3
risultarono vani di fronte al nuovo stato delle cose: il predominio degli Stati Uniti e
dell’Unione sovietica, sorto sulle rovine del vecchio sistema europeo.
Fu la necessità di impedire che l’influenza sovietica si diffondesse su tutta
l’Europa, dopo che si era consolidata negli Stati dell’Europa orientale, ad indurre la
ricerca di una soluzione al vuoto di potere che la guerra aveva creato nella parte
occidentale del continente. E fu l’urgenza di colmare questo vuoto di potere a far sì
che gli Stati Uniti fossero indotti a perseguire una politica favorevole
all’unificazione europea. Gli americani lanciarono la loro iniziativa per fare in
modo che fra gli Stati europei ci fosse una forte integrazione, tale da permetterne
una altrettanto forte fra questi e gli stessi Stati Uniti, agevolando in tal modo la
nascita del blocco occidentale, necessario per affrontare la nascente
contrapposizione fra le due nuove potenze mondiali: la guerra fredda. Inoltre essa
era tesa a rianimare la speranza in una rinascita dell’Europa, facendole intravedere
il recupero della sua autonomia e della possibilità di scegliere il proprio destino
invece di vederlo deciso dall’esterno. Tutte queste finalità contribuirono a far
apparire l’europeismo come parte integrante dell’atlantismo, e quindi il progetto di
unificazione europea come il mezzo con cui gli americani intendevano contrastare
l’Unione Sovietica in Europa, ed incoraggiare una maggiore collaborazione
militare, politica ed economica tra gli Stati Uniti e la nuova entità che sarebbe sorta
dall’unione dei loro alleati europei.
Tuttavia l’iniziativa statunitense non avrebbe avuto alcuna possibilità di
successo senza il contributo di una grande personalità carismatica come quella di
Wiston Churchill. Egli, con il suo invito a compiere “a first practical step”
3
, si
adoperò affinché fosse istituito un Consiglio d’Europa, e restituì in tal modo “uno
spirito europeo ad una politica decisa fuori dall’Europa”
4
. L’intervento dell’ex
primo ministro britannico aveva anticipato la mobilitazione “dell’elemento europeo
autonomo”
5
che, di lì a poco, si sarebbe impegnato per lo sviluppo di una vera e
propria politica europea, capace non solo di far avviare in seno alle classi politiche
3
Mammarella G., Cacace P., Storia e politica dell’Unione Europea, Bari, Editori Laterza, 1999, p.
33
4
Albertini M., Nazionalismo e federalismo, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 246
5
Ibidem.
4
degli Stati europei una riflessione sulle prospettive di una possibile unione, ma
anche di coinvolgere emotivamente l’opinione pubblica in questo grande progetto.
La proposta di Churchill si concretò nella conferenza tenuta all’Aja nel
1948, che assunse la denominazione “Congresso d’Europa”, e venne salutata come
la “prima manifestazione europeista a livello continentale”. La conferenza vide
riuniti, a fianco dei più noti esponenti del movimento europeista, i maggiori statisti
dei paesi dell’Europa occidentale. L’anno seguente fu istituito, come previsto dalla
risoluzione finale del Congresso d’Europa, il Consiglio d’Europa.
Nonostante le aspettative riposte in esso fossero ben presto deluse, poiché fu
ridotto ad un mero organo consultivo la cui spinta innovativa venne ricondotta sotto
il controllo della sovranità degli Stati nazionali, privandolo così di una vera e
propria funzione politica, il Consiglio d’Europa divenne il simbolo della
mobilitazione del sentimento europeo, il quale, tuttavia, aveva solamente una
dimensione ideale, dal momento che non si erano ancora trovate delle prospettive
concrete d’integrazione.
Il sostanziale fallimento del Consiglio d’Europa era la conseguenza delle
divisioni, incentrate sulla questione della sovranità, createsi all’interno del
movimento federalista, e delle scarse risorse a disposizione di quest’ultimo per
potersi confrontare con il movimento confederale, sostenuto dai governi degli Stati.
Proprio da questa contesa fra queste due correnti di pensiero prese corpo
un’ulteriore teoria: quella funzionalista, che sosteneva un’integrazione graduale in
determinati settori nella convinzione che, arrivati ad un certo punto, questo
processo avrebbe posto le basi per il trasferimento ad un’autorità sovranazionale di
veri e propri poteri politici.
