2
ragioni tedesche per il no alla guerra, la rottura con gli Stati Uniti, l’alleanza con Parigi e il
successivo asse con Mosca.
La tesi sarà divisa in quattro capitoli: posizione della Germania durante la crisi irachena,
reazioni interne, motivazioni storiche e l’ultimo dedicato al quesito, “Continuità o
cambiamento? Siamo davanti a un nuovo corso della politica estera tedesca?”.
Nel primo capitolo ci limiteremo a riportare le principali prese di posizione del
governo Schröder in materia Iraq. Il periodo analizzato sarà quello tra l’agosto del 2002, il
il periodo più “caldo” della campagna elettorale tedesca e l’aprile del 2003, quando si
iniziò a parlare di dopoguerra iracheno.
Nel secondo capitolo si prenderanno in esame le reazioni che ha suscitato all’interno
della Germania. È stata una ricerca basata principalmente sulla stampa; le pubblicazioni
sull’argomento sono poche, vista la contemporaneità dei fatti. Talvolta è stato difficile
delimitare il confine tra obiettività e faziosità della stampa, il tema guerra - pace infatti
assume, più di altri, toni ideologici: il termine “pacifismo senza se e senza ma”, coniato per
l’occasione irachena, ne è una dimostrazione. Tra lezioni sulla dottrina della “guerra
giusta” e odi all’europeismo schröderiano, spesso si cercava più che altro di perseguire i
propri interessi. Se tutti i sondaggi hanno confermato l’appoggio della popolazione tedesca
alla linea di politica estera di Schröder, non si può dire lo stesso per la stampa, che ha sì
condannato in stragrande maggioranza la guerra, ma ha anche più volte ironizzato sul
nuovo stile in politica estera del Cancelliere. Le nostre fonti saranno soprattutto riviste
mensili di politica internazionale, le quali sfruttano la maggiore libertà di spazi, sono
riviste specialistiche, per compiere ricerche più approfondite che spesso si avvalgono di
una prospettiva più a lungo termine di quelle dei quotidiani. Questi sono più suscettibili al
clima generale del Paese, che, come detto, era favorevole alla gestione della crisi irachena
del governo. Ci siamo concentrati più su questo tipo di articoli anche perché il nostro
lavoro, che è nell’ambito delle relazioni internazionali, ha nella tensione verso il futuro
della politica estera tedesca una delle sue caratteristiche principali. Il capitolo riporterà
principalmente le posizioni dei più importanti esperti di relazioni internazionali e di
politica estera tedesca in Germania, tentando di dare uno sguardo complessivo sui
commenti e le reazioni alla gestione tedesca della crisi irachena.
Le principali fonti sono state: i quotidiani Frankfurter Allgemeine e Süddeutsche Zeitung, i
settimanali Der Spiegel e Die Zeit , i mensili specialistici Internationale Politik e Blätter
für deutsche und internationale Politik e Aus Politik und Zeitgeschichte, inserto del
settimanale Das Parlament.
3
Dopo aver descritto quali sono state le reazioni, nel capitolo 3 andremo ad analizzare
le ragioni storiche che hanno portato il governo rosso-verde ad assumere quest’atteggia-
mento. La ricerca delle motivazioni storiche costituirà uno dei punti di maggiore interesse,
poiché faremo un piccolo viaggio all’indietro nel passato della Bundesrepublik, portandoci
con noi di volta in volta ciò che si ritiene abbia potuto, anche inconsciamente, condizionare
la decisione del Cancelliere Schröder. Andremo a radiografare i capisaldi della politica
estera tedesca: il suo ruolo come potenza civile, la fedeltà atlantica e l’europeismo.
Analizzeremo le particolarità della Germania, cioè la sua limitata sovranità a livello
politico e l’identità profondamente condizionata dai sensi di colpa, due aspetti che insieme,
si possono trovare solo nella storia tedesca. Si cercherà poi di capire cos’ è cambiato dopo
il 1989. Le motivazioni storiche però, non sono legate solo alla politica e ai governi, ma
anche alla società tedesca, che vanta oggi una delle più radicate culture pacifiste. Günther
Grass e Jürgen Habermas, per esempio, intellettuali di fama internazionale, si sono
schierati apertamente contro la guerra in Iraq. Quest’ultimo insieme al filosofo francese
Jacques Derrida, recentemente scomparso, ha anche scritto un manifesto dell’Europa
pacifista, che ha provocato un lungo dibattito sull’identità europea, i suoi valori e ciò che la
distingue dagli Stati Uniti. Forse non è un caso che un simile appello europeo sia stato
promosso da un francese e da un tedesco.
