2
intesa come attitudine dell’impresa ad adattarsi rapidamente a quelle che erano
divenute le mutevoli contingenze di mercato, e qualità.
Si cominciò in tal modo a configurare la cosiddetta impresa a rete (modello
organizzativo che trova conferme anche nell’attuale contesto competitivo)
caratterizzata da organizzazioni che, riducendo le proprie dimensioni, entravano in
un fitto gioco di relazioni contrattuali di carattere commerciale, con soggetti terzi
1
.
Così, accanto alle relazioni gerarchiche, acquisirono rilevanza nell’organizzazione
dell’imprese, una serie di rapporti negoziali con altri soggetti, cui vennero affidati
singoli elementi del ciclo produttivo, dando vita ad una struttura integrata, non più
in senso verticale, bensì orizzontale, basata sulla cooperazione tra più imprese.
L’imprenditore, dunque, inizia a non configurarsi più come colui che organizza i
fattori della produzione, il capitale e il lavoro, ma acquisisce un ruolo di general
contractor, di coordinatore dell’opera di altre imprese, spesso non
necessariamente di piccole dimensioni, caratterizzate da maggiore
specializzazione tecnica e flessibilità organizzativa, legate da rapporti contrattuali
di vario genere.
E’ in un contesto di questo tipo che si diffondono pratiche di decentramento
produttivo
2
, tra cui in particolare l’outsourcing
3
, tese a trasferire all’esterno
determinate attività tradizionalmente svolte all’interno dell’ambito aziendale ,
configurandosi in tal modo come i principali strumenti per la realizzazione della
1
Per approfondimenti cfr. S. VICARI, a cura di, “Il management nell’era delle connessioni dalla
catena fisica alla rete virtuale del valore”, Egea, Milano, 2001.
2
In particolare oltre all’esternalizzazione altre pratiche di decentramento produttivo sono
rappresentate da lavoro a domicilio, dal distacco e dalla somministrazione di lavoro.
3
I termini outsourcing e esternalizzazione sono del tutto intercambiabili, rappresentando la prima
la terminologia utilizzata al livello internazionale per identificare i processi di esternalizzazione.
Rimandando in seguito, cfr. paragrafo 1.3, per una definizione del fenomeno, è importare
specificare la terminologia utilizzata per identificare le parti coinvolte nel processo. Si parlerà
indifferentemente di imprese cedente e cessionaria così come rispettivamente di outsourcee e
outsourcer, ovvero di committente e fornitore.
3
profonda trasformazione organizzativa appena descritta e resa necessaria dal
nuovo contesto competitivo. Ne consegue che, mentre in un sistema di produzione
fortemente accentrato, di tipo fordista, il trasferimento all’esterno di parti del ciclo
produttivo o di servizi ad esso accessori non poteva non destare sospetti,
trattandosi di una vicenda anormale, volta principalmente a liberare l’imprenditore
dal peso dell’assunzione diretta dei lavoratori necessari al loro svolgimento, in
una prospettiva post-fordista, invece, in un panorama di una sempre più
accentuata tendenza alla frammentazione delle strutture produttive, il ricorso ad
imprese di piccole e medie dimensioni viene considerato come fenomeno
assolutamente naturale. Si è ritenuto opportuno, così, distinguere tra un
decentramento “patologico”, posto in essere al fine di eludere le normative di
tutela del lavoratore, ed un decentramento “fisiologico”, motivato da adeguate
ragioni tecniche, organizzative ed economiche, derivanti dalle mutate esigenze di
mercato.
1.2 Flessibilità e prestazioni lavorative
Simili mutamenti nelle strutture organizzative dell’impresa hanno ovviamente
determinato anche profonde ripercussioni sull’organizzazione del lavoro. Nel
periodo di massima diffusione del modello organizzativo di tipo fordista, risultava
possibile riscontrare l’assoluta prevalenza di un modello unitario e standardizzato
di rapporto di lavoro, a tempo pieno e determinato, caratterizzato da un intenso
vincolo di subordinazione e da una durata tale da ricoprire l’intera vita lavorativa
del dipendente. La parcellizzazione delle mansioni non richiedeva al lavoratore
particolari qualifiche, ma gli imponeva ritmi di lavoro predeterminati e costanti,
4
con una netta delimitazione tra tempo di lavoro e tempo libero. La retribuzione,
caratterizzata da una grande regolarità, assicurava livelli di reddito, e, dunque, di
vita, costanti e stabili. E’ in un simile contesto che si sviluppa il diritto del lavoro,
animato principalmente dall’intento di proteggere la posizione del lavoratore
subordinato, considerato quest’ultimo come soggetto appartenente ad una
categoria “debole”, e di predisporre un sistema di tutele fortemente garantista.