Il funzionalismo fu la via che permise di venire a capo del problema più
sentito dall’opinione pubblica europea e di più difficile risoluzione:
l’inquadramento della Germania occidentale sia nella politica atlantica che nel
sistema economico e politico europeo.
La questione tedesca fu la manifestazione più lampante del nuovo clima che
si era instaurato fra gli Stati Uniti e L’Unione Sovietica. Lo status della vera grande
sconfitta del conflitto mondiale era anomalo, poiché non esisteva più uno Stato
tedesco; sul suo territorio vigeva un regime di occupazione suddiviso in quattro
5
zone assegnate rispettivamente agli Stati Uniti, all’Unione Sovietica, alla Gran
Bretagna ed alla Francia; la città di Berlino venne divisa a sua volta in quattro zone
di amministrazione, assegnate anch’esse alle quattro potenze sopra citate. Falliti i
tentativi di gestire le quattro zone occupate come un’unica entità economica ed
amministrativa, americani ed inglesi, ed in seguito i francesi, fusero le loro
rispettive zone e da queste, dopo che fu vanificata la risposta sovietica a questi atti,
il cosiddetto “blocco di Berlino”, prese forma un nuovo stato: la Germania
occidentale. La Francia, memore delle recenti sofferenze causate dalla politica di
potenza dello Stato tedesco, era restia a favorirne la rinascita, anche se limitata
solamente alle regioni occidentali; ma la minaccia ben più grave costituita dalla
Russia staliniana, che aveva oramai sottomesso al suo potere gli Stati dell’Europa
orientale, imponeva l’uso delle enormi potenzialità tedesche, fino ad allora rimaste
inutilizzate. Da questo momento, la politica francese finalizzò i suoi sforzi verso
una soluzione unitaria, per fare in modo che la Germania fosse sottoposta ad un
controllo europeo. La ripresa della produzione industriale tedesca, soprattutto
dell’acciaio, e la conseguente minor disponibilità di carbone tedesco per l’industria
francese, obbligò il governo di Parigi a ricercare una soluzione per assicurare la
competitività del proprio sistema industriale.
Per risolvere questo problema si mise in pratica quanto era professato dalla
nuova teoria funzionalista, e la soluzione si concretizzò con l’attuazione, nel 1950,
del piano elaborato da Jean Monnet, poi fatto proprio dal ministro degli esteri
francese Robert Schuman, il cui scopo era l’istituzione di un’autorità dotata di
poteri sovranazionali cui affidare la gestione, il controllo, la commercializzazione e
la produzione del carbone e dell’acciaio di Francia, Germania, e di ogni altro Stato
che avesse voluto aderire. La conseguenza di questa proposta fu la nascita nel 1951
della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), che rappresentò una
svolta storica nelle relazioni franco-tedesche; a questi due paesi si associarono
l’Italia e i paesi del Benelux. Con la CECA era nata un’istituzione munita dei mezzi
necessari a prendere delle decisioni fondamentali in settori dove normalmente
occorreva la presenza di un vero e proprio governo, senza essere dotata di un potere
politico.
6
Il successo che ebbe la CECA diede l’illusione di poter risolvere con le
stesse modalità l’altra grande questione che si era imposta come prioritaria: il
riarmo tedesco. Per impedire che si costituisse un esercito nazionale tedesco, Jean
Monnet, su invito di Schuman, nel 1950 elaborò il “piano Pleven” (così denominato
perché fatto proprio dal presidente del Consiglio francese René Pleven) il cui fine
era la creazione di un esercito europeo sotto il controllo di un’autorità
sovranazionale: la CED (Comunità Europea di Difesa). Ma la CED avrebbe dovuto
agire nell’ambito di un settore, quello della difesa, che imponeva la nascita di un
governo sovrano cui far assumere le responsabilità politiche derivanti dal controllo
del dispositivo di difesa bellica, e, per questa ragione, prese corpo l’iniziativa
d’inserire nel trattato istitutivo della comunità di difesa anche la procedura per la
costituzione di una Comunità Politica Europea (CPE), ossia di un autentico Stato
federale europeo. Questa accelerazione del processo funzionalista, che in tal modo
aveva abbandonato la via dell’integrazione graduale per approdare a quella del
costituzionalismo, che prospettava l’elezione di un Congresso Europeo, la cui
finalità sarebbe stata l’elaborazione della costituzione degli Stati Uniti d’Europa, e
l’allentamento della tensione fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, dovuto alla
morte di Stalin, determinarono il fallimento della CED, causato dalla mancata
ratifica del trattato istitutivo da parte dell’Assemblea Nazionale francese, nel 1954,
in un momento in cui gli stati europei non erano più disposti a rinunciare alla loro
sovranità.