Per spiegare le novità della politica estera tedesca rosso-verde, viene spesso ricordato
che per la prima volta è andata al governo una classe dirigente di una “nuova” generazione.
“Il nuovo Cancelliere, lontano dallo spirito di chi aveva ricostruito la Germania e non più
oppresso dalle responsabilità degli errori tedeschi sente di rappresentare una nuova
generazione.”
2
Dopo aver raccolto le informazioni necessarie per illustrare e spiegare i fatti relativi
alla crisi irachena ci si potrà dedicare al punto più interessante ovvero su quello che può
significare la svolta di Schröder per il futuro della politica estera della Bundesrepublik. La
domanda cruciale dell’ultimo capitolo, il 4, sarà allora: continuità o cambiamento? Una
domanda “double face”, la si potrà riferire infatti sia guardando indietro a quelli che sono i
punti cardine della politica estera tedesca, sia volgendo lo sguardo al futuro: rappresenta un
caso isolato, o sarà questa la linea che seguiranno anche i futuri governi di Berlino? La
conclusione penderà più verso quest’ultima ipotesi, con tutta la cautela d’obbligo quando si
tratta di delineare scenari futuri. Una volta entrata nell’arena delle grandi potenze, è poco
2
Luigi Vittorio Ferraris, “Nuovi indirizzi della politica estera tedesca?” in Affari Esteri, autunno 2004, n. 144,
pp. 801- 802.
4
probabile che la Germania si tiri indietro per tornare alla moderazione della guerra Fredda.
I punti che verranno esaminati per arrivare a questo verdetto saranno: il futuro delle
relazioni transatlantiche, il ruolo della Germania nel processo di formazione di una politica
estera e di sicurezza europea, l’eventuale proseguimento dell’asse Berlino - Parigi - Mosca
e una riflessione sulla via tedesca e la nuova presa di coscienza che sembra coinvolgere la
Germania. Si guarderà poi alle differenze che dividono su molti temi Germania e Stati
Uniti, ponendosi la domanda se si tratti solo di episodi, o se sia in atto un deterioramento
dei rapporti. Il punto 4.2 sarà dedicato al ruolo della Germania nei progetti di formazione
di una politica estera europea: motore franco-tedesco oppure Direttorio Francia –
Germania - Gran Bretagna, ipotesi meno dibattuta, ma non meno realistica? Per quanto
concerne la politica estera comunitaria, la Germania si presenta come uno dei Paesi più
propensi a indirizzarsi verso l’obiettivo di unire le politiche estere nazionali in un’unica
politica estera europea. La sua campagna per aggiudicarsi un seggio permanente nel
Consiglio di Sicurezza dell’ONU sembra però contraddire questo obiettivo. Secondo alcuni
osservatori infatti la Germania, nonostante il multilateralismo di facciata, starebbe in realtà
perseguendo solo i propri interessi.
Nel paragrafo 4.3 ci occuperemo di una delle grosse novità emerse dallo scenario
iracheno: l’asse Parigi - Berlino - Mosca, un’ulteriore opzione per la Germania. Si tratta
solo di un episodio o è il preludio di una nuova alleanza strategica?
L’ultimo paragrafo del 4° capitolo si occuperà esclusivamente di un tema che
ritroveremo più volte nella tesi: la nuova presa di coscienza del popolo tedesco e della sua
classe politica. Riprendendo le conclusioni del terzo capitolo sulle ragioni storiche della
svolta tedesca, ci concentreremo qui sul nuovo vocabolario usato soprattutto da Schröder,
da qualcuno giudicato eccessivo, ma che sembra rispecchiare l’orientamento dei cittadini
tedeschi. Già nel 1999, dopo un solo anno di governo Schröder, alla domanda: “Schröder si
presenta in Europa con maggiore consapevolezza di Kohl, lo trovate positivo?”, l’82%
degli intervistati rispose affermativamente. Se nel 1990 il 75% dei tedeschi si dichiarava
ancora contrario a un maggiore coinvolgimento del proprio Paese nei conflitti
internazionali
3
, nel 2003 la situazione si era totalmente capovolta: solo il 13% era
contrario, mentre l’82% era favorevole ad un ruolo più attivo
4
.
Nelle conclusioni verranno riassunti i risultati della ricerca svolta e porteremo
argomenti per dimostrare la validità della nostra ipotesi, ovvero l’inizio di un nuovo corso
3
http://www.soz.uni-frankfurt.de/hellmann/mat/APUZ_2004_Umfragen.pdf.
4
“Transatlantic trends 2003”, The German Marshall Found of the United States, 2003.
