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Sulla base di queste indicazioni generali, ho cercato di capire se l’informazione di
guerra sia migliorata nel corso del tempo o se stia rimanendo impigliata nelle reti della
manipolazione da parte del potere politico e nelle lusinghe della spettacolarizzazione
televisiva, proponendo anche un’analisi del ruolo che i reporter di guerra hanno rivestito
e rivestono nei conflitti a cui partecipano.
Come caso concreto ho scelto di analizzare il recente conflitto in Iraq, sia perché
l’ho vissuto in prima persona come spettatrice (cosa che non è avvenuta con conflitti
meno recenti) sia perché è un argomento di estrema attualità, su cui il dibattito è ancora
aperto.
Ho tracciato le linee generali del contesto in cui si colloca (situazione politica e
storica dell’Iraq) ma la mia analisi si è concentrata principalmente sull’aspetto
mediatico del conflitto, sul modo in cui è stato affrontato dai vari media nei vari paesi
ed in particolar modo negli Stati Uniti.
Senza pretendere di dare giudizi, ho cercato di capire se l’informazione di guerra
in questo conflitto abbia svolto il suo compito, se sia stata ostacolata, o se si sia auto
censurata e schierata.
Per avere e fornire un’idea più chiara della situazione mediatica recente ho chiesto
il parere e la testimonianza di tre importanti inviati di guerra, che rispondendo alle mie
domande hanno dato un contributo concreto per capire meglio come questo conflitto è
stato affrontato e a cosa porterà in futuro.
Partendo quindi da un excursus su come la guerra è cambiata attraverso i media,
affrontando il tema delle nuove tecnologie, del ruolo degli inviati di guerra, del pericolo
della spettacolarizzazione e della differenza tra il giornalismo europeo e quello
americano, sono arrivata ai giorni nostri parlando di un conflitto tutt’altro che semplice,
sia da spiegare che da capire.
L’intento finale era quello di fornire un quadro generale dell’evoluzione
dell’informazione di guerra, con i suoi attori e le sue caratteristiche, per poi vedere in
particolare come questa si è comportata nel corso dell’ultimo conflitto iracheno.
I risultati in realtà sono aperti a varie interpretazioni, il dibattito è ancora in corso
e le opinioni al riguardo (come emerge dalle testimonianze) sono divergenti.. i punti su
cui tutti concordano sono pochi, ma penso che sia proprio da questi che bisogna ripartire
per rilanciare e migliorare l’informazione di guerra.
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Penso poi (e spero) che le generazioni future, di cui anch’io faccio parte, saranno
la chiave di volta per un sostanziale cambiamento nel mondo dell’informazione,
rendendola più incisiva e meno schierata di come non è stata spesso sino ad oggi.
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1. La guerra attraverso i media
La guerra non può essere narrata. Della guerra si hanno immagini e letture parziali
(dalla propaganda ai racconti dei reduci), difficilmente si ha un racconto esauriente ed
obiettivo.
La guerra è l’insieme di grandi fatti, ma anche di piccole storie, di grandi
sentimenti collettivi e di forti emozioni per i tanti che vi prendono parte. Non si può
narrare e descrivere tutto ciò. Le guerre sono il luogo della contraddizione tra grandi
ideali che le giustificano e nobilitano e la realtà fatta di stragi, distruzioni e sofferenze.
Una contraddizione che influisce sui modi in cui narrarla. Da un lato, il mito e la
leggenda che esaltano quei valori che si vogliono tramandare ai posteri, i sacrifici di un
popolo unito, la risoluzione dell’eroe che affronta la morte per difendere ciò in cui
crede. Dall’altro, il racconto povero di chi ne è stato vittima o i ricordi delle vittime che
non sanno dare spiegazioni o motivazioni, ma solo una testimonianza della
partecipazione.
La guerra perciò è un fenomeno troppo complesso per darne una spiegazione
esauriente. Così o si semplifica, limitandosi ad un singolo episodio o resta, nella sua
totalità, trama indistinta ed illeggibile.
