalla novità, lo spettatore
si lascia illudere e coinvolgere dal film, conferendo sostanza e materialità alle
immagini proiettate.
Come possibile spiegazione, Murch cita la nota ipotesi riguardante il
rapporto intercorrente tra cinema e sogno, uno dei temi prioritari negli studi di
matrice psicanalitica:
«ebbene, anche se la realtà “di tutti i giorni” sembra continua, esiste
quell’altro mondo in cui passiamo forse un terzo della nostra vita: la realtà
onirica di “tutte le notti”. E nei sogni le immagini sono molto più frammentarie e
sono intrecciate in modi molto più strani e più bruschi che nella vita da svegli,
modi che per lo meno si avvicinano all’interazione prodotta dal montaggio»
12
.
Anche Cesare Musatti, nel saggio del 1961, Psicologia degli spettatori al
cinema, afferma che la visione filmica, consistente nell’evocazione di uno spazio
senza luogo, può essere paragonata a quella onirica, nella quale le immagini
mentali acquistano la vividezza e la perentorietà di una visione reale: sia perchè
entrambe si realizzano assolvendo le medesime condizioni preliminari (la
sospensione temporanea del corso della normale esistenza, l’interruzione dei
contatti con l’ambiente circostante e l’immobilità), sia perchè quanto nel film che
nel sogno, lo spazio e il tempo, sottraendosi alle regole del tempo reale, pur
mantenendo la piena intuibilità delle stesse vicende della vita quotidiana, sono
quelli delle fantasticherie, dei sogni.
Ma il comparare film e sogni, nonostante sia una prospettiva suggestiva e
interessante, è in realtà un approccio sterile, in quanto la percezione filmica è una
11
Walter Murch, In un batter d’occhi. Una prospettiva sul montaggio cinematografico nell’era
digitale, Lindau, Torino, 2001, p. 57.
12
Idem.
7
percezione reale (è realmente una percezione), mentre la percezione onirica è un
processo psichico interno spesso mediato da una rievocazione a posteriori.
Allora Murch considera la possibilità
«che ci sia una parte della nostra realtà da svegli in cui sperimentiamo
davvero qualcosa di simile agli stacchi e in cui le immagini diurne sono
giustapposte in modo più discontinuo di quello che sembra essere normale.»
13
Egli afferma che questa esperienza quotidiana sia data dal batter d’occhi,
un meccanismo fisiologico abitudinale che interrompe l’apparente continuità
visiva delle percezioni umane, frammentandola in parti significative ed
eliminando le informazioni irrilevanti.
Un meccanismo, questo, subordinato al pensiero: «Il cinema è come il
pensiero. Di tutte le arti è quella che gli si avvicina di più»
14
.
Anche Musatti in un intervento apparso in “Cinema Nuovo” nel 1986,
assimila il procedimento del montaggio a quello del pensiero rievocativo:
«se ripenso a ciò che mi è capitato nel corso di un tratto di tempo (un
pomeriggio, una serata, e magari una settimana o un mese), non ho bisogno di un
tempo corrispondente a quello effettivo; [...] mi soffermo su pochi elementi
caratterizzanti, passando dall’uno all’altro in una sequenza che è analoga a
quella di una serie di spezzoni filmici. Si può allora dire che la stessa struttura del
nostro pensiero rievocativo ha formato un modello per il montaggio filmico»
15
.
Per questi autori, perciò, se la successione di momenti frazionati ed ellittici
sembra del tutto naturale allo spettatore, è perchè il montaggio corrisponderebbe
al ritmo del pensiero, che “monta” esso stesso sensazioni e sentimenti in modo da
far avvertire il film come un tutto logico e coerente.
È quello che i gestaltisti chiamano errore dell’esperienza: l’attribuzione
delle caratteristiche proprie dell’esperienza diretta alla stimolazione prossimale
16
.
È vero che un normale osservatore chiude continuamente gli occhi, ma non si
accorge di questo, o meglio, tale azione non ha alcuna incidenza nei riguardi della
13
Idem, p. 58.
14
Idem.
15
Musatti C., in Nepoti R., L’illusione filmica. Manuale di filmologia, Torino, UTET, 2004, p.
272.