5
per la Germania, tornata a essere una potenza a tutti gli effetti. A conferma di ciò citerei
la recente pubblicazione di due libri dai titoli molto evocativi: Der deutsche Weg.
Selbstverständlich und normal ( La via tedesca. Ovvia e normale) dell’ex collaboratore di
Brandt, Egon Bahr, e Der Auftritt. Deutschlands Rückkehr auf die Weltbühne (L’entrata in
scena. Il ritorno della Germania sul palcoscenico mondiale) dello storico Gregor
Schöllgen. Basta leggere i titoli per capire di trovarci di fronte a qualcosa di nuovo, di
rivoluzionario. Il libro di Bahr è ancora più esplicito nella sua veste grafica, sulla copertina
la parola “deutsche”, scritta coi caratteri gotici in uso ai tempi dei nazisti, viene
simbolicamente cancellata da una striscia rossa e riscritta a caratteri normali. Ora la via
tedesca non fa più paura a nessuno, dopo la “rieducazione”e la denazificazione, dopo l’
epoca della gerra Fredda vissuta sotto protezione (e controllo) americani, ora il bambino è
finalmente adulto e la Germania è pronta per prendere la sua strada. Normalità appunto.
La questione della “normalità” del resto è intimamente connessa col quesito dell’ultimo
capitolo della tesi: continuità o cambiamento? Di normalità in effetti se ne parla già da
qualche anno in Germania, soprattutto dopo il 1999, quando l’ironia della sorte e della
storia vollero che sarebbe stato proprio un governo di sinistra a rompere forse il più grosso
tabù degli ultimi cinquant’anni: il ritorno della Germania in guerra. Molti probabilmente
preferivano l’anomalia della guerra Fredda, ma i tempi erano cambiati e così la
militarizzazione della Germania è stata vista come un passo verso la normalità. Nel nostro
caso quindi “normalità” significa cambiamento, si tratta di un “ritorno alla normalità”
infatti e la parola “ritorno” implica un’evoluzione, un cambiamento appunto.
Ciò che distingue questo primo passo del 1999, dai progressi fatti durante la crisi
irachena, è il rapporto con l’alleato americano: se l’intervento in Kosovo aveva irritato
qualcuno all’interno della Germania per l’utilizzo della forza al di fuori del mandato ONU,
a livello internazionale si trattava pur sempre di una scelta fatta, come prassi, seguendo
l’alleato americano, la pedina più importante dello scacchiere mondiale. Nel quadro delle
relazioni internazionali si trattava di una scelta coerente, quindi di “continuità”. La
decisione di non seguire più gli Stati Uniti nell’avventura irachena acquista un aspetto di
rottura che il discusso intervento in Kosovo non aveva.
A posteriori alcuni fissano gli inizi della “normalizzazione” addirittura nel 1992,
quando la Germania, appena riunificata, prese una clamorosa iniziativa autnonoma (l’
inizio della “via tedesca”?) di enorme rilevanza riconoscendo come primo Stato al mondo
l’indipendenza della Croazia. Quest’azione avrebbe avuto pesanti conseguenze
dolorosamente note sulla situazione nella ex- Jugoslavia.
6
Sull’intervento in Iraq ogni Paese europeo aveva i “suoi” motivi per essere favorevole o
contrario, e questo vale in maniera particolare per la Germania. Vedremo come
l’eccezionalità della storia tedesca condizioni ancora la sua politica attuale. Se fino a
qualche anno fa si parlava di una rinuncia alla sovranità (“Souveranitätsgewinn durch
Souveranitätsverzicht”) per ragioni storiche (e tattiche), ora con gli stessi ideali, “Mai più
guerra” e “Mai più Auschwitz”, si giustifica un nuovo attivismo che ha spinto la Germania
a partecipare a due conflitti (Kosovo e Afghanistan) e a rifiutarne clamorosamente un
terzo, (l’Iraq), sempre per rimanere fedele al proprio ruolo di potenza civile.
7
1. La posizione della Germania durante la crisi irachena
La posizione assunta dalla Germania in merito all'operazione Iraqi Freedom rappresenta
l’evento da cui questo studio muove. Abbiamo suddiviso il capitolo in quattro paragrafi che
riflettono quelli che a nostro avviso sono gli aspetti più importanti: il "no alla guerra", la
"rottura con gli USA", e "l'alleanza con Parigi" (e la sua estensione a Mosca). In questo primo
capitolo eviteremo giudizi di merito e analisi sugli scenari futuri, cercando di riportare in
maniera più obiettiva possibile il comportamento del governo rosso-verde durante la crisi
irachena. Prenderemo quindi in considerazione le fonti primarie: discorsi, interviste e
dichiarazioni di Schröder, Fischer, e di altri membri del governo.