La guerra poi è un fenomeno “lontano” in molti sensi: geograficamente,
culturalmente, ecc. Ma la guerra è lontana perché esperienza sconosciuta: chi vi
partecipa deve cambiare il suo modo di essere e sentire.
E’ importante inoltre descrivere la guerra utilizzando linguaggi e modi narrativi
che devono far ricorso alla retorica. Si evocano le grandi battaglie o le gesta eroiche di
pochi valorosi e, quasi mai, la triste quotidianità della vita in trincea, l’attesa angosciosa
di essere feriti o uccisi, le grandi e crudeli stragi. I pochi fatti gloriosi vengono proposti
come esempio alle nuove generazioni che raramente ne sono coinvolte. Gli anni bui
della guerra restano ricordo intenso solo per chi vi ha partecipato.
C’è un secondo tratto che caratterizza la guerra: la sua disumanità. Ciò ha
costretto, da sempre, a dover giustificare l’uso della forza, il ricorso alle armi. Si
devono, così, legittimare decisioni ed azioni che causano lutti e distruzioni. Una guerra
deve essere giusta e necessaria. E’ giusta quando si ritiene sia l’unico modo per
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ristabilire la legalità, le regole del convivere civile che qualcuno, il nemico, ha ignorato.
E’ giusta e necessaria se viene presentata come l’unico modo per resistere alla
prevaricazione di un aggressore che vuole invadere il territorio nazionale o arrecare
gravi offese al popolo che ci vive. E’ necessaria se nessun altro mezzo riesce
nell’intento di ristabilire l’ordine che qualcuno ha violato o messo in crisi. Ma questi
criteri di legittimazione sono del tutto teorici; più spesso creati “ex post” che non motivi
o cause reali dello scoppiare dei conflitti. Hitler ha invaso la Polonia perché, a suo dire,
la Germania era minacciata. Chi inizia una guerra afferma sempre di esservi costretto e
di aver tentato con ogni mezzo di evitarla.
E’ solo da questo secolo che si hanno notizie delle guerre in corso senza attendere
i racconti dai reduci o i lavori degli artisti e degli storici. I giornali prima, e poi la radio,
hanno avvicinato il fronte a chi ne era lontano. La guerra è diventata, così, oggetto
dell’informazione. Gli inviati narrano quello che vedono o quello che è loro raccontato.
In genere vedono poco e sono naturalmente “di parte”. Nelle loro descrizioni molto si
perde e qualcosa si aggiunge: i particolari che fanno colore, i commenti dovuti. E’ una
novità molto importante. Innanzi tutto le notizie non possono essere ignorate: così le
vittorie devono essere valutate per i loro alti costi, le sconfitte fanno dubitare sull’esito
finale e incrinano le certezze che avevano spinto alla guerra. Ma, soprattutto, gli eroi
lasciano il passo a uomini che fanno il loro dovere. Nelle narrazioni dei cronisti c’è
grande spazio per i sentimenti comuni. Il cronista non è neutrale: deve narrare cosa
fanno i “nostri ragazzi” al fronte. C’è poco spazio per la critica e la condanna morale.
Radio e giornali trovano ad un certo punto un concorrente anomalo ma molto
efficace. E’ il cinema, che racconta a suo modo i fatti ed i personaggi che fanno e
vivono la guerra. Con il cinema nasce una nuova retorica tipica dei modi di narrare di
questo mezzo. Innanzi tutto la guerra non è descritta ma ricreata: si tiene conto della
realtà (ciò che è successo), ma si inventano e trasformano fatti e personaggi. Di norma i
film narrano come piccoli uomini si trovino in circostanze particolari e scoprano dentro
di sé la forza per fare cose straordinarie per i propri compagni, per ciò in cui credono o
sentono giusto. A sottolineare la loro normalità vi sono i nemici; questi, il più delle
volte, sono manichini senza cuore e valori. Adesso la guerra è meno lontana anche per
chi non è stato chiamato a farla: se ne conoscono i luoghi, il modo in cui si combatte,
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ecc. La guerra nei film americani appare del tutto giusta e necessaria. La storia
inventata, anche se con qualche aggancio alla realtà, tende ormai a sovrapporsi a ciò che
è successo davvero. Tutto ciò che si sa sulla guerra è, da questo momento, il risultato
della fusione tra realtà e fiction.