La crisi del fordismo, invece, causando inevitabili ripercussioni sulle forme di
organizzazione del lavoro, provoca l’emersione di evidenti segnali di
inadeguatezza del modello di tutela del lavoratore dipendente affermatosi nei
decenni precedenti, incapace, quest’ultimo, di far fronte ai profondi mutamenti
che si erano verificati nella realtà economico sociale. La rivoluzione tecnologica,
l’apertura dei mercati alla concorrenza internazionale e l’intensificarsi delle
variazioni quantitative e qualitative della domanda di beni e servizi, fanno
emergere in maniera chiara la necessità di soddisfare in modo crescente le
esigenze di flessibilità dell’impresa, al fine di fronteggiare in maniere efficacie le
variabili situazioni della realtà economica.
La flessibilità, intesa come capacità di adattamento alle mutevoli esigenze dei
processi produttivi, diviene, dunque, il motivo ispiratore dei numerosi interventi
legislativi accorsi negli ultimi decenni, e culminati con il D.Lgs. n. 276/2003, che
ha profondamente riformato la disciplina del mercato del lavoro.
Occorre precisare, prima di procedere, che il termine è caratterizzato da una
notevole varietà di manifestazioni. Si tende infatti a distinguere tra una flessibilità
del mercato del lavoro e una flessibilità del rapporto di lavoro
4
.
4
Così, F. MAZZIOTTI, Flessibilità del lavoro e legge delega, in “Il Diritto del Mercato del
Lavoro”, 2003, I, 21 ss.
5
Alla prima vengono generalmente ricondotte la flessibilità in entrata ed uscita,
relative dunque alle procedure di ingresso ed espulsione dal mondo del lavoro, e
la flessibilità delle forme di impiego, caratterizzata dalla possibilità di ricorso a
tipologie di lavoro con caratteristiche diverse rispetto a quello subordinato a
tempo pieno ed indeterminato. La seconda riguarda invece i diversi aspetti del
rapporto di lavoro, quali, principalmente, l’orario di lavoro, le mansioni, la
retribuzione
5
.
Al di là delle sue diverse manifestazioni, la flessibilità determina una riduzione
dei vincoli per l’ imprenditore in fase di costituzione, modifica, estinzione del
rapporto di lavoro, mostrando così, apertamente, una certa insofferenza nei
confronti della tradizionale rigidità del sistema legislativo, ed una spiccata
tendenza alla deregolamentazione del mercato del lavoro
6
.
Gli obiettivi che si intendono in questo modo raggiungere, risultano a sua volta
molteplici produttiva
7
; la possibilità di far ricorso a tipologie di lavoro flessibile,
l’eliminazione dei vincoli formali e sostanziali al potere di assumere e di recedere
dai rapporti di lavoro, il riconoscimento della possibilità di mutare i contenuti
della prestazione lavorativa, in relazione al tempo, alle mansioni e alla
retribuzione, determina sicuramente un aumento dei livelli di efficacia ed
5
In tali casi si parla rispettivamente di, flessibilità temporale, funzionale o qualitativa e salariale.
6
Sulla base dell’esperienza di alcuni paesi europei, come ad esempio la Gran Bretagna, in cui si è
raggiunto un elevato grado di flessibilità del mercato del lavoro tramite, appunto, una sua
deregolamentazione molto spinta.
7
L’altro fondamentale obiettivo è quello dell’incremento dell’ occupazione, obiettivo questo
raggiunto per il tramite di una pluralità di fattori riconducibili comunque alla flessibilità stessa. Si
fa notare infatti (anche se in maniera tutt’altro che unanime) che, da una parte, le tipologie di
lavoro atipico consentirebbero di soddisfare la domanda delle imprese, in tutti quei casi in cui,
l’assunzione di un lavoratore subordinato a tempo pieno e indeterminato risulti eccessivamente
gravosa e vincolante. Dall’altra, i caratteri di maggiore flessibilità in entrata ed in uscita
potrebbero consentire una situazione di più facile ingresso nel mercato del lavoro a quei soggetti
che ne risultino esclusi, determinando così, nella prospettiva di un vero e proprio turn – over, una
attenuazione della rigida distinzione tra ousiders e insiders.
6
efficienza dell’impresa, consentendole di far fronte alle mutevole esigenze del
mercato, caratterizzato da continue oscillazioni quantitative e qualitative della
domanda di beni e servizi. Una realtà imprenditoriale solida ed efficiente
rappresenta, infatti, una delle condizioni indispensabili dell’economia nazionale di
un paese, anche, e soprattutto, in uno scenario contrassegnato da una accesa
concorrenza internazionale.
Al di là di considerazioni economiche, il giudizio in merito ad una scelta di
politica legislativa ispirata a ideologie di flessibilità, non può prescindere da
considerazioni di carattere sociale
8
. In effetti, scelte normative caratterizzate da
una sensibile riduzione della stabilità del rapporto di lavoro, nonché relative
all’introduzione di forme di lavoro flessibile, e quindi per lo più precarie,
producono indubbiamente ripercussioni sulla vita del lavoratore.