1.1 No alla guerra: le ragioni della Germania
L'aspetto fondamentale della politica irachena della Germania, quello che ha poi causato,
come effetti secondari, lo strappo con Washington e la formazione di un'alleanza con Parigi e
Mosca, è stato il costante rifiuto di un intervento militare in Iraq. La Germania è stata da
questo punto di vista il Paese più intransigente nell’affermare il "no alla guerra". La posizione
tedesca, come vedremo più attentamente nel capitolo sulle motivazioni storiche, è stata per
certi versi la più ideologica. Su Francia e Russia resta l'ombra degli stretti rapporti economici
con il regime di Saddam, oltre che i dubbi legittimi sulle reali intenzioni pacifiste di Putin.
1.1.1. L'Iraq è la priorità sbagliata
"L'Iraq è la priorità sbagliata" è stato un cavallo di battaglia della campagna pacifista tedesca.
La Germania ha guardato fin da subito con sospetto alle prime voci che cominciavano a
circolare su una guerra in Iraq. La priorità secondo Berlino, era innanzitutto quella di risolvere
le molte questioni ancora aperte in Afghanistan e terminare con successo Enduring Freedom,
prima di occuparsi di quella che sarebbe poi diventata Iraqi Freedom. “I talebani non sono
ancora stati sconfitti", hanno spesso ripetuto Fischer e Schröder, che hanno usato questa
giustificazione anche per evitare le domande più scottanti dei giornalisti sull'Iraq. Soprattutto
il difficile processo di nation building afghano non veniva ancora considerato concluso per
cui la Germania non intendeva imbarcarsi in un altro processo di democratizzazione, quello
dell'Iraq, che appariva ai loro occhi ancor più proibitivo. I tedeschi si sono dimostrati molto
8
sensibili a questa problematica, promuovendo la Conferenza per l'Afghanistan e sottolineando
invece i rischi legati al nation building iracheno. Sebbene anche Enduring Freedom sia stata
una guerra preventiva, Berlino ha sempre distinto tra la lotta al terrorismo, di cui la missione
in Afghanistan era un importante tassello e l'Iraq, in cui non ci sarebbero stati i presupposti
per un intervento armato. Così Fischer risponde alla domanda scontata, sulla differenza tra la
situazione afghana e quella irachena, in un'intervista al quotidiano Handelsblatt il 6 settembre
2002:
In Afghanistan c'erano le prove inconfutabili del coinvolgimento della dittatura talebana
dietro il terrore di Bin Laden. Era chiaro quindi che gli attacchi dell' 11 settembre vennero
organizzati dall'Afghanistan. E si trattava di un attacco agli Stati Uniti d'America, al loro
popolo, al loro governo. Qualunque Paese, attaccato in quella maniera, reagirebbe così se ne
avesse la capacità. Ovviamente gli Stati Uniti, così come noi, non vorranno e non potranno
vivere sotto la spada di Damocle di questo terrorismo. In questo non vi è alcuna differenza tra
le due sponde dell'Atlantico. Si tratta solo di capire se da una guerra contro il terrorismo
internazionale non stiamo passando ad un altro obiettivo.
L’altro obiettivo, qui solo accennato, è quello del cambio di regime, che secondo Fischer non
farebbe parte né della lotta al terrorismo, né tantomeno troverebbe spazio nella Carta dell'
ONU. Un principio questo, che ribadirà con chiarezza anche nel drammatico discorso al
Consiglio di Sicurezza dell'ONU del 19 marzo, a poche ore dall' inizio delle operazioni di
Iraqi Freedom: “Per un cambio di regime con mezzi militari non vi è alcun fondamento nella
Carta dell' ONU”. La posizione tedesca è in linea con il diritto internazionale: il regime
change in sé non può essere un obiettivo della politica internazionale, non si possono
destituire a proprio piacimento governi di altri Paesi, per quanto violenti e dittatoriali. Se
l'obiettivo resta la lotta al terrorismo, la Germania non ne vede il legame con il regime di
Saddam: questa è la principale differenza dagli Stati Uniti. Non essendoci i presupposti, non
essendo questa una "guerra giusta" secondo Berlino, si tratterebbe solo di un interesse a
destituire Saddam, e questo non sarebbe legittimo. La differente percezione della minaccia
proveniente dall'Iraq sta alla base delle divergenze tra Germania e Stati Uniti. Così come gran
parte dell'opinione pubblica mondiale, il governo tedesco non ha individuato alcuna prova del
legame tra Saddam ed Al Quaeda, l'unico motivo che avrebbe potuto far rientrare Iraqi
Freedom nella comune lotta al terrorismo, secondo Berlino. La Germania non si è fatta
convincere né dalle infinite dichiarazioni di Bush, né dalle presunte prove fornite da Colin
9
Powell a febbraio. Secondo la Cancelleria tedesca l'Iraq non sarebbe stato né legato
all'organizzazione di Bin Laden, né in grado comunque di costituire un pericolo per l'ordine
mondiale. "Der Irak ist derzeit keine akute Bedrohung fiir die internationale Sicherheit",
afferma senza mezzi termini il Ministro degli Esteri il 28 agosto 2002 ("L'Iraq attualmente
non rappresenta alcuna grave minaccia alla sicurezza internazionale").