1.1 Guerre mondiali
Il conflitto della prima guerra mondiale apre la strada ad una forma di
concentrazione di tutte le innovazioni tecniche del giornalismo. Quella del 1914-18 è la
prima guerra di massa, la prima in cui tutti i Paesi impegnati inviano al fronte soldati
provenienti dalla coscrizione, la prima in cui il servizio militare obbligatorio coinvolge
nelle battaglie le masse intere, e non più solo i professionisti, la prima in cui i militari
sono alfabetizzati. La gente partecipa a questa guerra con una concezione più precisa
della storia grazie all’istruzione pubblica generalizzata.
Nasce però proprio in questi anni anche la censura sui media. Le informazioni
sulla guerra vengono controllate dall’esercito e dai governi, come a dire: “La
democrazia ve bene, ma non in tempo di guerra”. La guerra viene a costituire uno stato
di eccezione che permette allo Stato di mettere tra parentesi alcune libertà democratiche.
L’unica lettura autorizzata è quella che presenta la guerra in una dimensione vittoriosa.
Ecco allora che un Decreto reale del 23 marzo 1915 autorizza il governo italiano a
vietare, quando lo ritiene necessario, la pubblicazione di notizie ed articoli di argomento
militare. Il 23 maggio un nuovo decreto vieta ai giornali di dare notizie (all’infuori di
quelle dei comunicati ufficiali) sul numero dei feriti , dei morti e dei prigionieri nonché
di fare previsioni sulle operazioni militari. Il giorno seguente, 24 maggio, entra in
funzione la censura militare coordinata dall’Ufficio stampa del Comando supremo. Il
comandante in capo è Luigi Cadorna, che non ha nessuna simpatia per la stampa e per i
giornalisti e di conseguenza le sue disposizioni sono drastiche: nei primi mesi gli inviati
speciali non possono entrare nella zone delle operazioni pena l’espulsione, mentre
“L’Avanti” ed altri giornali socialisti sono messi al bando in tutte le province dichiarate
territorio militare. Cadorna poi vuole solo la parafrasi dei bollettini di guerra e non
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concede neppure che i quotidiani diano ai lettori un po’ di cronaca o impressioni
generiche. Soltanto quando la guerra si rivela più lunga e sanguinosa del previsto, i
comandi si rendono conto dell’importanza della stampa nel fronte interno ed anche nelle
trincee. Si attenua perciò il rigore iniziale, accompagnato da una grande cautela
informativa, un permanente ottimismo e dosi massicce di retorica e di colore. In
sostanza il conformismo si coniuga spesso con il patriottismo di maniera. Comune a
tutti è quindi l’intento di dare un’immagine ottimistica del conflitto, ma questi toni e le
descrizioni edulcorate mandano in bestia gli ufficiali ed i soldati che chiedono di
ricevere i giornali nelle trincee. Ci si preoccupa poi di ridurre l’eco delle parole di
Benedetto XV, che definisce la guerra “un’inutile strage” e si polemizza contro il Papa,
l’ “Osservatore Romano” e vari fogli cattolici.
Dal fronte tuttavia i corrispondenti informano puntualmente i rispettivi direttori
sulla realtà della situazione, ma questa realtà non si ritrova nei loro articoli. Con
l’allontanamento di Cadorna e la sua sostituzione con Armando Diaz, le cose cambiano
anche nel campo dell’informazione e della propaganda. Diaz limita a 500 parole la
lunghezza dei dispacci che i corrispondenti di guerra possono inviare ai loro giornali e
soprattutto invita i giornalisti ad abbandonare i toni retorici e solenni. Il servizio di
propaganda tra le truppe cambia registro e si amplia notevolmente. Dopo Caporetto
inizia la vera e propria stagione dei giornali di trincea, favorita dalla nuova
impostazione di massa del servizio P (propaganda fra le truppe), dotato di maggiori
mezzi.