16
Quando si guarda un oggetto del mondo esterno, la percezione di quell’oggetto è mediata dai
processi retinici ad esso corrispondenti. Si può essere indotti a derivare le caratteristiche
dell’oggetto fenomenico, non più dalle caratteristiche dell’oggetto fisico distale, ma direttamente
da quelle della stimolazione prossimale, cioè dell’immagine retinica. Ma in questo modo una fase
intermedia, anche se necessaria, del processo percettivo viene scambiata con quello che è il
risultato finale di tale processo.
8
sua attività percettiva anche se, a livello dello stimolo retinico, l’intermittenza
esiste davvero.
Per questo noi sosteniamo che l’impressione di realtà, così abilmente
costruita dall’arte del montaggio, abbia sì le sue fondamenta nell’esperienza reale
“da svegli”, ma in più, crediamo che essa sia dovuta a leggi percettive, schemi
mentali innati che permettono allo spettatore di selezionare, integrare e decifrare
le informazioni che il film gli fornisce a poco a poco e talvolta solo parzialmente.
Ed è per questo che rifiutiamo altre proposte esplicative, come quelle che danno
ragione dell’illusione di realtà del montaggio all’abitudine audio-visiva dello
spettatore o alla somiglianza con lo stato onirico.
Lo scopo del seguente lavoro sarà, allora, quello di dimostrare come
l’illusione di realtà provata al cinema sia determinata dall’applicazione degli
schemi strutturali dell’esperienza quotidiana al mondo cinematografico e al
montaggio in particolare.
Ci si prefigge di raggiungere questa finalità attraverso due obiettivi,
corrispondenti alle due diverse parti in cui è suddiviso il lavoro stesso: nella prima
parte si analizzeranno in dettaglio le caratteristiche visive del mondo reale e di
quello cinematografico per evidenziarne le analogie percettive, nonostante la
diversità degli stimoli fisici; nella seconda, verrà dimostrato come le leggi visive
individuate, stiano alla base delle “regole grammaticali” che l’arte del montaggio
è andata costruendo nel tempo, per illudere lo spettatore di una continuità visiva
nel luogo ove regna, invece, la discontinuità.
La prima parte si apre con una premessa esplicativa riguardo ai modelli
teorici che nel corso dei secoli hanno guidato le discipline di riferimento per la
nostra analisi: la psicologia della percezione e il montaggio cinematografico. Le
trattazioni scientifiche riguardanti la percezione hanno avuto inizio dalla seconda
metà dell’Ottocento grazie agli studi fisiologici sperimentali di Helmholtz,
tendenti a dimostrare come la percezione fosse un processo induttivo di matrice
empiristica. Nel Novecento s’impose, invece, il modello gestaltista, il cui
approccio fenomenologico dimostrava come la percezione risultasse dalla
dinamica interna delle “forze” costituenti le diverse componenti di uno stimolo e
fosse regolata da una serie di principi di unificazione formale. Infine, dopo la
Seconda Guerra Mondiale nacque, all’interno dell’orientamento della psicologia
cognitiva, il “New Look on perception” (nuovo approccio alla percezione) di
9
Bruner, un modello funzionalistico secondo il quale il comportamento cognitivo
comporterebbe, ad ogni livello, l’elaborazione categoriale dell’informazione
secondo strategie e stili che variano da cultura a cultura e da individuo a
individuo. Attualmente nella scienza cognitiva si tende soprattutto a ipotizzare dei
modelli riduzionistici per esplicare i meccanismi neurali coinvolti nell’atto
percettivo. Per contro, un’impostazione più fenomenologica, propria dei
gibsoniani (psicologia ecologica) e dei neogestaltisti, è tesa a formulare delle leggi
percettive formali, di tipo non mentalistico.
Nell’analisi dei processi percettivi nel montaggio cinematografico per dare
ragione dell’illusione di realtà vissuta dallo spettatore ci siamo riferiti proprio al
modello gestaltista in quanto, tra questi descritti, è l’unico che permette di studiare
con precisione il “vedere”, il processo preattentivo nell’interpretazione di uno
stimolo, o, in altre parole, il processo primario dell’attività percettiva, in cui
l’input sensoriale viene trasformato in unità segregate attraverso principi di
organizzazione e di interpolazione percettiva
17
.