5
La minaccia
proveniente dall'Iraq sarebbe stata stabile, senza alcun traccia di un'involuzione tale da
giustificare una guerra. Anzi, semmai una volta tornati gli ispettori, il governo tedesco si
sforzerà continuamente di sottolineare come i loro primi successi, non facciano che diminuire
ancor più la minaccia irachena, essendo Saddam sempre più controllato ed isolato.
Così ancora una volta assistiamo a una contrastante valutazione della situazione tra i
due partner transatlantici: se per la Casa Bianca le informazioni dei loro servizi segreti (poi
dimostratesi false) indicheranno la presenza di armi di distruzioni di massa e la collaborazione
di Saddam verrà ritenuta insufficiente, il governo tedesco invece si mostrerà soddisfatto
dell'avvio delle ispezioni, fino ad affermare che l'Iraq non era mai stato così controllato. La
priorità non è Saddam quindi, non ci sono i presupposti per una guerra in Iraq, non c'erano nel
2002, né tantomeno nel 2003 quando torneranno gli ispettori dell'ONU, questa rimarrà la
posizione tedesca fino alla fine.
1.1.2. Preoccupazione per le conseguenze
Oltre a non condividere le ragioni di un intervento militare, la Germania si mostra molto
preoccupata per le conseguenze che questo potrebbe avere. Non solo una posizione di
principio quindi, ma anche un'accurata analisi dei rischi e delle opportunità, e i primi
supereranno di gran lunga le seconde, a giudizio dei tedeschi. Preoccupazione innanzitutto per
l'integrità territoriale dell'Iraq; più che per la guerra, per il dopoguerra quindi. In un'intervista
concessa alla televisione di Stato il 24 di gennaio del 2003 Fischer ha illustrato molto bene
questa problematica:
Dobbiamo entrare in un campo di speculazioni sui rischi, e ciò che succederà effettivamente
dopo, è motivo di grande preoccupazione. Tutti gli interlocutori della regione con cui ho
avuto modo di parlare, quindi non solo la parte araba, ma anche la delegazione turca o
quella iraniana, tutti sono molti preoccupati per l'integrità territoriale dell'Iraq. La maggior
parte dei confini qui, nel Vicino e Medio Oriente sono di recente costituzione, spesso decisi
5
Intervista rilasciata al quotidiano “Flensburger Tagesblatt”, 28 agosto 2002.
10
dopo la Prima guerra mondiale, alcuni addirittura solo dopo la Seconda guerra mondiale.
Alcuni vengono contestati. Questo significa che l'integrità territoriale è di grande,
grandissima importanza.
6
La questione curda ed il conflitto tra una maggioranza sciita ed una minoranza sunnita al
potere con Saddam, sono due dei problemi legati all’integrità territoriale dell'Iraq. I politici
tedeschi ricordano come siano state proprio queste preoccupazioni a sconsigliare al padre di
George W. Bush di marciare fino a Baghdad ai tempi della Guerra del Golfo. Interrogativi a
cui il figlio non avrebbe ancora fornito una risposta. A conferma di ciò Fischer cita addirittura
l'autobiografia di Colin Powell e del Generale Schwarzkopf, capo delle truppe americane
durante la Guerra del Golfo, in cui verrebbe spiegato perché non si sia arrivati a Baghdad nel
1991. Le motivazioni varrebbero anche oggi: “Si sa come penetrare con la potenza militare,
ma non come uscirne. Si temono nuove ondate di terrorismo e una balcanizzazione dell'intera
regione.”
7
La Germania è convinta che con un intervento militare il terrorismo anziché diminuire
aumenti, già questo basterebbe a giustificare la propria contrarietà. Il caos del dopoguerra,
quello che Fischer definisce qui "balcanizzazione", sarebbe nuovo combustibile per il
terrorismo.
