2
benessere sociale. Prendendo spunto da un’intervista
2
rilasciata dal sociologo Domenico
De Masi a “Rai educational”, possiamo chiaramente confrontare la realtà attuale con
quella dell’immediato dopoguerra:
“In quegli anni la popolazione era intorno ai 45 milioni di abitanti, c’era una
povertà diffusa molto forte, l’analfabetismo arrivava intorno al 60% della
popolazione, come analfabetismo reale. Per vent’anni eravamo rimasti chiusi al
mondo, quindi tutta una serie di tecnologie, di modi di vivere, di modi di pensare,
erano completamente inediti. C’era una povertà diffusa, io ho una fotografia della
mia classe di III o IV elementare, eravamo in 27 e più della metà erano scalzi.
Tenga conto che nel 1951 al censimento che fu fatto si chiedeva a tutti gli
intervistati italiani se avevano le scarpe o no e poi si chiedeva ancora se le scarpe
erano intere, se erano risuolate o se erano bucate, quindi siamo a situazioni
completamente diverse da quelle attuali”.
Per comprendere le dinamiche della motorizzazione di massa cercheremo di
comprendere in che modo la nostra società sia riuscita a superare una situazione di simile
povertà, ed in quali anni, e soprattutto come, l’Italia si è trasformata da Paese agricolo in
una realtà e potenza industriale.
Sono stati gli anni Cinquanta, con le loro premesse e promesse di benessere, a far
nascere il desiderio, dapprima chimera e poi realtà, dell’“auto per tutti”, attraverso la
produzione della tanto ricercata utilitaria. Tutti cercheranno di raggiungere e tagliare
questo traguardo, moltissimi riusciranno a goderne del suo possesso. Ma qual è stato il
suo impatto con la società? De Masi, nella stessa intervista, afferma:
“Il veicolo per definizione è un oggetto importante per la mobilità individuale e in
parte collettiva, quando si tratta di autobus e di treni. Ma la mobilità individuale
2
L’intervista integrale è pubblicata sul sito: www.educational.rai.it
3
significava libertà, significava possibilità di andare da una parte all’altra,
significava la possibilità di appartarsi per i giovani, e quindi un primo presupposto
di libertà sessuale, significava anche la possibilità di essere professionisti. Io mi
sono laureato nel 1959 e ricordo che solo un mio collega aveva la Cinquecento.
Avere allora la Cinquecento significava appartenere ad una élite. Pochissimi
avevano la Vespa, io stesso avevo una Vespa con la quale feci un viaggio in tutta
Europa nel 1958. Ma si trattava comunque di una élite, la massa non aveva mezzi di
comunicazione, aveva la bicicletta. […] Per i giovani, ripeto, il possesso di questi
mezzi significa cambiamento completo del costume sessuale, perché fino a quel
momento per un giovane italiano appartarsi era di una difficoltà enorme”.
Con il “miracolo economico” tutti (o quasi) ebbero la possibilità di avere una propria
autovettura sotto casa: l’Italia entra nel “miracolo economico” in bicicletta e ne esce in
automobile.
Nei primi due capitoli si cercherà di ripercorrere il periodo precedente al “miracolo
economico”. Il primo capitolo si soffermerà sulle dinamiche politiche che
caratterizzarono l’immediato dopoguerra del nostro Paese. Cercheremo di comprendere in
che modo si sia giunti alla vittoria della Repubblica e se questa abbia rappresentato, ed in
che misura, un reale cambiamento ed una netta cesura con il passato. Si analizzerà lo
scontro ideologico tra la Dc ed il Pci, tra De Gasperi e Togliatti, per terminare con gli
eventi che caratterizzarono l’“indimenticabile ‘56”. Il secondo capitolo sarà una
fotografia della società italiana di quegli anni. Si rileggeranno le indagini e le inchieste a
carattere sociologico che hanno testimoniato la cruda realtà di quel tempo, ed in
particolare, ci soffermeremo sull’inchiesta parlamentare sulla miseria del ’53. Rivivremo
le fasi della sua proposta, della sua realizzazione e ne rileggeremo i risultati. Inoltre, si
cercherà di evidenziare le scelte economiche che, in quel periodo, segnarono un
mutamento rispetto alla politica economica del fascismo.