Tuttavia, il processo d’integrazione proseguì sulla scia del successo che
stava ottenendo la CECA, oramai nel pieno delle sue funzioni; e fu ispirandosi al
suo modello che i governi dei paesi membri presero la decisione di mettere in atto
un piano che permettesse la graduale integrazione delle loro economie nazionali,
fino a raggiungere l’obiettivo della creazione di un mercato comune europeo.
Questo nuovo rilancio della politica funzionalista, portò alla firma dei Trattati di
Roma del 1957, i quali istituirono la CEE (Comunità Economica Europea) e la
CEEA (Comunità Europea per l’Energia Atomica) o EURATOM.
La CEE fu la piattaforma istituzionale che consentì lo spettacolare decollo
dell’economia europea, permettendole di diventare una potenza economica
mondiale, e favorì una crescita industriale che non aveva precedenti nella storia del
7
continente europeo. Accanto a questi risultati indubbiamente positivi, tuttavia,
cominciò a delinearsi la questione che nel corso degli anni assumerà sempre
maggior importanza, e alla quale ancora oggi non è stata data una soluzione
definitiva: come far in modo che la Comunità non mantenesse la struttura di una
semplice confederazione limitata al solo ambito economico, ma che, al contrario,
assumesse un carattere “politico”, con l’allargamento delle competenze alla politica
estera e di difesa. L’obiettivo era di inserirsi come “terza forza” nella
contrapposizione russo-americana, e quindi quello di attuare una linea di condotta
che non fosse necessariamente vincolata all’osservanza della politica atlantica,
caratterizzata dalla leadership americana.
Il principale interprete di questa esigenza fu il Presidente della Repubblica
francese Charles De Gaulle, il quale si oppose all’ingresso della Gran Bretagna
nella Comunità, portò avanti il programma di armamento atomico nazionale senza
che questo venisse integrato nel dispositivo militare dell’Alleanza atlantica, e avviò
una politica di collaborazione con la Germania Ovest, che sarà alla base di ogni
successivo sviluppo delle istituzioni comunitarie. Detto ciò, va precisato che il
presidente De Gaulle non era favorevole alla nascita di un nuovo Stato federale, di
un’entità sovranazionale cui gli Stati membri avrebbero dovuto cedere in parte la
loro sovranità, ma portava avanti il progetto di una Comunità di Stati Sovrani, uniti
fra loro da interessi politici-economici, e sotto la guida dello Stato francese. Il
rifiuto di De Gaulle all’ingresso della Gran Bretagna nella CEE era dovuto alla
“special relationship” esistente fra questa e gli Stati Uniti, e al timore che questi
ultimi, attraverso la Gran Bretagna, tentassero di esercitare una qualsiasi forma di
controllo sulla Comunità, cercando d’impedire che questa si costituisse
effettivamente come una “terza forza” fuori dal quadro della politica atlantica, e
quindi autonoma dalla linea di condotta statunitense. Il Presidente francese, inoltre,
si scontrò con le stesse istituzioni della comunità, ed in particolare con la
Commissione, quando quest’ultima propose un piano per dotare l’organizzazione
comunitaria di “risorse proprie” senza aver prima consultato il Consiglio, l’organo
composto dai rappresentanti dei governi nazionali; De Gaulle accusò la
Commissione di non avere la necessaria legittimità democratica per avanzare
proposte senza il consenso dei governi nazionali, che, al contrario, erano soggetti al
8
controllo dell’elettorato, e, come ritorsione, prese la decisione di sospendere la
partecipazione dei rappresentanti francesi a tutti gli organi della Comunità, dando
luogo ad una delle crisi più gravi nella storia delle istituzioni europee (crisi della
“sedia vuota”), risolta solo l’anno seguente con gli accordi di Lussemburgo. Queste
vicende complicarono non poco il processo d’integrazione europea che, nonostante
tutto, continuò, anche se con minor determinazione, prestabilendo nuovi obiettivi
come la completa attuazione delle politiche comuni, l’allargamento ad altri stati, in
particolare alla Gran Bretagna, e la decisione di realizzare un nuovo grande
obiettivo: l’unione economica e monetaria.