Per quanto riguarda il montaggio cinematografico, sempre nella prima
parte della trattazione si è voluto premettere che, nonostante l’idea di assemblare
inquadrature tra loro fosse comparsa sotto mentite spoglie già dagli anni Dieci,
non ne sono esistite teorizzazioni anteriori agli anni Venti, venendo ad occupare
posizioni di rilievo soltanto a partire dai primi anni Trenta. Ne fanno eccezione le
teorizzazioni sovietiche: dalla metà degli anni Dieci, Kulešov, grazie a numerosi
esperimenti effettuati nel suo laboratorio di Mosca, giunse ad individuare nel
montaggio l’essenza del cinema. Successivamente il suo allievo Pudovkin
individuò un’omologia fra questo procedimento e la selezione operata dall’occhio
all’interno del campo visivo, ma fu Ejzenštejn il primo a porre al centro della
riflessione teorica lo spettatore, affermando e dimostrando come la sua psiche
potesse essere modellata dal montaggio delle attrazioni e dal montaggio
intellettuale per realizzare una completa adesione all’assunto ideologico del film.
Anche nella teoria del cineocchio di Vertov lo sguardo dello spettatore è al centro
della riflessione: esso è un’estensione sintagmatica dello sguardo della cinepresa
in grado di incrementare il suo potere di osservazione, di scomposizione e di
analisi del dato reale.
17
Nel processo secondario la mente elabora queste informazioni per renderle significative al
percipiente attraverso l’identificazione e l’inferenza: questi processi propri del “pensare” non sono
di nostra competenza.
10
Fuori dell’Urss i due autori che all’inizio degli anni Trenta
approfondiscono maggiormente la questione del montaggio sono Balàzs e
Arnheim. Il primo vi assegna una funzione prevalentemente stilistica e
drammatica, il secondo pone al centro della riflessione, ancora una volta, lo
spettatore: l’illusione filmica, data dall’unità delle inquadrature, prevale sulla
percezione dei tagli; per questo essi divengono “invisibili”.
Con il primo capitolo si entra nel merito della trattazione riguardante le
motivazioni del carattere illusorio del film. Risultano indispensabili, allora, le
riflessioni di Bazin e Kracauer riguardo all’intrinseca oggettività fotografica del
mezzo cinematografico, ovvero il suo originario legame naturale con il reale. Ma
nonostante il mondo filmico realizzi una tal fedeltà riproduttiva delle
caratteristiche formali degli oggetti di partenza, è facile notare come esso abbia un
modo di presentarsi del tutto diverso da quello dell’ambiente quotidiano (ad
esempio, per la presenza di uno schermo, delle inquadrature o, in certi casi, del
bianco e nero); eppure lo spettatore tende a vivere i fatti rappresentati come
realmente esistenti. Con il presente lavoro si vuol dimostrare come ciò avvenga in
virtù dell’attività percettiva dello spettatore stesso, che reinterpretando il reale
riprodotto, lo reinstaura in una nuova unità. E questo a partire dalla segregazione
degli spazi che si attiva durante la proiezione di un film: le impressioni dello
spettatore di dividono in due sistemi separati, uno visivo ed uno propriocettivo;
grazie alla mancanza di interferenza tra questi due, il primo può provocare
l’impressione di realtà.
Compito del secondo capitolo, allora, è quello di approfondire tale sistema
visivo, per verificare fino a che punto i suoi costituenti siano responsabili della
suddetta illusione: in primo luogo, della mancata percezione della presenza di uno
schermo; in secondo luogo, della visione di un movimento continuo ove
fisicamente vi sono, invece, immagini fotografiche fisse; e in terzo luogo, delle
risposte percettive spettatoriali al fascio luminoso mandato dal proiettore allo
schermo, simili a quelle della realtà quotidiana.