4
Nel terzo capitolo ci soffermeremo prettamente sul “miracolo economico”, che in
modo convenzionale è collocato tra gli anni 1958-63. Quali sono stati i motivi che
diedero vita a questa fase virtuosa della nostra economia nazionale? Quali i cambiamenti
che la nostra società si apprestava a compiere alla luce di un inedito benessere? Ed in che
modo questa nuova ricchezza veniva esperita dalle famiglie italiane? E quali sono stati,
l’altro lato della medaglia? Alla fine del capitolo si analizzerà come la politica italiana,
dopo l’ombra di Tambroni, sia giunta a varare un governo di centrosinistra e quali siano
stati i suoi risultati.
Il quarto ed ultimo capitolo ci permetterà di ripercorrere le varie fasi della
motorizzazione di massa. Si cercherà di comprendere perché lo Stato abbia scelto, ed in
che modo, di puntare ed incentivare il trasporto privato rispetto a quello pubblico; di
come si sia realizzata un’efficiente rete stradale, ed in che modo siano nate le nostre
autostrade. L’autostrada del Sole rappresentò un momento di unione e di collegamento tra
il Nord ed il Sud. Se il trasporto pubblico, con il “Treno del Sole”, aveva il suo anello di
congiunzione, il trasporto su gomma, soprattutto quello privato, non poteva rimanerne
privo. Quali modelli e quali marche di auto affollarono i sogni degli italiani? L’occhio
della cinepresa è considerato un occhio particolare per scrutare la società, ed a grandi
linee, cercheremo di estrapolare le scene più significative della cinematografia italiana di
quegli anni per comprendere in che modo l’automobile ne diventi protagonista. Infine,
cercheremo di analizzare il rapporto tra gli individui e la macchina: le gioie e le passioni
che nascono, ma anche le tante frustrazioni, ansie e, perfino, angosce.
5
Capitolo Primo
Gli anni tra il dopoguerra ed il miracolo economico
I.1. A volte… tornano
All’indomani della Seconda Guerra Mondiale l’Italia ed il suo popolo intrapresero un
nuovo cammino, un cammino iniziato con il cuore colmo di speranza e di certezza nel
vedere finalmente concretizzarsi quelle aspettative, quegli ideali, quei valori che
rappresentarono il sale della Resistenza, la forza latente di chi intravedeva uno spiraglio
di luce per sé e per i propri figli laddove il fascismo ed il nazismo avevano seminato ed
imposto solo ombra, disperazione, morte e fanatismo. In realtà molte di queste aspettative
rimarranno deluse, sia per un costante ostracismo verso le riforme da parte di molti
uomini di una Democrazia Cristiana particolarmente obbediente al conservatorismo della
Chiesa romana e vicina agli interessi del mondo imprenditoriale, sia per una strategia
d’attesa, che risulterà vana, adottata dai dirigenti del Partito Comunista Italiano.
Nei primi anni cinquanta il ricordo della guerra è ancora vivo e forte: per chi ha perso
un padre, un marito, un figlio o un parente la ferita non si rimargina ed è ancora
sanguinolenta. Tutto ricorda quelle atrocità: le macerie, i risparmi volati via come cenere
al vento, la povertà intrisa negli abiti e negli sguardi. Sui calzoncini per le figlie, ottenuti
cucendo le tende blu dell’oscuramento, qualche madre rammenda degli animaletti di
stoffa colorata quasi a scongiurare ed esorcizzare una memoria così triste e cupa. E’
difficile dimenticare quando, alla spicciola, uno ad uno, rientrano i reduci dalla prigionia.
Ogni ritorno è un ripercorrere quei momenti e quelle angosce, ed il reduce porta con sé
non solo fame ma anche tanta dignità. Saranno gli stessi reduci a testimoniare la fame
patita e la dignità difesa, così come lo faranno Giovanni Guareschi e Giuseppe Novello.