Tuttavia le recessioni economiche degli anni ’70, innescate dalla crisi
petrolifera dovuta al blocco delle esportazioni del petrolio mediorientale attuato dai
paesi arabi come ritorsione nei confronti degli alleati del loro acerrimo nemico,
Israele, furono affrontate dagli Stati membri senza una linea di azione comune,
determinando una stasi del processo d’integrazione; questo riprese quando si
constatò che le “vie nazionali” avevano ottenuto risultati a dir poco fallimentari
nell’affrontare la crisi, e dalla necessità di riformare le istituzioni europee sia per
adeguarle alle nuove dimensioni raggiunte dalle Comunità, dopo l’ingresso dei
nuovi Stati membri, e all’aumentato numero di competenze ad essa attribuite, sia
per porre rimedio al persistente deficit democratico.
Nel 1978 entrò in vigore il trattato che istituiva lo SME (Sistema Monetario
Europeo), l’anno dopo si tennero le prime elezioni del Parlamento Europeo da parte
dei cittadini degli stati membri della Comunità, avviandone il processo di
democratizzazione, e nel 1986 fu firmato l’Atto Unico europeo, le cui basi erano il
completamento del mercato comune entro il 1992 e l’avvio di una cooperazione in
politica estera e in quella di sicurezza. L’Atto Unico europeo fu il preludio ad
un’altra tappa di fondamentale importanza nel processo di rinnovamento ed
ampliamento della Comunità Europea: il Trattato di Maastricht.
In questi anni la scena internazionale subì numerosi ed importanti
stravolgimenti: l’ascesa al potere di Michail Gorbaciov in Unione Sovietica e la sua
politica incentrata sulla perestrojka e sulla glasnost’, la caduta del muro di Berlino
avvenuta nel 1989 e la successiva unificazione della Germania, realizzatasi lo
stesso anno, lo scoppio della guerra del Golfo nel 1991. Il Trattato di Maastricht,
9
firmato nel 1992, fu la risposta degli Stati europei a questi eventi, poiché in esso era
prevista un’accelerazione del processo di cooperazione riguardante la politica
estera, la politica di sicurezza e la politica di difesa, tramite la messa in atto di una
nuova istituzione cui erano destinate tali competenze: l’Unione Europea. Le altre
disposizioni del trattato prevedevano: il raggiungimento dell’Unione Economica e
Monetaria, la cui finalità era l’introduzione e la circolazione della Moneta comune,
la nascita della Cittadinanza Europea, e l’aumento dei poteri del Parlamento
Europeo, cui, inoltre, è stato attribuito il cosiddetto “voto di fiducia”, senza il quale
la Commissione non può entrare in carica. Inoltre, in seno al Consiglio, fu esteso,
dopo che era stato introdotto dall’Atto Unico, il ricorso al voto a maggioranza,
semplice o qualificata (la più frequente), per le materie riguardanti l’ambito
economico, mentre per le questioni concernenti materie di fondamentale
importanza, come la politica estera e quella di sicurezza interna, si continuava a
ricorrere al voto unanime. Proprio quest’ultimo fu il mezzo con il quale gli Stati
nazionali continuarono ad esercitare il loro controllo su di esse, raffreddando gli
entusiasmi di chi si era battuto per la creazione di un vero e proprio Stato: il
Trattato di Maastricht rappresentava il completamento della politica funzionalista, e
non l’approdo ad una visione federalista dell’Unione. Per di più nell’opinione
pubblica europea cominciava a prendere forma il cosiddetto “euroscetticismo”,
dovuto al disagio dei cittadini di fronte alla limitata trasparenza nell’organigramma
dell’Unione, che non permetteva di attribuire le responsabilità degli atti deliberati
da questa, e alla scarsa democrazia interna, poiché i poteri del Parlamento Europeo
continuavano ad essere molto esigui ed all’interno di quest’ultimo mancava una
vera competizione politica fra i vari partiti politici che lo componevano.