Gli Stati Uniti, al contrario, entrano nel conflitto nel 1917 come una società di
massa e trasformano radicalmente la guerra ed il modo di raccontarla, perché lo fanno
attraverso un’informazione libera. Corrispondenti celeberrimi accorrono al fronte per
conto della stampa americana e canadese. Vi sono quindi due modi di interpretare lo
stesso conflitto. La lettura europea è frutto della censura, mentre la concezione
americana offre una visione molto più libera, poiché il giornalista statunitense è protetto
dal primo emendamento della Costituzione che, in un certo senso, lo obbliga a tenere
informati i lettori.
E’ nel periodo del fascismo però che in Italia le potenzialità dei mezzi di
comunicazione vengono sfruttate e percepite in maniera completa. Questo grazie
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principalmente a due fattori: la nascita della radio ed il profondo interesse di Mussolini
per i mezzi di comunicazione, soprattutto per la carta stampata.
Partendo dal primo elemento, il giornalismo radiofonico nasce nel 1930, anno in
cui i notiziari dell’Eiar assumono la veste del giornale radio e diventano appuntamenti
regolari. Gli abbonati crescono incessantemente fino a superare il milione nel 1938, ma
il giornalismo radiofonico resta comunque in secondo piano rispetto a quello dei
giornali sia perché Mussolini, patito per la carta stampata, ne percepisce in ritardo le
potenzialità, sia perché il nuovo strumento di comunicazione è sostanzialmente un
monopolio statale e quindi sorvegliato da una Commissione di vigilanza nominata dal
governo. La radio però segna comunque un passaggio importante: insieme alla
diffusione dei cinegiornali dell’Istituto Luce e dei film porta all’avvento di un moderno
sistema di comunicazione di massa.
Parlando di Mussolini, bisogna innanzitutto sottolineare che egli nasce come
giornalista ed il giornalismo rimarrà sempre la sua grande passione. Nel 1912 diventa
direttore dell’ “Avanti” e dopo l’inizio della prima Guerra mondiale fonda il “Popolo
d’Italia”. Conosce quindi bene i meccanismi che regolano i giornali e come attirare
l’interesse del pubblico e sfrutta questa competenza a proprio vantaggio. Nelle scelte di
Mussolini sul problema della stampa due sono gli aspetti principali. Il primo è il modo
con cui porta avanti la fascistizzazione integrale dei maggiori quotidiani, il secondo
aspetto è rappresentato dagli strumenti messi in opera per dare ai giornali un’impronta
dottrinaria ed inserirli nella macchina dell’organizzazione del consenso senza farne dei
giornali di Stato. A lui interessano più le direzioni dei quotidiani che le proprietà, quindi
i veri fiduciari del regime diventano i direttori responsabili. Il capo del fascismo non
vuole disperdere, ma anzi sfruttare, il prestigio e la diffusione che le testate più
importanti hanno accumulato in Italia ed all’estero. Nasce da questo calcolo l’impiego
di una tattica duttile e graduale soprattutto verso il “Corriere della Sera” e “La Stampa”
pretendendo, all’inizio, soltanto la fascistizzazione della parte politica.
Al riassestamento graduale della stampa, si accompagna un progressivo aumento
dei controlli e delle direttive. Lo strumento principale di sorveglianza e di direzione è
l’Ufficio Stampa (che nel 1934 diventa Sottosegretariato per la stampa e la propaganda).