1
1
Marta Boneschi, Poveri ma belli. I nostri anni cinquanta, Mondadori, Milano, 1995, p. 3.
6
Giovanni Guareschi fu scrittore, inventore, disegnatore e diresse il settimanale
“Candido”. Divenne popolare grazie alla stesura dei racconti di Peppone e Don Camillo,
che avrebbero, di lì a poco, ispirato una fortunata serie di film interpretati da Gino Cervi e
Fernardel. Dal ’46 fu l’autore di vignette satiriche ai danni della cultura comunista,
caratterizzate dal filo conduttore “Contrordine compagni”, pronte a mettere alla berlina
“l’obbedienza cieca, pronta ed assoluta” dei seguaci di Togliatti e di Stalin.
2
Giusepe Novello, pittore e disegnatore, faceva sorridere i borghesi già negli anni trenta
con i suoi racconti sul “signore di buona famiglia” che mettevano in evidenza la
frustrazione borghese, il suo conflitto tra l’essere e l’apparire, mostrando il prevalere di
un sentimento spontaneo e veritiero sotto la crosta delle buone maniere e delle etichette
dettate dal bon ton.
3
Guareschi e Novello fanno parte degli 800.000 italiani diventati prigionieri dei
tedeschi all’indomani dell’8 settembre 1943. Guareschi fu catturato in Italia mentre
Novelli fu fatto prigioniero al ritorno dalla campagna di Russia. Il destino ha voluto che si
salvassero dalla loro prigionia e potessero, a distanza di quindici anni, rilasciare
un’intervista e la loro testimonianza nel ’58. I loro ricordi sono minuziosi, come del resto
lo sono tutti quelli di coloro che hanno vissuto una tale esperienza. Da prigioniero, nel
campo di Sandbostel, nel 1944, Guareschi era il numero 68653333, e ricordando i suoi
compagni di sventura affermò:
“Era tutta brava gente che sapeva portare a spasso la propria miseria con
straordinaria dignità e che dignitosamente, quando tornò in patria, scomparve
2
Una di queste vignette racconta dell’avanzare di una folla rumorosa che innalza cartelli con su scritto:
“Abbasso i cannoli!”, “Abbasso i bignè”, con la didascalia che afferma: “Contrordine, compagni! La frase
pubblicata sull’ “Unità”: “Bisogna fare una dimostrazione contro i mercanti di cannoli!” contiene un errore di
stampa e pertanto va letta: “Bisogna fare una dimostrazione contro i mercanti di cannoni!”, in Marta
Boneschi, op. cit., p. 4.
3
In una delle sue vignette viene riprodotta una “rumorosa” matrona con il naso infilato in un prezioso
soprammobile. Il titolo recita: “A due mesi dal ricevimento” ed in calce alla pagina la didascalia afferma: “La
padrona di casa scopre in un vaso quattro fette della sua famosa torta al maraschino”, in Marta Boneschi, op.
cit., p. 4.
7
senza strepito e senza sfilare in corteo […] quegli uomini optarono per la loro
dignità e vissero, per quasi due anni, più di dignità che di pane e alla fiamma tenue
della dignità si scaldarono le ossa gelate”.
4
I reduci sono tagliati fuori dalla storia con la “S” maiuscola, da quella storia racchiusa
nei testi che ricorda gli atti eroici, le grandi gesta e le straordinarie guerre, ma che non
concede la giusta dignità a chi rimane e a chi ritorna da quelle guerre, che da sempre
distoglie lo sguardo e l’attenzione dalla “vita quotidiana”. La “vita quotidiana”, sottolinea
il sociologo Alvin W. Gouldner, è la vita degli individui “che gli eserciti hanno lasciato a
casa”, quegli eserciti che sono presi in considerazione solo al momento della partenza,
quando le speranze generali di vittoria e individuali di ritorno distolgono l’attenzione dal
dramma dell’evento in sé nell’esaltare ed inneggiare la cultura dell’eroe. Ma saranno
quegli stessi eserciti a diventare invisibili al loro ritorno, indipendentemente se vittoriosi
o sconfitti, quando avranno subito gli effetti della guerra e quella cultura eroica non sarà
in grado di dare le giuste risposte ai tanti drammi ed alle crisi individuali.