I limiti della nuova costruzione istituzionale divennero chiari un anno dopo
la sua entrata in vigore (1993), quando, con l’adesione di nuovi Stati nell’Unione, il
numero dei suoi membri passò da dodici a quindici; ciò pose il problema del
funzionamento delle istituzioni europee in caso di un ulteriore allargamento,
soprattutto se questo avesse coinvolto gli Stati dell’Europa dell’est, caratterizzati da
sistemi economico-sociali molto arretrati rispetto a quelli degli Stati membri. La
crisi nella vicina Jugoslavia, innescata dalla dichiarazione d’indipendenza da parte
della Slovenia, della Croazia, della Bosnia e della Macedonia e degenerata in un
10
conflitto armato dapprima fra serbi e croati ed in seguito fra serbi e musulmani di
Bosnia, fu la prima prova alla quale la politica estera comune ebbe la possibilità di
sottoporsi; ma dopo i primi progressi, la sua azione si arenò, poiché cominciarono a
prevalere la logica degli interessi nazionali, e solo l’intervento diplomatico e
militare degli Stati Uniti, attraverso la NATO, permise di porre fine ad un conflitto
che si faceva ogni giorno più cruento. Un'altra prova in cui la politica estera
comune non riuscì ad imporsi fu la crisi ruandese, dove l’azione dei paesi europei si
divise, poiché la Francia intervenne in modo diretto nel conflitto, mentre gli altri
Stati dell’Unione si limitarono semplicemente ad inviare aiuti umanitari. Sul
versante dell’Unione Economica e Monetaria, le cose non andarono meglio, poiché
lo SME fu messo in crisi dagli attacchi speculativi contro la Lira italiana e la
Sterlina inglese, le quali nel 1992 furono costrette ad uscirne poiché non riuscivano
più a mantenere il loro valore entro i “margini di fluttuazione”. La crisi dello SME
metteva in pericolo il cammino dell’Unione monetaria, e per questa ragione si
decise di proporre l’ipotesi di un’”Europa a più velocità”, per fare in modo che si
potesse arrivare ad un obiettivo comune anche se in tempi diversi, in relazione allo
stato di preparazione di ogni singolo Stato. La possibilità o meno di poter entrare a
far parte del novero dei paesi che avrebbero adottato da subito la nuova moneta,
l’Euro, la cui entrata in circolazione era stata prevista per l’inizio del 2002, sarebbe
stata determinata dal rispetto di cinque indicatori economici e finanziari, i cosiddetti
“parametri di Maastricht”. In seguito a questi si aggiunse il cosiddetto “Patto di
stabilità” che comportava l’impegno, per i paesi che avessero aderito alla nuova
moneta, di presentare bilanci in pareggio o comunque tendenti ad eliminare il
deficit di bilancio.
Nel 1997 si tenne il vertice di Amsterdam, il cui obiettivo era la revisione
del Trattato di Maastricht al fine di rendere l’azione dell’Unione Europea più
incisiva (in particolare nell’ambito della politica estera), ma i suoi risultati furono
molto deludenti: i governi nazionali non vollero prendere delle decisioni
fondamentali in campo comunitario correndo il rischio di andare contro gli umori
del proprio elettorato, memori delle difficoltà che avevano avuto le operazioni di
ratifica del trattato di Maastricht da parte degli Stati membri. Le uniche vere novità
del Trattato di Amsterdam (1997) furono l’integrazione del Trattato di Schengen
11
(1985) nel trattato dell’Unione, che consentì la libera circolazione delle persone
all’interno dell’Unione Europea, e l’introduzione della figura dell’Alto
Rappresentante della Politica Estera e di Sicurezza Comune, una sorta di segretario
generale che avrebbe svolto il ruolo di portavoce dell’Unione in materia di politica
estera. Ma un'altra crisi internazionale, sempre nella oramai ex-Jugoslavia, e
precisamente nella regione del Kossovo, ripropose ancora una volta il problema
della scarsa efficacia delle istituzioni comunitarie nell’affrontare le questioni di
politica estera, e la volontà dei governi nazionali di procedere con politiche
autonome in questo ambito. Visti i fallimenti degli sforzi diplomatici, tesi a far in
modo che alla regione serba del Kossovo fosse concessa un’ampia autonomia da
parte della Serbia, la quale rifiutò di fare qualsiasi concessione, il governo
statunitense, parte attiva nella trattativa, con l’appoggio del governo inglese, decise
di intervenire militarmente contro lo Stato serbo. L’Unione rischiò di ritrovarsi
ancora spaccata, e solo dopo molte esitazioni i paesi europei decisero di partecipare
alle operazioni belliche sotto le insegne della NATO. Il conflitto terminò quando,
grazie alla mediazione russa, si raggiunse un accordo che prevedeva il ritiro delle
truppe serbe dal Kossovo e la divisione di quest’ultimo in cinque zone
d’occupazione sotto il controllo di Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Francia ed
Italia, con un contingente russo di supporto.
Gli avvenimenti successivi riportano ai nostri giorni. L’Euro è in
circolazione dall’inizio del 2002, anche se ufficialmente è entrato in vigore
dall’inizio del 1998, allorché fu stilata la lista di paesi ammessi nella nuova moneta
(l’unico Stato a non essere ammesso è stata la Grecia, mentre Gran Bretagna,
Svezia e Danimarca hanno deciso di non aderire) ed istituita la Banca Centrale
Europea.