Dalla società del fordismo, caratterizzata da una grande stabilità sia dell’impiego
che del reddito, si passa al contesto sociale post-fordista, contrassegnato da un
profondo clima di incertezza, dovuto principalmente dalla maggior precarietà del
rapporto di lavoro e della relativa retribuzione. Situazione di questo tipo, se
sviluppate inopportunamente, possono creare dei disagi sociali non proporzionali
agli indiscussi vantaggi che la flessibilità crea per le imprese. Si tratta di
conseguenze particolarmente rilevanti e significative, alla luce delle quali pare
opportuno, o meglio, doveroso, effettuare nuovamente una valutazione dei costi e
benefici dell’introduzione di nuove forme di flessibilità. Innovazioni di questo
tipo, devono ritenersi opportune solo nel caso i cui siano idonee a determinare un
effettivo aumento dei livelli occupazionali, scongiurando, al tempo stesso, il
8
Per approfondire meglio tale aspetto, cfr., L. GALLINO, “Il costo umano della flessibilità”,
Laterza, Roma, 2003.
7
rischio di una eccessiva precarizzazione del rapporto o addirittura di esclusione
sociale del lavoratore
9
; in mancanza di tali presupposti infatti, il costo sociale
della flessibilità sarebbe eccessivo.
Non bisogna dimenticare, in proposito, che lo stresso articolo 41 della
costituzione, se al primo comma riconosce la libertà di iniziativa economica
privata, da intendersi come libertà tanto di intraprendere quanto di svolgere
l’attività intrapresa, comprendendo in tal modo, l’organizzazione della medesima
e le sue modalità di esercizio, al secondo comma stabilisce che essa “…non può
svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.” . L’obiettivo da perseguire risulta,
dunque, quello di conciliare i due valori della flessibilità e della sicurezza, in
prospettiva della realizzazione di una “flessibilità mite”
10
, capace, appunto, di
contemperare l’esigenze di flessibilità del sistema produttivo con quelle di
sicurezza e stabilità del lavoratore, anche attraverso l’introduzione di più incisive
garanzie, volte a controbilanciare l’inevitabile aumento di precarietà
11
.
9
L’ esperienza americana dovrebbe far riflettere proprio su quest’ ultimo aspetto. Negli Usa,
infatti, il mercato del lavoro è caratterizzato dalla presenza di due diverse tipologie di lavoratori:
permanent workers e contingent workers. I primi sono quei lavoratori legati all’impresa da un
rapporto di lavoro stabile (nei limiti previsti dall’ideologia liberista che caratterizza il sistema
legislativo), in virtù delle competenze di cui sono dotati e della loro rilevanza negli ambiti
aziendali in cui operano. I contingent workers invece, sono quei lavoratori le cui competenze sono
considerate strategicamente poco rilevanti, e sui quali si ripercuotono in buona parte le sfavorevoli
contingenze del mercato. La difficoltà per questa categoria di soggetti di trovare un posto di lavoro
relativamente stabile, e le gravi conseguenze sociali derivanti da tale situazione, hanno fatto si che,
anche negli Stati Uniti, si incominciasse a parlare della predisposizione di specifiche forme di
tutela, tese a contrastare gli effetti deleteri della grande flessibilità che caratterizza il mercato del
lavoro nazionale. Per approfondimenti vedi L. CORAZZA, L’outsourcing negli Stati Uniti
d’America. Spunti di comparazione alla luce dell’analisi economica del diritto, in, R. De Luca
Tamajo, a cura di, “I processi di esternalizzazione”, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2004.
10
In questi termini, B. CARUSO, Alla ricerca della “flessibilità mite”: il terzo pilastro delle
politiche del lavoro comunitarie, in “Diritto delle Relazioni Industriali”, 2000.
11
Ed è proprio la ricerca di una soluzione alternativa a quelle dell’eccessivo garantismo da una
parte, o dell’esasperata liberalizzazione dall’altra, che si costituisce il fulcro della strategia europea
per l’occupazione. La cosiddetta fexicurity, fa, infatti, riferimento agli obiettivi di modernizzare
l’organizzazione del lavoro e sostenere l’adattabilità dell’imprese, da realizzarsi, appunto,
8
Al di là dei giudizi di valore, è chiaro che bisogna realisticamente prendere atto
delle trasformazioni avvenute nel mondo del lavoro, contrassegnate dalla nascita
di nuove forme di lavoro flessibile
12
e dall’evoluzione dello stesso modello di
rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato.