“La mia grande preoccupazione”, dirà Fischer il 5 marzo 2003 in un'intervista al settimanale
Stern, "è che gli Stati Uniti e molti altri Stati, non solo occidentali, debbano fare i conti con
ingenti conseguenze”. A rileggerla oggi questa dichiarazione sembra quasi una triste profezia
della piaga dei rapimenti e degli attentati della guerriglia irachena. \
Per tornare alla questione dell'integrità territoriale dell'Iraq, questa risulta, come già
accennato sopra nella citazione di Fischer, intimamente connessa con la situazione
mediorientale in generale. Il Medio Oriente rappresenta un nodo centrale della posizione
tedesca. Berlino ha sempre cercato di collegare l'Iraq alla questione palestinese, vedendo in un
attacco all'Iraq un ulteriore pericolo per il processo di pace. Schröder esprime così le proprie
preoccupazioni in un'intervista del Ferragosto del 2002 al prestigioso settimanale Die Zeit:
Con un intervento militare in Iraq, guardando al Medio Oriente, porremmo delle priorità
sbagliate. Chi vuole entrarci, deve avere una legittimazione per farlo e quella ancora non c'è.
Ma deve anche sapere quello che intende fare là e come poterne uscire. Chi interviene in
6
Intervista alla trasmissione televisiva"Bericht aus Berlin" sul canale ARD, 24 gennaio 2003.
7
intervista rilasciata da Joschka Fischer a Frankurter Allgemeine, 17 marzo 2003.
11
Iraq, deve sviluppare un progetto politico ed economico per il Medio Oriente. La mia
impressione è che queste riflessioni sul dopo non siano ancora state fatte.
Un no alla guerra anche per ragioni strategiche quindi, perché un intervento militare
destabilizzerebbe ancora di più la regione mediorientale.
Schröder ha fatto spesso riferimento alla necessità di coinvolgere gli stati confinanti
con l'Iraq e gli arabi moderati in generale: “La politica di contenimento nei confronti di
Baghdad è stata ed è efficace, perché viene accettata se non addirittura appoggiata dai governi
arabi moderati.”
8
La Germania ha così dimostrato di tenere fede alla sua politica multilaterale,
teme infatti che l’unilateralismo rompa la fiducia di questi stati e sfaldi la coalizione
internazionale contro il terrorismo, un'altra conseguenza deleteria di una guerra. Il Cancelliere
ha spesso ricordato inoltre come il Medio Oriente confini con l'Europa e come una sua
destabilizzazione coinvolga anche il nostro continente.
Ma le preoccupazioni tedesche non sono solo politiche. L'instabilità e il caos avrebbero anche
ripercussioni economiche a livello mondiale che il governo tedesco non sottovaluta.
Proprio alla vigilia della guerra, il 18 marzo 2003, Schröder aveva messo in guardia
l'alleato americano dal rischio di una catastrofe umanitaria.
9
La minaccia proveniente da
Saddam Hussein, a differenza che in Kosovo e in Afghanistan, non sarebbe stata tale da
giustificare il sacrificio di migliaia di vite umane. Questa volta non vi sarebbe né quella
necessità etica ed umanitaria di intervenire, come in Kosovo, né una minaccia terroristica
come in Afghanistan ad ordinare un'azione militare. Mentre a Washington si prevedevano
grandi vittorie, facili e con l'aiuto della Divina Provvidenza, a Berlino il governo parlava di
dover fare i conti con migliaia di vittime, due linguaggi diametralmente opposti.
8
Ibidem.
9
Discorso di Gerhard Schröder al Bundestag, 18 marzo 2003.
12
1.1.3. No alla guerra preventiva e alla strategia americana
Quando il governo tedesco afferma che non ci sono i presupposti per un intervento militare,
né giuridici, né etici, critica apertamente la strategia del partner transatlantico. Non solo una
differente percezione della minaccia terroristica tra Germania e Stati Uniti quindi, ma anche
un profondo disaccordo sui metodi per risolvere le crisi internazionali.
Se non abbiamo più una minaccia concreta, ma solo il sospetto che un giorno potrebbe
arrivare una minaccia e prendiamo questa minaccia come pretesto per un attacco militare
preventivo, allora ci troveremo di fronte ad un chiaro problema di bilanciamento nell'
affrontare la questione del futuro ordine mondiale.
10
Detto molto semplicemente: la Germania è contraria alla dottrina della guerra preventiva. È lo
stesso Schröder ad ammetterlo in un'intervista: “Nella forma in cui la conosco, non posso
approvarla”.
11
Il governo tedesco opta per una soluzione multilaterale: un regime di controllo
internazionale anzichè un intervento militare unilaterale.