Per rispettare i parametri di Maastricht i paesi europei sono stati costretti ad
adottare politiche economiche restrittive al fine di poter controllare la crescita
dell’inflazione; la conseguenza di ciò è stata una stasi nella crescita economica, che,
in seguito, ha corso il rischio di tramutarsi in una vera e propria recessione a causa
della conclusione dello spettacolare trend di crescita, durato un decennio,
dell’economia americana. Queste difficoltà non hanno impedito all’Unione di
continuare a perseguire uno dei suoi obiettivi più importanti, la crescita economica
12
e culturale dei paesi in via di sviluppo, attraverso l’applicazione di un regime di
dazi di favore e l’assistenza a numerosi programmi di sviluppo.
Tuttavia questi sforzi non hanno raggiunto il successo sperato, poiché il
divario fra il Nord ed il Sud del mondo si è ampliato, con tutti i problemi che ne
conseguono: dall’aumento della povertà allo sfruttamento eccessivo delle risorse
naturali, dalla crescita esponenziale della popolazione alle conseguenze climatiche
causate da un’eccessiva industrializzazione, la quale basa i suoi processi produttivi
su tecnologie inquinanti. Ed è proprio la capacità sviluppata da questi processi
produttivi di estendere la loro influenza su interi continenti (quindi ben oltre i
confini dei singoli stati), e di propagare i loro effetti non solo nell’ambito politico
ed economico, ma anche in quello socio-culturale, che ha indotto l’opinione
pubblica e le classi politiche ad avviare una riflessione sull’origine, le cause e le
conseguenze di questo nuovo fenomeno, conosciuto con il nome di globalizzazione.
Anche se non è possibile comprenderne fino in fondo le dinamiche, è oramai chiaro
che occorre formulare una soluzione politico-istituzionale che sia capace di
governarla, affinché in futuro essa non produca delle conseguenze irreparabili tanto
sul territorio quanto sulla popolazione dell’intero pianeta. Il ruolo dell’Unione in
questo ambito potrebbe essere decisivo, visto il suo status di potenza economica e
commerciale, ma le divisioni al suo interno, dovute alla mancanza di una linea
comune fra gli Stati membri, non le permettono di esprimere al meglio le proprie
potenzialità.
Anche per quel che concerne la politica mondiale, l’Unione ha disatteso
quasi del tutto le aspettative di una condotta politico–diplomatica comune fra i suoi
paesi membri suscitate con la firma dei Trattati di Maastricht, poiché l’istituzione
dei nuovi organi comunitari si è rivelata insufficiente per garantire il
conseguimento di questo obiettivo. D’altronde la nuova situazione internazionale
che ha avuto inizio con la caduta del muro di Berlino ed il crollo dell’Unione
Sovietica (e con essa di tutto il blocco comunista), sembrava garantire un lungo
periodo di tranquillità, utile per consentire l’assestamento e la verifica di questo
nuovo strumento comunitario. Ma la speranza nell’inizio di una nuova epoca
caratterizzata da una pace duratura, nel corso degli anni è stata tradita poiché, pur
svanendo il pericolo di una guerra mondiale, hanno avuto luogo innumerevoli, e
13
spesso atroci, conflitti regionali. La guerra del Golfo e le crisi nell’ex-Jugoslavia
sopra citate, la crisi ruandese che, in seguito, ha portato la destabilizzazione in tutta
l’area dell’Africa centrale ed in particolare nell’ex Zaire (oggi Repubblica
Democratica del Congo), il conflitto fra Etiopia ed Eritrea, la crisi in Somalia, la
crisi cecena, sono solo parte delle crisi regionali avutesi in questi ultimi dieci anni,
alle quali vanno sommate tutte le storiche contrapposizioni che non hanno trovato
ancora una soluzione, tra le quali spicca il conflitto arabo-israeliano. Molti degli
avvenimenti sopra citati hanno visto l’Unione Europea immobile, intenta solamente
a fare proclami, o a portare avanti mediazioni alla fine rivelatesi inutili; nei
pochissimi casi in cui ha tentato d’intervenire, la sua linea di condotta è sempre
stata caratterizzata dall’incertezza, a causa delle divisioni esistenti fra gli Stati
membri nell’impostare una linea politica comune. Solo il coinvolgimento degli
Stati Uniti, in alcuni di questi casi, ha spinto alcuni Stati europei ad intervenire, ma
questa partecipazione è avvenuta in conseguenza della loro adesione alla NATO,
non come intervento autorizzato dall’Unione Europea.