5
Giuseppe Novello, nella sua casa di Cotogno, ha rilasciato questa testimonianza:
“C’era un fatto che dava al nostro lungo sostare tra i reticolati, alla nostra
squallida fame, alle quotidiane umiliazioni del corpo e dello spirito che il tedesco
irridente ci infliggeva una nota di particolare dignità, ed era che sarebbe bastata
una piccola firma di adesione sotto un noto foglietto, un compromesso con quello
che ci suggeriva la coscienza, perché filo spinato, lontananza dai nostri cari, duro
digiuno, cessassero. Nessuna altra ricchezza avevano quei barboni distesi sui
castelli di legno a sognare insieme l’Italia, la casa, i parenti e – siamo uomini – un
piatto di lasagne”.
6
4
Marta Boneschi, op. cit., p. 5.
5
Alvin W. Gouldner, Raffaele Rauty (a cura di), La sociologia e la vita quotidiana, Armando, Roma, 1997,
p. 20.
6
Marta Boneschi, op. cit., p. 5.
8
Sarà proprio il connubio tra la dignità e la certezza di essere migliori di quelli che
hanno condotto un popolo al massacro la base sulla quale sarà edificata l’intera fase di
ricostruzione. E se gli italiani, oltre che dalla forza degli ideali, dalla Patria con la “P”
maiuscola, e dai vessilli gloriosi, sono mossi da un profondo, e forse maggiore, fervore
alimentato dalla calorosa vicinanza dei propri cari, da una buona tavola e dalla propria
dimora, si deve dar ragione a Novello quando afferma che il patriottismo delle lasagne
non è meno nobile di altre forme d’amore per la propria terra, e bisogna condividere il
pensiero di Guareschi quando sottolinea che non è sfilando in corteo che ci si dimostra
buoni cittadini.
Durante gli anni dell’immediato dopoguerra l’opinione pubblica era reticente nel
credere che la tragedia dei campi di sterminio nazista fosse stata vera. La speranza che si
trattasse di una trasfigurazione della realtà era molto più facile da accettare e da
condividere rispetto alla certezza che il genere umano fosse stato autore di una tale
barbarie. Augusto Guerriero, commentatore di politica estera, condusse una lunga
battaglia contro l’ignoranza e l’incredulità dei lettori di “Epoca” e del “Mondo”, i giornali
ove egli scriveva con lo pseudonimo di “Ricciardetto”, portando avanti una lunga
corrispondenza con gli stessi. Dichiarò: “Qualcuno dei miei lettori credeva che i campi di
concentramento nazisti fossero un parto della mia fantasia”, ed ancora, “credono che i
campi di concentramento sovietici me li sia inventati io”.
7
Tale azione di convincimento
diventò sempre meno difficile quando cominciarono, pian piano, a prendere corpo prove
concrete e palesi dell’esistenza dei lager nazisti e dei gulag sovietici, nonché, grazie alle
testimonianze dirette di chi in quei campi è stato imprigionato. I prigionieri italiani in
terra tedesca tornano e testimoniano il loro dramma, mentre i prigionieri italiani in Russia
dovranno ancora attendere diversi anni prima di poter riabbracciare la libertà e raccontare
la loro sventura. Decine di migliaia ne morirono sul suolo sovietico. Palmiro Togliatti, nel
1952, affermò: “So per certo che non ci sono più prigionieri italiani in Urss”, ma l’anno
7
Ivi, p. 7.
9
seguente Valentin Gonzales, eroe comunista della guerra di Spagna, smentì il segretario
del Pci confermando la presenza di prigionieri italiani ancora dietro i confini sovietici,
dichiarando che nel ’46 erano 75.000, dei quali 45.000 nei campi vicino Mosca e
Leningrado e gli altri 30.000 nelle fredde terre della Siberia.