Il terzo capitolo si inoltra ancor più approfonditamente nello studio
dell’illusione di realtà, esaminando tutte le componenti dell’immagine
cinematografica. Per quanto riguarda lo spazio dell’immagine, si vuol far notare
come l’illusione più viva che se ne percepisce è quella di uno spazio
tridimensionale ove il supporto è, invece, bidimensionale. Probabilmente i fattori
11
che qui vi agiscono sono quelli della disparazione binoculare, dei gradienti di
densità microstrutturale, della parallasse di movimento e del fenomeno della
stereocinesi. Con questo si vuol ribadire la diversità dello stimolo
cinematografico da quello reale: l’illusione di realtà che ne risulta è determinata
da precise leggi innate del sistema visivo e non da fattori empirici e assimilativi.
In secondo luogo, poi, per quanto riguarda il movimento presente
nell’immagine filmica, si vuol dimostrare come esso sia il principale responsabile
dell’illusione di realtà al cinema. Dopo una breve analisi della percezione del
movimento reale, vengono studiati il movimento stroboscopico e il movimento
indotto: anche in questo caso l’illusione non è determinata da principi dipendenti
dalla realtà fisica esterna ma dal sistema percettivo in quanto tale e tra i fattori in
questo responsabili vi sono la prospettiva di movimento e i gradienti di velocità.
Con queste considerazioni si vuole evidenziare come la percezione del movimento
sia determinata da vincoli rigidi, da forze coercitive che guidano l’occhio
dell’osservatore: egli percepisce correttamente tutti i movimenti perchè il sistema
visivo li scompone automaticamente in sistemi indipendenti. E il modello
adeguato a descrivere ciò che avviene a livello retinico è, in larghissima
approssimazione, quello della geometria proiettiva, che riguarda esclusivamente
le relazioni che rimangono invarianti durante le trasformazioni nel pattern
proiettato dal flusso ottico sul piano di proiezione.
È importante evidenziare come il successo di tali processi si deve alle
costanze percettive, che permettono all’oggetto cinematografico di avere, come
quelli dell’esperienza quotidiana, grandezza e forma costanti durante tutta la
durata della proiezione.
Con la seconda parte della trattazione si entra dettagliatamente nel merito
del montaggio cinematografico: dopo una breve premessa finalizzata a porre il
sistema visivo dello spettatore al centro della riflessione sull’illusione di realtà
per l’organizzazione del reale che esso realizza grazie ai processi percettivi, il
quarto capitolo è volto a delineare l’evoluzione del montaggio cinematografico per
comprendere le motivazioni che hanno portato il cinema a cercare una sempre
maggiore illusione attraverso questo procedimento.
Partendo dai pionieri, in primo luogo si sono volute analizzare la “veduta”
dei Lumière e il “tableau” di Méliès, come primordiali forme di rappresentazione
cinematografica senza montaggio. Un primo attacco all’integrità dei “tableux” fu
12
dato da Porter, che scoprì come dall’accostamento di due o più inquadrature
potesse nascere un nuovo senso, ma fu Griffith colui che individuò le prime regole
con le quali era possibile ottenere l’illusione di realtà attraverso l’arte del
montaggio. In ogni modo fu con il cinema hollywoodiano classico che l’illusione
di realtà trovò la sua ragion d’essere all’interno di un sistema di regole formali:
grazie all’espansione dell’industria cinematografica americana e alla realizzazione
dello “studio-system”, si venne definendo lo stile classico del montaggio
hollywoodiano il cui scopo era la trasparenza dello strumento utilizzato. Verso gli
anni Cinquanta, però, il montaggio classico fu messo in discussione dai giovani
registi americani ed europei, che ne contestarono le figure stilistiche ormai
desuete. Oggi, il montaggio, pur essendo caratterizzato da attrezzature digitali e
altri strumenti tecnologici, ha ancora come prerogativa principale l’invisibilità del
mezzo perchè la realizzazione dell’illusione di realtà è la via maestra per la
fascinazione spettatoriale.
Con il quinto capitolo si è tentato di analizzare gli strumenti del montaggio
odierno per individuarvi le leggi percettive responsabili dell’illusione di realtà: in
primo luogo, il ruolo dell’articolazione figura-sfondo, determinante nella
composizione delle inquadrature e nella loro percezione da parte dello spettatore;
in secondo luogo, gli “strumenti concettuali”, per dimostrare quali leggi di
segmentazione del campo visivo vi agiscono nella determinazione della loro unità
visiva.