La mancanza di una linea di condotta comune si è registrata altresì in
occasione del più grave attentato terroristico che la storia ricordi, avvenuto l’11
settembre 2001: alcuni aerei di linea furono dirottati e fatti schiantare contro gli
edifici del Pentagono di Washington ed il World Trade Center di New York. Anche
in questo caso i capi di governo dei maggiori paesi membri dell’Unione hanno agito
uno indipendentemente dall’altro, senza nemmeno cercare un preventivo accordo in
sede comunitaria, spinti dall’intento di volgere a loro favore lo shock ingenerato
nell’opinione pubblica da questo grave incidente, e quindi di trarne vantaggio in
ambito nazionale (come esempio basta ricordare la “gara” intrapresa dai leaders
europei per poter essere i primi a visitare i luoghi della tragedia).
Anche nella successiva guerra in Afghanistan, l’Unione ha svolto un ruolo
marginale sul piano militare ed operativo, sempre a causa delle divisioni al suo
interno dovute ai dubbi sull’opportunità del conflitto, e solo alla fine di questo è
riuscita a partecipare attivamente alle trattative di pace; ma ciò non fa che
sottolineare il problema della mancanza di una politica estera comune in seno alle
istituzioni comunitarie.
14
Subito dopo la firma del Trattato di Amsterdam, il problema
dell’inadeguatezza delle istituzioni europee a definire delle politiche efficaci in
questo settore, era già balzato all’attenzione della classe politica europea, e si cercò
una soluzione nel Vertice europeo di Nizza del 2000; il simposio ha avuto un esito
fallimentare, piochè l’unica sua conseguenza di rilievo è stata l’adozione della
Carta Europea dei Diritti (2000).
Sta di fatto che l’oramai prossimo allargamento dell’Unione, con l’adesione
ad essa di numerosi paesi dell’Europa orientale, ha reso ancora più urgente la
riforma delle istituzioni europee al fine di rendere la loro azione più efficace sia in
ambito economico-monetario che politico-diplomatico. L’attuale situazione
dell’Unione può essere descritta in modo esemplare da una riflessione formulata
dall’Arcivescovo di Milano, Cardinal Carlo Maria Martini, in occasione di un
Convegno organizzato dall’Università Statale di Milano il cui tema era il futuro
delle istituzioni europee: ”L’Europa si trova di fronte a un bivio importante, forse
decisivo, della sua storia. Da un lato, le si apre la strada di una più stretta
integrazione; dall’altro, la strada che può aprirsi è anche quella di un arresto del
processo di unificazione” che “potrebbe significare la fine dello stesso processo di
unificazione”
6
. Come risposta a questa esigenza, durante il Vertice di Laeken, i capi
di governo dei paesi membri hanno deciso di convocare un organo, la Convenzione
europea, conferendole l’incarico di formulare proposte di riforme istituzionali che
in seguito costituiranno la base di lavoro della Conferenza Intergovernativa. La
Convenzione è quindi solamente un organo consultivo, ma la sua rappresentatività
(i membri che la compongono sono rappresentanti dei governi nazionali, dei
parlamenti nazionali, della Commissione europea, del Parlamento europeo, e degli
Stati candidati ad entrare nell’Unione), e il prestigio delle personalità che la
compongono (è presieduta da Valéry Giscard D’Estaign, mentre l’ufficio della
vice-presidenza è ricoperto da Giuliano Amato e Jean-Luc Dehaene) fanno
intravedere il raggiungimento di un compromesso di ampia rilevanza che i governi
nazionali non potranno ignorare.
6
Martini C. M. La federazione europea per l’affermazione della pace e della giustizia nel mondo.
Atti del convegno L’Europa e le sfide del duemila. Uno stato federale e una costituzione per una
nuova Europa. tenuto presso l’Università degli Studi di Milano il 13 novembre 2000.