Da questo ufficio partono i dispacci telegrafici ai prefetti con le direttive per intervenire
presso i direttori dei quotidiani. L’Agenzia Stefani è un altro strumento per rendere
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omogenea la parte politica dei quotidiani, in primo luogo perché i giornali che non
hanno corrispondenze particolari dall’estero devono ricorrere per forza ai dispacci di
questa agenzia, in secondo luogo perché l’Ufficio stampa ordina con sempre maggior
frequenza di servirsi della Stefani per le notizie che riguardano Mussolini, le decisioni
del governo ed i fatti politici delicati. La funzione dei giornali quindi è quella di servire
il regime, evitando ciò che è dannoso e facendo ciò che è utile.
La preparazione e la condotta della guerra di Etiopia sono il primo banco di prova
della complessa macchina costruita per mobilitare gli italiani e propagandare il
consenso. Il collaudo è positivo: “ Mai come in questa occasione – ha scritto lo storico
De Felice – il fascismo riuscì a mobilitare ed ad utilizzare a fondo le possibilità
offertegli dal monopolio dell’informazione e delle moderne tecniche della propaganda
di massa. Tutti gli strumenti furono utilizzati al massimo: stampa, radio, cinema,
organizzazioni di massa, scuola, ecc. Tutte le categorie di cittadini furono investite”.
1
Nel 1937 il Ministero per la Stampa e la Propaganda diventa Ministero della
Cultura popolare, detto poi Minculpop. La vera novità è però rappresentata dall’impiego
della radio nel conflitto ideologico e propagandistico, mentre la carta stampata è
chiamata a svolgere un ruolo peculiare e gravissimo nella campagna antisemita che
sfocia nella persecuzione degli ebrei. Dopo l’inizio della guerra le informazioni sono
scarse, perché sulle notizie militari si ha un doppio vaglio censorio: quello dei dicasteri
militari e quello del Minculpop. I corrispondenti devono descrivere più le impressioni
che i fatti e gli strumenti più efficaci di informazione e propaganda del regime sono i
due giornali radio più ascoltati, alle 13 ed alle 20. Ben presto però la gente si stanca di
essere tenuta all’oscuro e passa a Radio Londra.
Con la fine della guerra e l’interludio della Repubblica di Salò, il successo
giornalistico più notevole tocca a Mussolini. Tra il 24 giugno ed il 18 luglio 1944 il
Duce pubblica sul “Corriere della Sera” una lunga serie di articoli nei quali ripercorre le
vicende intercorse tra l’ottobre 1942 ed il settembre 1943 difendendo naturalmente il
suo operato. Quando, con il numero del 12 agosto, il “Corriere” offre ai lettori un
fascicolo che raccoglie i diciannove articoli sotto il titolo Il tempo del bastone e della
carota – Storia di un anno, la tiratura sfiora le 800.000 copie.
1
Cfr. R. De Felice, Mussolini il duce, I, cit., p. 266
13
Durante il secondo conflitto mondiale la stampa europea è censurata, controllata
dal governo e dalle forze d’occupazione naziste. Al contrario, anche in questa
occasione, i reporter americani, che si spostano insieme ai soldati e sono liberi di girare
tra le truppe, offrono alla stampa molti documenti sullo sbarco e sulla guerra. Un
esempio lo si ha durante il conflitto ad Addis Abeba, dove l’inviato del “New York
Times” racconta l’utilizzo dei gas contro la popolazione civile ed i bombardamenti ad
opera dell’esercito mussoliniano, lasciando una testimonianza del tutto diversa da quella
offerta dalla propaganda italiana dell’epoca. Altro esempio da ricordare è sicuramente
l’operato di Ed Morrow, corrispondente della Cbs, che inaugurò, durante il secondo
conflitto mondiale, uno stile giornalistico del tutto nuovo, raccontando in diretta via
radio, sotto il fuoco tedesco, la dinamica delle azioni militari e delle esplosioni delle
bombe. Morrow riuscì, con la collaborazione dei tecnici statunitensi, a realizzare il
collegamento contemporaneo con gli altri campi di guerra, offrendo l’informazione sul
conflitto, minuto per minuto, da tutto il paese. Una trasmissione che negli States ebbe
un successo straordinario non solo di audience ma anche politico, tanto che Morrow
venne convocato alla Casa Bianca per capire se la situazione era così grave da
richiedere un intervento.