Il sesto capitolo, poi, è volto a individuare i processi percettivi soggiacenti
alla costruzione e alla percezione del tempo e dello spazio nel montaggio. Per
quanto riguarda il tempo, è stato necessario introdurre l’argomento con una breve
sintesi delle teorie sorte in ambito filmologico, in quanto è da sempre stata
evidente la relazione tra la sovversione del tempo reale realizzata dal montaggio e
la scrittura narrativa. Passando ad un’argomentazione più propriamente
percettologica, vengono studiate le motivazioni di come lo spettatore possa
percepire unità nel ritmo del montaggio, quando esso è costruito a partire da
“microellissi” e “macroellissi” che frammentano continuamente il reale; lo stesso
per quanto riguarda la percezione della durata, costituita com’è dal “momento
visivo” (la vivacità dell’esplorazione oculare di un’immagine) e
dall’accelerazione o dal rallentamento delle inquadrature stesse. Simile analisi
viene altresì svolta nei confronti della percezione dello spazio, in quanto, quella
13
che opera il montaggio è anche una sovversione dello spazio reale, con continui
rimandi delle inquadrature ad un fuori-campo. Inoltre si analizza come lo
spettatore viva un’illusione di realtà ove si utilizzano diverse lunghezze focali
(obbiettivi normali, grandangolari e teleobbiettivi), nonostante le deformazioni
che esse comportano a livello retinico; vive unità ove effettivamente vi è una
frammentazione spaziale determinata dalla giustapposizione di inquadrature tra
loro differenti (campi, piani e angolazioni); infine, prova illusione dove si
compiono movimenti di camera come la panoramica, la carrellata, la gru, il
“dolly” e lo “zoom” altamente differenti dalla percezione reale.
14
PARTE PRIMA
ANALISI PERCETTOLOGICA DELLO
STIMOLO CINEMATOGRAFICO
PREMESSA
Teorie a confronto
L’arte del montaggio cinematografico contribuisce a rendere complesso un
film, arricchendolo d’informazioni visive e uditive che lo spettatore deve saper
codificare per potersi orientare e comprenderne la struttura. Ciò avviene a partire
dalla percezione degli elementi costitutivi del film stesso grazie a leggi selettive e
organizzative, in quanto lo spettatore di fronte ad una sequenza cinematografica,
«effettua delle scelte preliminari attraverso il sistema selettivo, valorizzando gli
attributi essenziali dell'immagine e scartando quelli irrilevanti»
1
, in modo che,
alla fine del procedimento, siano percepite un’unica forma e un senso unitario.
La psicologia, già avvezza agli studi sul cinema
2
, è la prima disciplina che
negli anni Sessanta risponde all’esigenza di un ricambio nel tipo d’approccio al
fenomeno filmico (alle teorie ontologiche
3
succedono le teorie metodologiche -
semiologia, psicologia, sociologia, psicanalisi), perchè assai interessata al
concetto di situazione cinematografica, quel complesso costituito da schermo,
sala e spettatore nel quale si dispiegano le leggi di riconoscimento e decifrazione
1
Nepoti R., L’illusione filmica. Manuale di filmologia, Torino, UTET, 2004, p. 40.
2
Si ricorda Hugo Münsterberg che dichiara in The Photoplay. A Psycological Study del 1916, di
voler incentrare il proprio interesse estetico «sui mezzi attraverso i quali il film influenza la mente
dello spettatore [...] individuando gli eccitamenti mentali elementari che entrano a far parte della
nostra esperienza del film»; egli si sofferma sulla prospettiva binoculare della visione umana e
sull’illusione di profondità dell’immagine filmica; asserisce, poi, che «il compito principale che lo
psicologo deve porsi è la spiegazione del movimento nell’ambito del cinema» (Münsterberg H.,
Film. Il cinema muto nel 1916, Pratiche, Parma, 1980, pp. 34-40). Anticipiamo inoltre l’attenzione
alla performance psicologica dello spettatore a cui prestano grande attenzione i formalisti russi
(cfr. Ejchenbaum B., I problemi dello stile cinematografico) e in particolare Sergej M. Ejzenštejn,
che ne tenne conto nella formulazione della teoria del montaggio negli anni Venti (si veda il
paragrafo 2.3 di questo capitolo) e infine i molti interventi durante gli anni Trenta che miravano
ora a evidenziare gli effetti delle immagini, ora a usare il film stesso come test (cfr. Arnheim R.,
Film als Kunst, 1932 o Musatti C., Elementi di psicologia della testimonianza, 1931) (si veda il
paragrafo 2.5 di questo capitolo).