8
Erano migliaia le famiglie italiane che nutrivano un senso latente di attesa, non si sa se
per un vivo o per un morto, ma si aveva anche la voglia e la necessità di poter mettere un
punto fermo ad una speranza che li stava logorando. Tale dramma apparteneva a tutte le
classi sociali: nella casa borghese il ritratto del “disperso” era custodito in una cornice
d’argento, nella cucina contadina era appeso alla parete, senza cornice, vicino al quadro
della Madonna, ed una candela accesa simboleggiava un amore sempre vivo e la speranza
di una nuova unione.
I prigionieri di guerra dopo il ’48 diventarono ostaggi della guerra fredda, ed il
governo sovietico non aveva alcuna intenzione di lasciarli andar via. Si diede una
parvenza di legittimità a tali prigionie indicendo dei processi per crimini di guerra, alla
fine dei quali, i condannati, erano identificati come “lavoratori coatti” e mandati ai lavori
pesanti ed alle grandi opere. Il governo italiano fece ben poco e si mosse ancor meno
nella rete della diplomazia internazionale nel tentativo di negoziare una loro liberazione,
anche perché, in fondo, quella gente serviva da monito alla lotta anticomunista: ecco di
cosa sono capaci i comunisti. Nel 1952 la Croce Rossa, le ambasciate ed i diplomatici di
tutta Europa incontrarono la delegazione sovietica a Ginevra pretendendo la liberazione
dei prigionieri. In quell’occasione il governo italiano annunciò che i dispersi in Russia
erano circa 63.000.
Per fortuna, tra le migliaia di prigionieri, c’è chi riesce a salvarsi ed a ricongiungersi
con i propri cari. Nel ’52 rientrò a Piedimonte San Germano, vicino Frosinone, il
trentaduenne Pierino Caldarelli, scappato insieme a due ufficiali polacchi. Nel ’53 fu la
volta di Claudio Da Mohr, diplomatico, il quale dichiarò che vicino alla sua cella della
8
Ibidem.
10
prigione Lefortovskaja, nel ’47, era rinchiuso Raul Wallemberg, console svedese
scomparso da Budapest dopo l’arrivo dei soldati sovietici e mai più ritrovato. Nel ’54
rientrò Giovanni Brevi, cappellano della divisione Julia, che, appena giunto da una
missione in Africa, fu inviato in Russia nel ’41; lasciò la sua terra a trentaquattro anni, vi
ritornò che ne aveva quarantasette. Non mancarono neppure evoluzioni grottesche come
l’odissea che visse il povero Nicola Silvestro. Nicola Silvestro era di Secondigliano,
vicino Napoli, e nel 1940 partì come sergente per il fronte greco, tornato in licenza, nel
’42, sposò Anna, il suo grande amore, contro il volere della madre. Ripartì per il fronte e
dopo l’8 settembre si perse ogni sua notizia. Qualche mese dopo la sua scomparsa nacque
sua figlia Assuntina. La moglie Anna, non potendo provvedere alla sua famiglia solo con
la pensione di guerra, si trasferì a Napoli per lavorare come operaia presso la Manifattura
tabacchi e nelle ore libere come sarta. La madre di Nicola, ancora astiosa e gelosa verso
la nuora, venendo a conoscenza, nel ’58, che il figlio si era salvato si guardò bene
dall’informare la moglie della splendida notizia. Nel Natale dello stesso anno lo
sfortunato ma “bello guaglione” rientrò a Secondigliano e la madre gli raccontò che la
moglie lo aveva dimenticato, che aveva avuto cinque figli progettando una nuova vita con
un altro uomo, e non gli disse nulla della nascita di Assuntina. Ma la madre, per quanto
potesse essere possessiva, nulla poté contro il pettegolezzo, e così la notizia volò veloce
di bocca in bocca sino a giungere ad Anna che, non perdendosi di coraggio, decise di
affrontare la situazione recandosi a Secondigliano. Entrò con impeto nella casa della
suocera, scorgendo il marito a tavola con i familiari ed incominciarono a volare strilla,
minacce, insulti benché il povero Nicola, il pomo della discordia, non comprendesse più
bene né l’italiano né un dialetto un tempo anche suo.