Per ciò che attiene al primo aspetto, con il termine di “lavori atipici”, ci si riferisce
a tutte quelle tipologie di lavoro che si discostano dal modello tradizionale a
tempo pieno ed indeterminato, caratterizzato dall’inserimento nello schema
negoziale di una pluralità di elementi, più o meno innovativi, a seconda delle
diverse tipologie di contratto. Tra questi assumono particolare rilevanza; il
contratto a tempo determinato e quello a tempo parziale, che incidono sulla durata
e collocazione temporale della prestazione lavorativa, la somministrazione del
lavoro, che realizza una scissione tra datore di lavoro e soggetto che usufruisce
della prestazione lavorativa, sostituendo in tal modo al rapporto diretto tra
imprenditore e lavoratore, un rapporto indiretto, mediato dall’agenzia di
somministrazione
13
. In realtà, oltre all’introduzione di nuove forme di lavoro
atipico, è lo stesso atteggiarsi della subordinazione che sembra aver subito
rilevanti modifiche, in seguito alla crisi del modello fordista, con riguardo ad una
pluralità di fattori, quali in particolare, i poteri del datore di lavoro, il tempo della
prestazione e la professionalità del lavoratore.
Per ciò che attiene al primo aspetto, i poteri del datore di lavoro, è agevole notare
come si sia assistito negli ultimi decenni ad un allentamento del comando e del
controllo gerarchico, in favore di una maggior autonomia operativa del lavoratore,
attraverso la mediazione delle esigenze di flessibilità delle imprese e quelle di una maggior
sicurezza dei lavoratori.
12
Molte delle quali rivisitate, se non create ex novo, proprio di recente con l’emanazione del
D.Lgs. n. 276/2003, attuativo della legge delega n. 30/2003.
13
Per un primo approfondimento, cfr. 1.6.3.
9
conseguenza diretta del processo di riaggregazione delle mansione, frammentate
dal sistema di produzione taylorista
14
.
Anche la funzione del tempo nel rapporto di lavoro subisce una profonda
trasformazione. Mentre, infatti, nel modello fordista veniva considerato come uno
strumento di misurazione della prestazione lavorativa, con una netta distinzione
tra tempo di lavoro, standardizzato ed omogeneo, e tempo libero; con l’affermarsi
del post-fordismo, si assiste ad una frammentazione e individualizzazione dei
tempi di lavoro, determinate principalmente dalla flessibilizzazione degli orari e
dei ritmi e dal maggior coinvolgimento della persona del lavoratore nella
produzione; così da comportare, tra l’altro, la necessità di una certa disponibilità
anche al di fuori dell’orario di lavoro.
Con riguardo infine all’ultimo profilo, occorre rilevare come il tema della tutela
della professionalità del lavoratore abbia destato un’attenzione via via crescente.
In seguito al processo di frammentazione della vita lavorativa dei singoli
individui, ormai difficilmente caratterizzata dalla stabile e duratura dipendenza
presso un’unica impresa (aspetto tipico del modello fordista), la precarietà del
rapporto rende sconveniente all’ l’imprenditore investire in formazione
15
;
il soggetto potrebbe a breve non far parte più dell’organico aziendale. In tal caso
(così come in situazioni in cui tali conoscenze si rendano presto obsolete), il
ritorno dell’investimento, potrebbe non essere sufficiente per far fronte ai capitali
14
In tale periodo si parla in particolare di una “parcellizzazione” dei compiti. I lavoratori
dell’impresa impiegati nella catena di montaggio, dovevano compiere una esigua serie di azioni
meccaniche e ripetitive, in modo da massimizzare l’efficienza dell’attività produttiva.
15
Questo tipo di situazione è particolarmente evidenziata nell’ambito della somministrazione del
lavoro. Le agenzie di somministrazione devono infatti costituire un apposito fondo per la
formazione, in virtù del fatto che l’impresa utilizzatrice, a causa della precarietà fisiologica del
rapporto, non avrebbe alcun interesse alla crescita professionale del lavoratore somministrato
(soprattutto se la collaborazione è a tempo determinato).
10
impiegati. La situazione problematica si acuisce poi se si considera che il
lavoratore formato, qualora trovi a breve un nuovo impiego, farebbe acquisire ad
un concorrente i vantaggi stessi di quell’investimento, che per il datore di lavoro è
risultato scarsamente, se non del tutto, improduttivo.
In una simile prospettiva, allora, appare indispensabile l’introduzione di misure
idonee a salvaguardare proprio tale elemento, attraverso la previsione di lunghi
periodi di formazione prima dell’inserimento nel mondo del lavoro, durante lo
svolgimento del rapporto contrattuale e nei momenti di passaggio da un impiego
ad un altro, in modo da realizzare, nell’arco dell’intera vita del lavoratore, un
percorso formativo continuo e tendenzialmente unitario.