Se oggi la situazione è tale per cui le armi di distruzione di massa non sono più disposte come
ai tempi della Guerra Fredda [...], allora abbiamo bisogno [...] di un regime di controllo e di
non-proliferazione stabile che agisca a livello internazionale e non solo nel singolo caso.
Proprio qui sta la sfida. In un mondo sempre più instabile non possiamo seriamente pensare
di fare delle guerre per il disarmo dalle armi di distruzione di massa la nostra strategia.
12
Guerra per il disarmo? No. Questa non può la essere la strategia per il futuro, secondo la
Germania, che invece auspica una via diplomatica. Fischer prende ad esempio il metodo usato
nei confronti della Corea del Nord:
Qual'è il messaggio di una politica che in Corea del Nord si affida alle trattative - cosa che
ritengo peraltro giusta [...] - ma solo perché lì probabilmente le armi nucleari sono già
presenti? Al contrario nel caso di Saddam, in cui non ci sono collegamenti con l'11 settembre,
ma che si tratta pur sempre di un terribile dittatore, è stata perseguita una politica di
containment.
13
10
Discorso di Joschka Fischer al Bundestag, 13 marzo 2003.
11
Intervista rilasciata alla trasmissione "tagesthemen" sul canale ARD, 29 gennaio 2003.
12
Discorso di Joschka Fischer al Bundestag, 13 febbraio 2003.
13
Discorso di Joschka Fischer al Bundestag 13 gennaio 2003.
13
La Germania resta fedele al diritto internazionale (finchè le fa comodo, direbbero i più critici)
e non approva la guerra per disarmare gli Stati sospettati di possedere armi di distruzione di
massa. Questo scetticismo si manifesta spesso sotto forma di domande retoriche:
D'ora in poi dovremo attaccare ogni volta che ci sia il sospetto che un Paese il cui governo
non sia legittimato democraticamente sia entrato in possesso di missili a media gittata, mezzi
di supporto, armi di distruzione di massa?
14
Si tratta di qualcosa di più di un semplice pacifismo, o antiamericanismo, come molti l'hanno
battezzato, il "No alla guerra" tedesco nasce in realtà da un profondo dissenso dagli Stati Uniti
su alcuni dei temi più delicati della politica estera, come in questo caso sulla lotta alla
proliferazione di armi di distruzione di massa.
Il messaggio può essere: Hai un'arma nucleare, allora trattiamo; non ce l'hai, non ci saranno
trattative. Se questo è il messaggio, allora io temo che nel medio termine ci troveremo di
fronte ad un problema di tutt'altra natura. Perché questo messaggio viene percepito da tutti
gli Stati-canaglia di questo mondo, con tutti i rischi legati alla proliferazione che ne derivano.
Per questo ritengo sia fondamentale la questione della proporzionalità, come afferma anche
la Carta dell'ONU.
15
Il principio della proporzionalità, dei danni inflitti rispetto al male subito, sembrerebbe in
effetti dare ragione più alla posizione tedesca che non a quella della Casa Bianca. Si tratta di
uno dei principi, insieme a quello di necessità e di immediatezza, che regolano la legittima
difesa nella Carta delle Nazioni Unite. La sua ambiguità dà luogo a molteplici interpretazioni.
La Germania è dell'avviso che il caso iracheno non soddisfi questi parametri. “Questa può
essere veramente solo ultima ratio. Prima ci devono essere altri strumenti, più efficaci, non
bellici, ma comunque dotati di una loro incisività.”
16
In un'altra intervista, a una domanda diretta, se sia lecito condurre una guerra
preventiva per evitare mali peggiori, Fischer risponde che il disarmo non si potrà certo
raggiungere per via bellica nel ventunesimo secolo e ribadisce la necessità di attivare un
14
Intervista rilasciata da Fischer a Stuttgarter Nachrichten, 8 febbraio 2002.
15
Ibidem.
16
Intervista rilasciata da Joschka Fischer a Die Zeit, 20 febbraio 2003.
14
efficace sistema di controllo internazionale.
17
Certo, si potrebbe obiettare, quelle tedesche o europee sono solo parole. È quello che molti
hanno fatto: secondo Kagan, per esempio, per citare il più rinomato politologo neocon,
l’Europa sarebbe pacifista solo perché incapace di svolgere un qualunque ruolo militare di
rilievo. Al di là di queste interpretazioni che vedremo meglio nel secondo capitolo, il dibattito
sull'uso della forza mina le relazioni transatlantiche. Se a Washington regna la dottrina
preventiva, Fischer invece ritiene erroneo credere che l'aspetto militare sarà così determinante
per la sicurezza in futuro.