9
Non fu facile gettarsi alle spalle il ricordo della guerra neppure per gli abitanti di
Trieste che videro, improvvisamente, diventare la propria terra suolo straniero. Gli Alleati
promisero che alla vigilia delle elezioni del ’48 avrebbero restituito Trieste all’Italia, ma
9
Ivi, pp. 7-10.
11
tale decisione tergiversò per non entrare in contrasto con il maresciallo Tito e per
continuare a tenerselo amico soprattutto in quel frangente nel quale lo stesso era in rotta
con Stalin. Ma la fiducia e la simpatia del popolo italiano non potevano essere messe in
discussione e così si andò avanti tra promesse, smentite e rettifiche sino al ’54. Fino a
questa data Trieste vive con il cuore in gola. Il 20 marzo 1952 fu organizzato un concerto
in piazza dell’Unità e quando le note dell’orchestra richiamarono la melodia de “Il Piave
mormorava…” la polizia alleata incominciò a caricare la folla che rispose intonando: “Và
fuori o straniero”. Il Presidente del Consiglio Giuseppe Pella, nel settembre del ’53,
dichiarò che il governo italiano avrebbe ratificato il trattato che dava vita alla Comunità
europea di difesa (CED) in cambio della restituzione di Trieste da parte degli Alleati. L’8
ottobre delle stesso anno la Dichiarazione tripartita assegnò all’Italia la zona A, ma due
giorni dopo Tito dichiarò che la consegna di Trieste agli italiani era da considerarsi una
violazione del territorio jugoslavo tale da giustificare un’occupazione militare della città
stessa. La guerra sembrava vicina, ma ancora maggiore era la trepidazione per gli italiani
rimasti nella zona B, in numero notevolmente inferiore rispetto agli sloveni. Il 5
novembre la polizia, composta da 6500 unità in maggioranza slovene e sotto il comando
del governatore britannico, aprì il fuoco sulla folla causando 6 morti, tra i quali il
quindicenne Pietro Addobbati, e 60 feriti.
10
Alla metà degli anni cinquanta Trieste ed i
suoi abitanti vivevano ancora il loro tardivo e sanguinario dopoguerra.
10
Ivi, p. 12.
12
I.2. La Repubblica giunge in punta di piedi
Il 9 giugno 1944 gli alleati liberarono Roma ed il re concesse tutti i suoi poteri ad una
luogotenenza affidata al figlio Umberto. Il giorno seguente, 5 giugno 1944, il Presidente
del Consiglio Badoglio si dimise, ma ottenne nuovamente il suo incarico direttamente dal
luogotenente. Tale scelta fu oggetto di una vigorosa protesta da parte del CLN (Comitato
Liberazione Nazionale), sia perché fu effettuata in modo arbitrario dal luogotenente, sia
perché il maresciallo era un uomo profondamente compromesso col passato regime. Alla
luce di tale protesta l’incarico di formare il nuovo governo fu affidato al demolaburista
Bonomi (Partito Democrazia del Lavoro), con l’assenso americano e l’opposizione
inglese (questo episodio segnò il declino dell’influenza britannica sul nostro Paese,
sostituita da quella statunitense). Il governo Bonomi (18 giungo 1944-12 dicembre 1944)
fu appoggiato dal Partito Liberale Italiano (Pli), dalla Democrazia Cristiana (Dc), dal
Partito d’Azione (Pd’a), dal Partito Democrazia del Lavoro (Pdl), dal Partito Socialista
Italiano di Unità Proletaria (Psiup) e dal Partito Comunista d’Italia (Pcd’I). Il governo
cadde non trovando risposte chiare su due questioni altamente spinose: l’epurazione dei
fascisti, che la sinistra auspicava radicale, contrariamente ai moderati che volevano
un’azione volta solo a colpire le alte gerarchie del passato regime, ed il futuro ruolo
politico da attribuire al CLN. Bonomi accettò nuovamente l’incarico di Presidente del
Consiglio conferitogli dal luogotenente. Il nuovo governo (12 dicembre 1944-19 giugno
1945) fu sostenuto da una coalizione (Pli, Dc, Pdl, Pci) priva dei socialisti ed azionisti
contrariati dall’eccessivo condizionamento ad opera del potere regio.