3
Un tratto distintivo sicuro ed evidente che demarca il passaggio dal dibattito “classico” (1915-
1945) alla teorizzazione moderna è la fioritura, a partire dal secondo dopoguerra, di una serie di
riflessioni estetico-teoriche incentrate sull’idea di realismo. Fra esse, oltre agli articoli di André
Bazin, raccolti nel volume Che cosa è il cinema (Garzanti, Milano, 1973), svolge un ruolo di
grande rilievo il trattato di Sigfried Kracauer, Film: ritorno alla realtà fisica (Il Saggiatore,
Milano, 1962). Con questi autori lo statuto riproduttivo dell’immagine cinematografica verrà
indicato come un suo punto di forza e non più come un limite estetico.
17
di quanto viene mostrato. In particolare è fondamentale l’apporto dato dalla
psicologia sperimentale, che coeva alla nascita del cinema, già nei primi due
decenni del XX secolo, aveva sviluppato ipotesi sulla percezione visiva cercando
di capire se il cinema potesse riprodurre i modi di funzionamento della mente
umana.
1. LA PSICOLOGIA DELLA PERCEZIONE: TRE
MODELLI ESPLICATIVI
Tutti gli organismi vengono informati delle variazioni che si producono
nell’ambiente circostante attraverso stimoli fisici, che agendo sui vari organi di
senso, trasmettono le informazioni nervose al cervello.
«Nello studio della sensazione occupano un posto importante i meccanismi
fisiologici o psicofisiologici che permettono l’emissione del messaggio
informativo nelle cellule recettrici degli organi di senso, la sua trasmissione nel
sistema nervoso, la sua recezione nel cervello»
1
.
Ma i meccanismi sensoriali non sono apparati che forniscono un’immagine
immutabile della realtà fisica. Gli individui, infatti, hanno a che fare, non con
sensazioni isolate, bensì con percezioni: essi vedono oggetti e persone nella loro
totalità e identità perchè
«la percezione è un’organizzazione immediata, dinamica e significativa dei
dati della realtà [che] conduce a segmentare il flusso continuo dell’esperienza in
unità distinte»
2
.
Lo studio della percezione riguarda quindi le condizioni, le modalità e i
risultati della
«costruzione attiva mediante la quale i dati sensoriali vengono selezionati,
analizzati, integrati con l’aggiunta di proprietà non direttamente rilevabili ma
1
Reuchlin M., Manuale di psicologia, Roma, Editori riuniti, 1981, p. 28.
2
Darley J. M., Glucksberg S., Kinchia R. A., Fondamenti di psicologia, Bologna, Il mulino, 1998,
p. 91.
18
soltanto ipotizzate, dedotte o anticipate, utilizzando le conoscenze e le capacità
intellettive che si hanno a disposizione»
3
.
Secondo la psicologia del senso comune, definita col termine realismo
ingenuo, le immagini percettive (o percetti) corrisponderebbero fedelmente alla
realtà fisica: esisterebbe cioè una perfetta corrispondenza fra gli oggetti esistenti
in natura e ciò che si vede e percepisce.
«[Per il senso comune] il mondo è fatto di tanti oggetti e cose, noi apriamo gli
occhi e ce li troviamo lì fuori davanti a noi, con tutte le loro proprietà (a patto
naturalmente che siano illuminati e che non siano troppo lontani da noi)»
4
.
L’esistenza di una corrispondenza fra le caratteristiche della realtà fisica e
della realtà percettiva è dunque vissuta dall’uomo comune come un dato di fatto e
non come un problema. Ma il mondo percettivo non è la copia diretta
dell’ambiente, bensì il risultato di una serie di mediazioni e d’attività svolte
dall’organismo: l’elaborazione percettiva costruisce delle strutture (forme) se-
condo delle proprie leggi in base a come il campo visivo si articola in unità
discrete.