1.3 Esternalizzazioni in senso “proprio” e “improprio”
Le vicende di esternalizzazione di attività aziendali si inseriscono nel quadro,
descritto in precedenza, della progressiva complicazione dei processi produttivi e
organizzativi. Il fine di tale tipo di procedura (come vedremo meglio in seguito) è
proprio quello di soddisfare le esigenze di flessibilità, garantendo al tempo stesso
elevati livelli di performance. Occorre precisare che il termine “esternalizzazione”
non ha origini e caratterizzazioni giuridiche, così, risulta opportuna, una sua
definizione, basata principalmente sulla letteratura economica e sociologica.
Se si assume il termine nella sua accezione più immediata, esso allude a un
qualcosa che prima si trovava all’ interno dell’ impresa e sotto il controllo
dell’imprenditore, e che ora invece si svolge all’esterno e sotto il controllo di un
terzo soggetto. In questo caso il termine ha una connotazione amplissima,
11
comprendendo anche il ricorso alla somministrazione del lavoro
16
, e più in
generale venendo a coincidere con la definizione data precedentemente di
operazioni di decentramento produttivo. In un senso più ristretto, nonché più
appropriato, esso designa l’affidamento a terzi di una o più funzioni / progetti
dell’impresa, anche direttamente connesse alla produzione.
In realtà, definizioni di questo tipo risultano essere sicuramente riduttive rispetto
alla reale complessità del fenomeno. L’operazione, non comporta infatti la
semplice scomparsa dell’attività esternalizzata (in tali casi si parlerebbe di mera
dismissione); a questa segue una analoga, ma contraria, operazione di
riappropriazione da parte dell’impresa decentrante, dei risultati della stessa attività
decentrata. Questa seconda fase, che può essere definita in modo un po’ improprio
internalizzazione
17
, si caratterizza per una notevole varietà di manifestazioni,
arrivando in alcuni casi a comportare anche una stretta integrazione con l’impresa
cedente, come accade qualora le attività cedute sia gestite da terzi all’interno dei
locali dell’impresa decentrante, senza che si verifichi alcuna dislocazione al suo
esterno.
In effetti, data la notevole varietà che caratterizza sia la fase di esternalizzazione
che quella di internalizzazione
18
, risulta difficile giungere ad una definizione
univoca del fenomeno, così che , proprio al fine di soddisfare il nostro intento
definitorio, può essere utile distinguere tra; esternalizzazione “in senso proprio”
ed esternalizzazione “in senso improprio”.
16
Per una analisi più approfondita del rapporto tra processi di esternalizzazione e
somministrazione di lavoro cfr. paragrafo 1.6.3
17
Il termine va inteso in senso generico, designando, almeno nell’accezione qui adoperata,
solamente il processo inverso a quello di esternalizzazione, senza implicare una precisa
configurazione del fenomeno.
18
Vedremo più avanti le diverse soluzioni, contrattuali e non, tra cui l’impresa decentrante può
scegliere.
12
Con il primo termine, si designa, in una valutazione complessiva dell’intera
operazione, quella vicenda per cui:
I. Il trasferimento a terzi di funzioni (anche inerenti la produzione)
precedentemente svolte all’interno dell’impresa, si accompagni a
II. un trasferimento nella titolarità dei mezzi necessarie alla produzione di tali
attività o funzioni, e
III. alla conclusione di un rapporto contrattuale con il cessionario finalizzato a
far sì che l’impresa decentrante rientri nella disponibilità dell’attività
esternalizzata, essendo indifferente che
IV. l’impresa cessionaria gestisca o no le attività affidatele all’interno dei
locali del cedente
19
.
Con il secondo termine invece, si indica una diversa manifestazione dello stesso
fenomeno, caratterizzata dal fatto che l’affidamento ad un terzo di una porzione
di attività, e dunque la dismissione della medesima da parte del precedente
titolare, avviene senza il trasferimento di strutture o mezzi
20
.
Un tale esito può essere il frutto o di una scelta originaria da parte dell’impresa,
che decide di dimensionare in tal modo la propria organizzazione produttiva;
ovvero può essere la conseguenza di una scelta successiva, in cui l’attività o il
servizio vengono dimessi dall’impresa e trasferiti ad altri, senza che però (ed è
questo il proprio tratto distintivo) tale trasferimento comporti il passaggio di
19
In questi termini R. ROMEI, Cessione di ramo d’azienda e appalto, in “Giornale di Diritto del
Lavoro e delle Relazioni Industriali”, n 82-83, 1999, 332 ss.
20
In realtà alcuni autori parlano in questi casi di un fenomeno, simile all’esternalizzazione, ma
comunque dotato di una propria individualità, utilizzando il termine di terziarizzazione. Occorre
però notare che la distinzione non è univoca, se infatti alcuni autori non accennano assolutamente
a tale termine, riferendosi soltanto ad esternalizzazioni in senso improprio, altri invece utilizzano
le due diverse denominazioni in maniera intercambiabile, altri ancora, come abbiamo ritenuto
opportuno indicare in nota, si riferiscono in questi casi esclusivamente a fenomeni di
terziarizzazione.