Francesco Parri fu nominato Presidente del Consiglio nel giugno del 1945; furono ben
otto le settimane di confronto e di trattative necessarie ai partiti affinché ne indicassero il
nome
11
, e le lunghe trattative, le interminabili riunioni, i numerosi incontri e scontri
diventeranno un elemento costante e caratterizzante della nascita di tutti i governi della
11
Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino, 1996, p. 72.
13
Repubblica. La scelta di “Maurizio”
12
alla guida del governo fu accolta con grande
entusiasmo dai partigiani, convinti che la Resistenza potesse considerarsi salita al potere.
Lentamente anche all’interno della società italiana cominciano a configurarsi le stesse
divisioni internazionali e gli stessi mutamenti avvenuti nello scacchiere delle forze
geopolitiche mondiali: da un lato la Democrazia Cristiana, il mondo capitalista, il mondo
conservatore della Chiesa e la profonda influenza degli Stati Uniti; dall’altro il Partito
Comunista, la classe operaia e l’ombra dell’Unione Sovietica.
Parri fu un partigiano di primo piano: uomo coraggioso, dedito al comando e pronto al
sacrificio, ma queste qualità non furono una premessa per una buona guida del governo
ed i suoi cinque mesi di mandato non brillarono. Fu travolto dal quotidiano perdendo la
bussola della programmazione e delle priorità. Non giovò alla sua tranquillità di governo
il particolare momento di gran fermento interno che il Partito d’Azione stava vivendo
diviso tra l’ala socialista, guidata da Emilio Lusso, e quella moderata liberaldemocratica,
capeggiata da Ugo La Malfa. Queste divisioni interne andarono acuendosi sempre più
tanto che nel febbraio 1946 si giunse alla scissione interna e La Malfa ed i suoi seguaci,
con lo stesso Parri, lasciarono il partito, ma coloro che rimasero bevvero al calice di una
vittoria amara: pochi mesi dopo il Partito d’Azione si sciolse per sempre. Il sostegno dei
partiti della sinistra al governo non fu efficiente. Il Pci, il Psiup ed il Partito d’Azione
vantavano una maggioranza numerica sui democristiani ed i liberali, ma non fecero nulla
per raggiungere e render concreti i propri obiettivi. Questa politica d’attesa era dettata
dalla certezza dei due partiti della sinistra di ottenere la maggioranza dei consensi alle
elezioni prossime, elezioni che loro auspicavano vicine, tanto da essere disposti a fare
delle concessioni alla Dc affinché il voto delle urne non fosse rimandato. De Gasperi
riuscì a cavalcare la disponibilità della sinistra tanto che, con azioni politiche di primo
piano, ottenne dei risultati eccellenti: la lenta ma irreversibile scomparsa dei Comitati di
Liberazione Nazionale dallo scenario politico nazionale ed il rinvio delle elezioni
12
Maurizio fu il nome dato a Parri durante gli anni della lotta partigiana clandestina.
14
politiche alla primavera del 1946. De Gasperi seppe guadagnarsi il rispetto e persino la
fiducia della sinistra, benché i suoi obiettivi fossero molto distanti dai loro. Nel novembre
del 1946 i liberali annunciarono la fuoriuscita dal governo (decretandone così la fine) e
Parri fu costretto alle dimissioni. Il 10 dicembre Alcide De Gasperi accettò l’incarico di
Presidente del Consiglio, suo vice fu Nenni, il socialista Romita ministro degli Interni e
Togliatti assunse la guida del ministero di Grazia e Giustizia.