1.2 Guerra del Vietnam
La guerra in Tv arrivò, quasi all’improvviso, nei salotti degli americani all’ora di
cena. Si tratta della guerra del Vietnam ed è utile tracciare il contesto storico in cui si
colloca: la presa di coscienza dopo le due guerre mondiali dell’importanza della
propaganda in guerra e della gestione dell’opinione pubblica in tempo di pace e la
nascita del mezzo televisivo. Questa guerra (1954-75) fu combattuta in nome
dell’anticomunismo; all’inizio l’intervento americano è defilato e di solo appoggio al
Vietnam del Sud, per poi intensificarsi progressivamente: il governo Kennedy vuole
però nascondere il più a lungo possibile l’esistenza di una vera guerra in Vietnam.
Tuttavia, dopo un po’, la presenza americana significa ormai guerra aperta e si vuole
avviare una politica di larga costruzione del consenso, lasciando via libera a tutti i
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media: non c’è censura ed agli accreditati viene fornita ogni cooperazione ed assistenza.
I giornalisti quindi circolano sui terreni di guerra in totale libertà con il rango di
ufficiali.
All’inizio la guerra è raccontata come una marcia trionfale, giustificata dalla
difesa della democrazia contro il totalitarismo. Il motto ufficiale di Washington è: “Una
guerra fondamentale per la difesa del mondo intero contro la possibilità del costituirsi di
un blocco comunista in Asia”
2
. Naturalmente il Pentagono promuove una linea di
informazione propagandistica, volta a sostenere un discorso patriottico. Ciononostante
molti giornalisti svolgono un reale lavoro di denuncia, che permette di svelare i
molteplici crimini compiuti dagli americani.
La copertura televisiva della guerra è bassa ed occasionale fino al 1965, per poi
crescere fino all’aprile del ’68 e diventare più regolare fino al 1973. Per il Vietnam fino
al ’68 l’orrore non è mostrato, gli anchorman hanno la funzione di parlare di patrioti, del
coraggio dei “nostri” ragazzi, della precisione delle armi ad alta tecnologia: è una
telecronaca soft della guerra. La rappresentazione televisiva porta ad una
teatralizzazione della cronaca di guerra, con la quale si idealizza il conflitto e si diffonde
la mistica dell’eroe americano. In questo tipo di cronaca è impensabile che ci sia lo
spazio per la critica. Ad un certo punto però la guerra contro un paese nettamente
inferiore tecnologicamente stava durando più del previsto ed il Pentagono fa credere che
la vittoria sia imminente. Ma l’azione offensiva terrestre del Tet non porta i risultati
sperati e per l’opinione pubblica diventa ormai chiaro che l’America sta perdendo la
guerra. Con l’offensiva del Tet la cronaca televisiva era quindi cambiata, diventando più
drammatica e critica. D’un colpo crolla lo schema semplificatorio di un Vietnam del
Sud democratico contro l’invasione del Nord comunista e con l’intensificazione
dell’attività giornalistica aumentano le immagini di vittime civili e di distruzioni urbane:
per la prima volta la guerra appare in televisione come un brutto affare. Brevi sequenze
di immagini, non belle, non ricostruite come in un film, anzi spesso in bianco e nero,
con immagini sgranate, con forte sapore di realtà. L’impatto è duro: i volti che
appaiono, per un attimo, sul piccolo schermo sono di ragazzi che sembra di conoscere.
Ma vi sono altre presenze. Una continua, ossessiva: gli elicotteri che ronzano
pesantemente sopra le teste dei militari. Macchine che insieme rassicurano e spaventano
2
I. Ramonet, Guerra e informazione, cit., p. 9