13
elementi personali o materiali.
Questa distinzione presenta importanti implicazioni anche per ciò che attiene alla
tutela degli interessi dei lavoratori coinvolti. Nei casi di esternalizzazione “in
senso proprio”, infatti, la prima fase dell’operazione, ossia quella della
dislocazione “all’esterno” della funzione aziendale, si realizza generalmente con
un trasferimento di ramo d’azienda. La tutela riconosciuta ai lavoratori è quella
prevista dall’istituto stesso
21
.
Nei casi di esternalizzazione “in senso improprio”, invece, è facile notare come
non ci si possa ricondurre ad una fattispecie traslativa del complesso aziendale o
di una sua parte, proprio perché vi fa difetto l’elemento essenziale, e cioè
l’azienda stessa. Sia che si intenda quest’ultima come un complesso organizzato
di beni materiali, sia che essa debba intendersi come comprensiva anche dei
servizi resi da prestatori di lavoro ad essa stabilmente addetti ed in possesso di
particolari professionalità, l’esternalizzazione “in senso improprio”, ne resterà
comunque esclusa. Ad essere trasferita è una semplice attività aziendale, oltretutto
non per il tramite di un contratto avente funzione traslativa, ma attraverso un
generico contratto commerciale
22
, e, un’impresa, non può essere ridotta alla sua
attività solo ed esclusivamente perché per il proprio svolgimento si richiede un
complesso organizzato, complesso, inoltre, che è già posseduto dal cessionario, e
che pertanto non può essere trasferito.
Dato che risulta impossibile un’applicazione, anche solo in via analogica della
disciplina inerente il trasferimento d’azienda, gli unici strumenti a tutela dei
lavoratori coinvolti in tali processi, risultano essere quelli previsti in caso di
21
Il quale sarà ampiamente analizzato in seguito, cfr. Cap. 2.
22
Generalmente si ricorre al contratto di appalto, anche se non sono insolite altre tipologie
contrattuali come per esempio la subfornitura.
14
licenziamenti collettivi a seguito di ristrutturazioni aziendali.
In altre parole, ciò che si intende affermare, è che i processi di esternalizzazione
vanno inseriti in quel contesto più ampio, precedentemente descritto,
caratterizzato dalla progressiva ridefinizione dei moduli organizzativi
dell’impresa, frutto di libere scelte imprenditoriali, che come tali vanno trattate.
Di fronte a tali scelte, il legislatore prevede generici strumenti di tutela,
rappresentati ad esempio dalla legislazione in materia di licenziamenti collettivi.
Qualora tali scelte comportino il trasferimento di un complesso aziendale,
l’ordinamento dispone la continuazione dei rapporti di lavoro, come conseguenza
del passaggio delle strutture materiali a cui i lavoratori erano addetti.
Ma nei casi in cui tale trasferimento manchi, non vi è ragione di estendere una
tutela prevista in ipotesi del tutto diverse.
.Primo fra tutti, il soddisfacimento di esigenze proprie della realtà
1.4 Caratteristiche e tipologie dei processi di outsourcing
Anticipando un po’ alcune tematiche che tratteremo più approfonditamente in
seguito, durante questo lavoro ci soffermeremo principalmente su quei processi di
esternalizzazione definiti come “propri”, realizzati in particolare tramite il ricorso
a due diverse fattispecie, il trasferimento di ramo d’azienda, nella prima fase di
decentramento in senso stretto, e il contratto di appalto, come strumento per la
riappropriazione dei risultati dell’attività ceduta.
In realtà, così facendo, si analizza solo una delle tante configurazioni di un
fenomeno che, come abbiamo già fatto notare, si caratterizza per un’elevata
15
eterogeneità e varietà di manifestazioni. Senza alcuna presunzione di esaustività, e
rimandando altrove per una trattazione più approfondita
23
, si rende a questo punto
necessario, al fine di inquadrare meglio l’argomento di ricerca, accennare ad
alcune particolari configurazioni che il fenomeno può assumere nella realtà
operativa.
Al riguardo, un primo profilo che assume particolare importanza, è quello relativo
all’oggetto dei processi di esternalizzazione, poiché il novero delle attività che
possono costituire oggetto di simili processi risulta potenzialmente illimitato: si
passa, infatti, dalla produzione di beni accessori o strumentali rispetto al prodotto
finale, alla prestazione dei più diversi servizi indispensabili al funzionamento
dell’azienda.
Nel primo caso, vengono investite singole fasi del ciclo produttivo di un bene
complesso, che, tra l’altro, possono consistere anche in semplici lavorazioni da
eseguirsi sui beni medesimi; nel secondo, invece, ad essere trasferito all’esterno, è
lo svolgimento di una vasta gamma di servizi, più o meno semplici o qualificati,
ma comunque, necessari allo svolgimento dell’attività aziendale.