Un secondo problema riguardante la psicologia della percezione è quello che
nasce nel momento in cui si vogliono fissare dei limiti tra il “vedere” e il
“pensare”: dove finisce il versante sensoriale e dove iniziano le operazioni
intellettive?
«Se per “pensiero” si intendono le operazioni come categorizzare, afferrare
rapporti, inferire e dedurre, si può sostenere che nessuna fase del processo
sopradescritto ne è priva, perchè già la semplice identificazione di un oggetto
visivo (ad esempio, anche il vederlo come una “macchia confusa”) implica
un’operazione logica elementare, la sua collocazione in una categoria di identità
piuttosto che in un’altra»
5
.
Quella della percezione è allora un’attività globale, dove anche la più
semplice delle operazioni cognitive presuppone qualcosa che deve essere
identificato, assegnato a una classe di equivalenza. Kanizsa afferma, infatti, che
nell’attività percettiva si devono distinguere due fasi di elaborazione dei dati
3
Kanizsa G., Grammatica del vedere. Saggi su percezione e gestalt, Bologna, Il Mulino, 1980, p.
83.
4
Kanizsa G., Legrenzi P., Sonino M., Percezione, linguaggio, pensiero. Un’introduzione allo
studio dei processi cognitivi, Bologna, Il Mulino, 1983, p. 43.
5
Kanizsa G., Grammatica del vedere. Saggi su percezione e gestalt, Bologna, Il Mulino, 1980, pp.
83-84).
19
sensoriali: un processo primario e un processo secondario. Nel primo, detto
anche processo preattentivo, l’input sensoriale viene trasformato in unità
segregate attraverso il processo di organizzazione (distribuzione degli stimoli
elementari sull’organo recettore che il sistema ottico elabora ed organizza in
unità) e di interpolazione percettiva (presentificazione dell’assente, cioè fenomeni
di totalizzazione o riempimento di lacune). Nel processo secondario, invece, la
mente elabora queste informazioni per renderle significative al percipiente
attraverso l’identificazione (o riconoscimento, categorizzazione), che assegna un
qualche evento dato a una classe di oggetti funzionalmente equivalenti, e
l’inferenza, che ricava per interpolazione, essendo dati due o più elementi, gli
elementi mancanti. Quindi, egli conclude affermando fermamente che dal punto di
vista fenomenico, “vedere” e “pensare” sono due attività ben distinte
6
.
Del processo primario si sono occupati a fondo i gestaltisti che hanno proposto
un modello nel quale
«per autodistribuzione dinamica delle forze provocate dall’input sensoriale, si
generano le unità od oggetti fenomenici, con le loro caratteristiche di colore,
grandezza, forma, tridimensionalità, movimento, espressività. Le loro analisi
fenomenologiche hanno stabilito alcuni principi o leggi a cui obbedisce questa
autodistribuzione»
7
.
Invece, il modello che affronta la spiegazione di quanto avviene nel processo
primario estendendo ad esso i principi del processo secondario, è quello
cognitivista, sviluppatosi sotto l’influenza della teoria dell’informazione e della
scienza dei calcolatori. Ma questa concezione computazionale della percezione
afferma che anche il meccanismo deputato all’elaborazione della stimolazione
sensoriale funziona secondo la logica del processo secondario, cioè classifica,
analizza, forma ipotesi, verifica, prende decisioni,
«decisioni che possono essere anche sbagliate. Ma mentre nel caso del
processo secondario ha un senso parlare di errore, perchè l’intenzione del
percipiente è quella di arrivare a conclusioni veridiche, cioè di stabilire se gli
oggetti fenomenici corrispondono ad oggetti “reali”, non ha molto senso
attribuire questa intenzione ai meccanismi di elaborazione primaria, i quali
semplicemente funzionano secondo determinate loro regole e non si propongono
6
Cfr. Idem, p. 101-115 dove vengono dati come dimostrazioni di questa affermazione esempi di
oggetti impossibili (o figure impensabili) e movimenti impossibili che si possono vedere ma non
pensare e oggetti che, al contrario, non si possono vedere ma si possono pensare.
7
Idem, p. 86.
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