18
Altro punto di scontro tra le sponde atlantiche è la fiducia nel processo di
democratizzazione attraverso interventi militari come quello in Iraq. Anche se il governo
americano non ha espressamente dichiarato di voler in tal modo "democratizzare" tutto il
Medio Oriente, buona parte dell'opinione pubblica mondiale l'ha interpretato così. Lo scopo
stesso dell'intervento, inizialmente sventare la minaccia terroristica proveniente dall'Iraq, si è
poi trasformato, una volta appurato che non vi erano tracce di armi di distruzione di massa,
nel compito di democratizzare il Paese iracheno, almeno così l'ha spiegato al mondo intero
George W. Bush. È possibile esportare la democrazia manu militari? Questo interrogativo ha
occupato le opinioni pubbliche dell'intero globo, vediamo come ha risposto Fischer a una
domanda simile postagli da un giornalista del settimanale Stern:
STERN: Gli americani perseguono una sorta di teoria del domino: Se si porta la democrazia in
un Paese arabo, anche gli altri verranno coinvolti. Lei è d'accordo?
FISCHER: Non sono un sostenitore di questa teoria. La democratizzazione del mondo arabo -
musulmano è una questione centrale. Ma la si può ottenere con un'azione militare in Iraq? Chi
conosce almeno un po' la storia di questo Paese sa che l'Iraq è composto da una società tribale
multi etnica e multireligiosa. C' è il rischio concreto di una balcanizzazione dell'Iraq dopo una
guerra.
19
La ricetta tedesca del resto è molto diversa. Le prime perplessità della Germania sulla nuova
strategia americana risalgono addirittura all'inizio del 2002, molti mesi prima delle elezioni e
più di un anno prima della guerra in Iraq. Dopo l'avvio della guerra in Afghanistan e le prime
indiscrezioni sulla volontà americana di intervenire anche in Iraq, Berlino comincia a
distaccarsi da quella "solidarietà incondizionata" che Schröder aveva giurato a Bush
17
Intervista rilasciata da Joschka Fischer al settimanale Stern, 5 marzo 2003.
18
Ibidem.
19
Ibidem.
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all'indomani dell'11 settembre 2001 e a vedere in maniera diversa dagli Stati Uniti la lotta al
terrorismo. Il Ministro degli Esteri esce allo scoperto il 12 febbraio 2002, due settimane dopo
il documento della Casa Bianca sulla Nuova Strategia di Sicurezza Nazionale Americana.
In un'intervista al quotidiano Die Welt inizia a prendere le distanze dagli Stati Uniti criticando
apertamente il concetto di "Asse del Male" e le tentazioni unipolari di Washington. Secondo il
Ministro tedesco la ricetta da seguire non sarebbe militare, ma di solidarietà:
Abbiamo bisogno di un nuovo concetto di sicurezza, soprattutto di una nuova gestione della
globalizzazione, perché un dollaro o un euro possono venire impiegati una volta sola. Il
denaro verrà a mancare in altre parti del mondo e questo non farà che aumentare la
disperazione della popolazione e quindi i potenziali rischi alla sicurezza.
Se queste prime dichiarazioni non sono ancora così dure come quelle della campagna
elettorale, ciò che appare chiaro è la volontà di Fischer di cominciare a porre accenti propri
alla lotta contro il terrorismo. Il 13 febbraio, un giorno più tardi, traspare nuovamente il suo
scetticismo: “Bisogna stare attenti a non fare diventare l'intervento contro il terrorismo
un'azione militare globale o potrebbe arrivare il giorno in cui gli europei dovranno dire
chiaramente: Questa non è più la nostra politica.”
Questo concetto verrà ripetuto spesso: dalla lotta al terrorismo si sta passando a
qualcos'altro, di diverso: noi non parteciperemo. A tratti la Germania, più che criticare la
strategia americana, ne sottolinea l'assenza, quantomeno di una a lungo termine. "Le questioni
fondamentali non sono state risolte", "Bisogna sapere come uscirne...", le dichiarazioni
tedesche assumeranno spesso questi toni. Se gli Stati Uniti sono pronti a tutto pur di battere il
terrorismo, la Germania non condivide questo modo di affrontare la crisi. "Ci sono tre cose
che non possiamo accettare", dice Fischer:
- Non dobbiamo rinunciare ai nostri valori fondamentali e farci risucchiare in uno
scontro di civiltà.
- Non dobbiamo rinunciare alle nostre libertà interne.
- Dobbiamo evitare di barricarci economicamente. C'è bisogno di un'economia
mondiale aperta.
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Intervista rilasciata da Joschka Fischer, a Handelsblatt, 6 settembre 2002.