15
La Convenzione rappresenta una novità ed un’opportunità unica nel
processo di integrazione europea: una novità perché è la prima volta che i governi
nazionali conferiscono ad un organo che non è sotto il loro controllo, il compito di
elaborare proposte di riforma delle istituzioni comunitarie, ed un’opportunità
perché, utilizzando i mezzi messi a disposizione delle moderne tecnologie, anche i
singoli cittadini europei potranno far sapere le loro opinioni, illustrare le loro idee o
proporre essi stessi delle riforme sia totali che parziali. L’apertura alle opinioni
della “società civile” rappresenta un vero e proprio salto di qualità nelle relazioni
fra l’opinione pubblica e la classe politica europea al fine di rendere più trasparenti
le procedure dell’Unione. Ma essa potrebbe anche dare inizio ad un vero e proprio
processo “rivoluzionario”, che abbia come conseguenza il cambiamento dello stato
del potere, vale a dire il suo trasferimento dall’ambito degli stati-nazione, ad una
nuova realtà statuale basata sui principi dell’unità nella varietà e della varietà
nell’unità.
Fra i tanti studiosi che hanno affrontato questo argomento e si sono battuti
per la creazione di una Federazione Europea, spicca la figura di Mario Albertini
(1919-1997).
Mario Albertini ha dato inizio alla sua militanza nel Movimento federalista
a partire dagli anni Cinquanta, all’epoca dell’istituzione della CECA e del
fallimento del Trattato della CED; docente di Filosofia politica all’Università di
Pavia, divenne presidente del Movimento Federalista Europeo e dell’Unione
Europea dei Federalisti. Ideò e promosse tutte le iniziative del movimento
federalista, dalla battaglia per ottenere l’elezione di un Congresso Europeo cui
affidare la stesura della costituzione dello Stato Federale europeo alla campagna per
promuovere l’elezione diretta da parte dei cittadini del Parlamento Europeo, dalla
mobilitazione a favore dell’istituzione della moneta unica, alla campagna di
sensibilizzazione sulla necessità della creazione di uno Stato federale europeo.
Ma il suo contributo più importante lo ha fornito in campo teorico,
attraverso un’analisi sistematica del federalismo, del concetto di nazione e del
legame di questa con lo Stato. La sua ricerca lo ha portato a sostenere che la
nazione non è altro che il riflesso ideologico di un determinato tipo di Stato,
identificato nello Stato burocratico accentrato di stampo napoleonico, tipico del
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continente europeo. In tal modo egli smitizza l’idea di nazione, nata dapprima come
idea rivoluzionaria, ma ben presto trasformatasi in fattore di conservazione, e
classifica la coscienza nazionale non come la causa, bensì come una conseguenza,
della formazione dello Stato. Dopo aver demolito il “mito della nazione”, Albertini
si è impegnato nello sviluppo di un nuovo pensiero politico, adeguato a gestire e
comprendere il nuovo corso della storia: il federalismo.
Per Albertini il federalismo non può essere ridotto alla “teoria pura e
semplice dello stato federale”, ma, al contrario, va inteso come “un comportamento
sociale indipendente, caratterizzato da un aspetto di valore, un aspetto di struttura
ed un aspetto storico-sociale che gli sono propri” e quindi “sullo stesso piano
dell’idea liberale, democratica e socialista.”
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Partendo da questa definizione si può
asserire che l’aspetto di valore del federalismo è la pace, l’aspetto di struttura è lo
Stato federale e l’aspetto storico-sociale consiste nel superamento della divisione
del genere umano in classi sociali ed in nazioni antagoniste. Per Albertini sarà il
contemporaneo sviluppo di questi aspetti a fare del processo d’unificazione europea
la prima vera unificazione federale della storia. Inoltre l’unificazione europea ha il
compito gravoso di indicare una via che permetta, in un futuro non ancora definito,
la nascita di una Federazione mondiale, costituita appunto da grandi confederazioni
continentali modellate sull’esempio di quello che sarà il futuro Stato federale
europeo. E’ questa peculiarità a fare del processo di unificazione europea la prima
fondamentale tappa di quel processo teso ad instaurare la pace nel mondo.
Lo scopo della presente ricerca è l’analisi del pensiero politico di Albertini,
e, in particolare, l’esposizione delle sue riflessioni atte a determinare il tragitto che
ritiene essere il più opportuno per fare in modo che l’Europa passi dall’attuale
divisione in Stati nazionali, la cui crisi è divenuta irreversibile, ad un futuro in cui
l’intero continente sarà finalmente unificato per mezzo della nascita di un governo
europeo cui spetterà la guida di uno Stato e di una società basati sugli ideali del
federalismo. Inoltre vuole offrire un contributo al dibattito sulle riforme degli
organismi europei con l’obiettivo di non limitarlo solamente all’elaborazione di una
proposta di modifica istituzionale, ma di avviare una riflessione sul carattere
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Albertini M., Nazionalismo e federalismo, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 113