Per ciò che attiene ai servizi, inoltre, assumono rilevanza tanto quelle attività che
non richiedono, per il loro svolgimento, particolari cognizioni tecniche od
organizzative, né l’utilizzo di particolari attrezzature strumentali
24
, quanto quelle
23
Cfr. A. DASSI, “I contratti di outsourcing”, Ipsoa. Milano, 2004 ; S. DOMBERGER, “The
contracting organization : a strategic guide to outsourcing”, OUP,Oxford, 1998 ; L. DEZZI, “Le
dinamiche di convergenza imprenditoriale: risorse immateriali, outsourcing, reti d’imprese cross-
border”, Cedam, Padova, 1996; F. BARTOLACCI, “La gestione e il controllo dei processi di
outsourcing”, Giuffrè, Milano, 2004; L. FURLANETTO, C. MASTRIFORTI, “Outsourcing e
global service: nuova frontiera della manutenzione”, F. Angeli, Milano, 2000; S. VICARI,
L’outsourcing come strategia per la competitività, in, R. DE LUCA TAMAJO, a cura di, “I
processi di esternalizzazione”, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2004.
24
Si pensi, ad esempio, ai servizi di pulizia, di portierato o di ristorazione.
16
che necessitano di particolari specializzazioni tecniche e professionali
25
.
In generale si tratta dunque di attività che non riguardano solo la “periferia” del
ciclo produttivo, ma che spesso sono molto vicine al core business dell’azienda,
inteso, quest’ultimo, come insieme di attività nello svolgimento delle quali
l’impresa dispone di un vantaggio competitivo “duraturo” rispetto ai propri
competitors. Inoltre, come abbiamo notato in precedenza, le operazioni di
outsourcing non portano necessariamente ad una dislocazione all’esterno dei
processi coinvolti; nella realtà operativa non sono rari i casi in cui l’attività
decentrata continui ad essere svolte all’interno dei locali dell’impresa madre
26
.
Sotto un diverso profilo, una notevole rilevanza nella ricostruzione del fenomeno
assume, poi, la verifica delle caratteristiche dei soggetti di cui un’impresa si serve
per realizzare un processo di esternalizzazione. La scelta del soggetto decentrante,
può ricadere, su aziende preesistenti e operanti sul mercato, così come su
particolari organizzazioni costituite ad hoc per la realizzazione dell’operazione
27
.
Nella prima ipotesi, ci si rivolge a soggetti specializzati nello svolgimento di
determinate attività, dotati di una propria organizzazione e di un proprio know-
how. In tali circostanze, l’impresa cessionaria, che può anche essere di grandi
dimensioni, svolge l’attività in questione in maniera del tutto autonoma, e
normalmente a favore di una pluralità di soggetti, in modo da conseguire
economie di scala difficilmente raggiungibili da parte delle singole imprese
25
Gli esempi in questo caso sono numerosi e fanno riferimento ad attività appartenenti a diversi
ambiti funzionali quali: fatturazione e tenuta della contabilità, per ciò che attiene al settore
amministrativo; gestione e promozione delle vendite, afferente all’area del marketing; gestione di
call center, archivio e vigilanza, nell’ambito dei servizi generali.
26
Vedremo in seguito, come proprio quest’ultima modalità abbia messo profondamente in crisi
quella distinzione, che sembrava essere netta, tra interposizione illecita e appalto di servizi.
27
Inoltre, come vedremo meglio in seguito, il decentramento può avvenire anche a favore di
soggetti che non sono dotati di una organizzazione d’impresa, i quali collaborano con l’azienda al
fine di realizzare singoli progetti di lavoro.
17
decentranti, offrendo inoltre, grazie all’elevato grado di specializzazione, un
servizio di ottima qualità. Nella seconda ipotesi, invece, l’impresa cessionaria
viene costituita in un momento di poco antecedente al trasferimento e proprio in
funzione di esso, rimanendo poi, nel proseguo dell’operazione, in una condizione
di dipendenza, più o meno marcata, dall’impresa decentrante, in seguito a forti
legami contrattuali o a situazioni di vero e proprio controllo societario
28
.
Altro aspetto da prendere in considerazione, sempre al fine di considerare le
mutevoli manifestazioni del fenomeno, risulta essere quello attinente alle diverse
finalità strategiche attribuite all’operazione. Si può parlare, infatti, di full
outsourcing, caratterizzato dall’istaurarsi di una stretta collaborazione strutturale
tra impresa committente e gestore del servizio, così da elevarne il livello operativo
e strategico, rendendo massima la condivisione degli obiettivi. Tali situazioni si
caratterizzano per la creazione di una strategia comune tra cedente e cessionario
sotto l’aspetto decisionale ed operativo, al fine di raggiungere una completa
realizzazione degli obiettivi aziendali.