Furono questi gli anni in cui si poté toccare con mano la spinta verso una profonda
trasformazione delle istituzioni, che in seguito condurrà alla stesura della Costituzione
repubblicana. Il “vento del Nord” stava soffiando su tutto il Paese e questa espressione
portava con sé non solo l’annuncio delle vittoriose gesta degli antifascisti in campo
militare, ma anche una convinzione di cambiamento sociale di cui i partiti della sinistra,
che ebbero un ruolo principe nella Resistenza, erano portatori. Col passere del tempo il
“vento” d’innovazione perse pian piano forza e vigore: sintomo palese di ciò fu
l’affievolirsi del programma di epurazione dello Stato dal personale compromesso con il
fascismo. L’epurazione fu annunciata fin dal 23 gennaio 1944 e rappresentò una
condizione di obbligo derivante dall’armistizio.
13
Durante i governi Parri e De Gasperi la struttura delle istituzioni statali rimase
invariata, ereditata di fatto dal periodo fascista. I comunisti ed i socialisti considerando, in
modo errato, l’esistenza di una neutralità politica degli apparati burocratici ed
amministrativi rivolsero tutte le loro attenzioni ed energie alla conquista del potere
attraverso il consenso popolare democratico. Non si sottopose ad attenta analisi e
discussione alcuno degli enti semi-indipendenti dediti all’assistenza sociale e alla sfera
economica nati sotto la dittatura di Mussolini, basti pensare che lo stesso Togliatti, alla
guida del ministero di Grazia e Giustizia, non fece nulla per modificare il metodo di
13
Alessandro Pizzorusso, Istituzioni di Diritto Pubblico, Jovene, Napoli, 1997, pp. 96-97.
15
assunzione e di carriera dei giudici.
14
(Tale argomento necessita di un approfondimento
che esula dagli obiettivi di questo lavoro, pertanto si rinvia a testi specifici).
La sete di giustizia verso i crimini commessi dai fascisti coltivava una speranza nelle
commissioni di epurazione. Si era certi che colpire tutti i dipendenti statali che avevano
avuto la tessera fascista significava colpire l’intero sistema burocratico alla luce della sua
obbligatorietà per tutti i funzionari statali, ma le commissioni si macchiarono di gravi
errori facendo sì che rimanessero liberi alcuni tra i peggiori sostenitori del fascismo e
fossero condannati gli impiegati dei livelli più bassi. L’epurazione si rivelò un fallimento
totale. La magistratura ed i suoi uomini non furono oggetto di attenta e scrupolosa analisi
e quando quest’ultima fu chiamata a giudicare prosciolse quanti più imputati poté
dall’accusa di collaborazione all’ideologia fascista. Nel 1960 si costatò che soltanto due
dei prefetti in servizio non erano stati funzionari durante il fascismo, così per i 135
questori ed i loro 139 vice, soltanto cinque di loro avevano preso parte alla lotta di
liberazione nella Resistenza. Benché avesse sollevato grande indignazione e proteste
popolari fu lo stesso Togliatti, nel giugno del 1946, a decretare un’amnistia. Fu delineata
una differenza tra le torture “normali” e “sevizie particolarmente efferate” che garantì
l’impunibilità di alcuni dei più atroci torturatori del fascio. I tribunali giudicarono “non
colpevoli” reati quali lo stupro plurimo di una partigiana, le violenze a danno di alcuni
partigiani legati al soffitto di una stanza a testa in giù, la somministrazione di scariche
elettriche sui genitali con l’utilizzo di un telefono da campo.
15
In modo silenzioso, ma al
tempo stesso efficiente, un’epurazione fu effettivamente compiuta verso i partigiani e gli
uomini della Resistenza che erano entrati nell’amministrazione statale all’indomani
dell’insurrezione.
14
Paul Ginsborg, op. cit., p. 74.
15
Così stabilì la Corte di Cassazione: "Le torture furono fatte a scopo intimidatorio e non per bestiale
insensibilità come si sarebbe dovuto ritenere se tali applicazioni fossero avvenute a mezzo della corrente
ordinaria”.