Una particolare forma di full outsourcing è rappresentata poi dal trasformational
outsourcing, che prevede l’affidamento all’esterno di una particolare funzione,
come leva per modificare la struttura interna di specifiche aree aziendali.
L’outsourcer svolge in questi casi un doppio ruolo: da un lato collabora con
l’impresa nello svolgimento della funzione esternalizzata, dall’altro, opera in
qualità di consulente nell’ambito del processo di cambiamento. Questa particolare
28
Sono proprio queste le operazioni che destano maggiori timori per ciò che attiene alla tutela
degli interessi dei lavoratori coinvolti. In queste circostanze, infatti, la costituzione della nuova
organizzazione avviene molto spesso tramite trasferimento di ramo d’azienda. I lavoratori del
ramo interessato passano alla dipendenza di imprese di dimensioni più piccole, talvolta costituite
da meno di quindici addetti, ritrovandosi in situazioni di minor stabilità e sicurezza del proprio
posto di lavoro, nonché di minor tutela sindacale.
18
tipologia di outsourcing, condivide con la precedente l’elevato grado di
integrazione tra le imprese coinvolte, e può poi trasformarsi in full outsourcing
una volta superata la fase di transizione.
Opposta, per certi versi, è invece la situazione di multiple-supplier, in cui
l’impresa decentrante ritiene opportuna una diversificazione dei propri fornitori di
servizi o di prodotti, stipulando contratti commerciali di diversa natura, ma
accomunati da breve durata, così da incentivare la competizione soprattutto in
quei mercati caratterizzati da elevati tassi di innovazione tecnologica.
Molto più comune rispetto alle precedenti configurazioni è, invece, il cosiddetto
outsourcing di base. In questi casi l’impresa committente affida al cessionario la
totale o parziale gestione dell’area aziendale su cui intende intervenire,
mantenendo al proprio interno le funzioni di controllo delle operazioni. La finalità
principale è quella di conseguire una riduzione di costi nello svolgimento delle
attività, ridimensionando i confini dell’organizzazione, ma, al tempo stesso,
mantenendo un elevato grado di controllo sull’attività cedute
29
.
Risulta infine particolarmente utile, riproporre una nota classificazione del
fenomeno, che individua quattro diverse tipologie di outsourcing, sulla base di
due variabili: attività di back office e front line da una parte, progetti a termine o a
tempo indeterminato dall’altra
30
.
29
Il ricorso all’outsourcing di base piuttosto che al full outsourcing, non dipende tanto dalla forma
che assume il contratto, ma dal tipo di funzione che si intende delegare. L’outsourcing di
approvvigionamenti, ad esempio, non potrà non rientra nella categoria di full outsourcing, non
potendo fare a meno, in questi casi, di una continua collaborazione e condivisione di strategie tra
committente e fornitore. Potrà viceversa farsi rientrare nella categoria di outsourcing di base
l’esternalizzazione di servizi quali il, ad esempio, il servizio di paghe e stipendi, o il recupero
crediti.
30
Fonte S. VICARI, L’outsourcing come strategia per la competitività, in, R. DE LUCA
TAMAJO, a cura di, “I processi di esternalizzazione”, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2004.
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Le attività di back office sono quelle in cui non è presente il cliente (acquisti,
approvvigionamenti, logistica, gestione della produzione etc.), le attività di front
line sono, invece, quelle in cui il cliente interagisce con l’impresa ( come ad
esempio le attività di marketing). In entrambi i casi l’operazione può essere sia
tempo determinato, per la realizzazione di specifici progetti, che a tempo
indeterminato, finalizzata all’ instaurazione di un rapporto di collaborazione
duraturo. In base a questa classificazione, una prima forma di outsourcing è quella
definita come tradizionale, in cui si delega una parte dei processi (soprattutto
quelli di produzione) ad un soggetto che garantisce a tempo indeterminato lo
svolgimento di tali attività. L’outsourcing tattico, all’opposto, è quello in cui su
alcuni progetti specifici, viene delegata l’attività di gestione della relazione con la
clientela, o di sue parti, a soggetti terzi. Qualora l’attività ceduta sia a monte del
rapporto con il cliente e finalizzata alla realizzazione di uno specifico progetto, si
parla invece di outsourcing di soluzioni ( per esempio la certificazione di qualità).
Infine vi è l’outsourcing strategico, che è quello in cui si gestiscono insieme a
partner intere attività che hanno un forte impatto sulla clientela. Si tratta
naturalmente del tipo di outsourcing più complesso e più difficile da realizzare ed
anche quello verso il quale si stanno muovendo le imprese più competitive.
L’ outsourcing che si realizza su processi di back office riguarda l’information
technology, la produzione, la gestione delle risorse umane, la logistica, la
distribuzione; quello che invece coinvolge il cosiddetto front line va a impattare
soprattutto sulle funzioni di marketing e vendite; quello strategico può
coinvolgere ognuno di questi aspetti.