6
La necessità di intraprendere simili trattative nasceva dalla
convinzione che il mercato, con le sue leggi, non poteva
condurre il sistema economico verso gli obiettivi classici
della teoria keynesiana (piena occupazione, aumento del
reddito) e non era in grado di garantire una corretta
distribuzione delle risorse economiche.
Le condizioni “idealtipiche”
1
del modello neocorporativo
possono essere così schematizzate: un rilevante ruolo
esercitato dallo Stato, la partecipazione delle associazioni
degli interessi collettivi con specifiche condizioni
associative (monopolio degli interessi rappresentati,
riconoscimento ufficiale, status giuridico semi-pubblico) ed
infine la concertazione
2
come mezzo di sviluppo e
attuazione della politica economica.
1
L. Bellardi, Concertazione e contrattazione. Soggetti, poteri e dinamiche regolative,.
1999, Cacucci Editore, pag. 13.
2
M. Regini, Le implicazioni teoriche della concertazione italiana, Giornale di Diritto
del Lavoro e di Relazioni Industriali, n. 72, 1996, 4, pag. 731e seg.
Secondo i teorici del modello neocorporativo la concertazione sociale era destinata ad
affermarsi per tre ordini di ragioni: 1) In una situazione di crisi economica e deficit di
governabilità i governi sarebbero stati inclini a cercare uno scambio di risorse per il
raggiungimento di obiettivi comuni. 2)La continua trasformazione delle organizzazioni
degli interessi verso il tipo ideale del modello neocorporativo. 3)Una convergenza
d’interessi delle parti sociali e dei governi verso una politica dei redditi consensuale.
L’autore contesta che queste condizioni siano le chiavi di volta per l’affermazione
della concertazione italiana negli anni ’90.
7
Sono molte le disquisizioni teoriche emerse
sull’eventualità di annoverare la concertazione all’interno
del modello neocorporativo, vale a dire come una
condizione per la sua identificazione, o se questa si ponga
su un piano differente rispetto al modello stesso. Va inoltre
evidenziato che sulla nozione stessa di concertazione si
contrappongono due tesi: la prima che la identifica come
uno scambio politico di risorse economiche e reciproco
riconoscimento tra lo Stato e le parti sociali; la seconda,
invece, individua in essa una delega di responsabilità dei
soggetti che vi partecipano.
Secondo il primo modello, le relazioni trilaterali
individuano uno scambio di interessi di carattere politico-
economico, nel quale le parti sociali, manifestando il loro
consenso verso gli obiettivi macroeconomici dell’attore
istituzionale, si impegnano a sostenere restrizioni
economiche immediate (contenimento delle dinamiche
salariali per i lavoratori) in cambio di benefici futuri
(contenimento dell’inflazione e conservazione del potere
8
d’acquisto dei salari) ottenuti attraverso la predisposizione
di risorse economiche da parte del governo. Naturalmente
parti integranti dello scambio sono il reciproco
riconoscimento e la legittimazione a trattare. Seguendo
invece le indicazioni del secondo modello di concertazione,
si va a definire un meccanismo di condivisione di obiettivi
economici che delega le parti ad adottare, ciascuna nel
proprio campo di azione, comportamenti responsabili e
coordinati per l’attuazione della politica sociale ed
economica sostenuta. In generale, mentre nel primo caso lo
scambio si fonda sulla possibilità effettiva del governo di
predisporre risorse economiche come controprestazioni, nel
secondo caso queste non risultano indispensabili, poiché la
delega di responsabilità si fonda essenzialmente su politiche
regolative e di controllo, piuttosto che distributive.
Risulta difficile asserire se nell’esperienza italiana sia
prevalso un modello rispetto all’altro, ma tendenzialmente
la dottrina
3
ritiene che il concetto di delega di responsabilità
3
L. Bellardi, opera citata.
9
sia più idoneo a descrivere, nel complesso, le dinamiche
concertative sviluppatesi nel corso dei decenni.
Il primo modello appare, infatti, troppo riduttivo, non
rispecchiando le complesse e articolate forme di confronto
fra parti sociali e governo su gran parte dei temi di carattere
sociale; confronto che più volte ha generato una
combinazione fra fonte legislativa e contrattuale a tutti nota
come “legislazione contrattata”
4
.
Se nel complesso questa risulta essere la tesi dominante,
nello stesso tempo è essenziale analizzare i singoli rapporti
trilaterali succedutisi nel tempo, potendo così esprimere un
giudizio più meditato su ciascuno di essi.
4
E. Ghera, La concertazione sociale nell’esperienza italiana, Rivista Italiana di
Diritto del Lavoro, 2000, I, pag. 116.
10
1.2 Le prime esperienze triangolari
L’inizio delle esperienze concertative italiane risale con
certezza alla seconda metà degli anni settanta. Gli shocks
petroliferi caratterizzano il periodo storico, determinando la
crescita dei prezzi delle materie prime in gran parte dei
paesi europei e frenando lo sviluppo.
La prima fase concertativa vede il governo in una
posizione di attore esterno al negoziato.
Infatti, nonostante la predisposizione degli obiettivi
macroeconomici di lungo periodo, il modello che il
soggetto istituzionale persegue è quello del così detto
“binario parallelo”
5
: si affida ai contratti collettivi
nazionali e agli accordi interconfederali il compito di
perseguire le politiche restrittive delineate dal confronto tra
governo e parti sociali.
L’esigenza di trovare uno sbocco alla fase di recessione
economica nazionale e internazionale, spinge il governo a
5
E. Ghera, opera citata.
11
studiare delle soluzioni per contenere le dinamiche del
costo del lavoro e per porre un freno alla dilagante
inflazione
6
. Si giunge così all’Accordo Interconfederale del
1977, che combina l’obiettivo sul costo del lavoro con
quelli dell’aumento della produttività e il rilancio
dell’occupazione, soprattutto nel Mezzogiorno. L’accordo
può essere inserito nel modello dello scambio politico-
economico fra governo e parti sociali ma rappresenta solo
un timido tentativo di patto sociale. Si finisce, infatti, per
operare soltanto nell’ottica del contenimento della dinamica
salariale e non anche in quella della crescita produttiva e
dell’occupazione, obiettivi questi difficili viste le precarie
condizioni economiche in cui versa il paese. Nonostante la
dottrina abbia parlato di scambio politico “bloccato”
(Regini, ’81), non si può non considerare come il patto
segni l’inizio di un’interazione fra relazioni industriali e
6
La teoria economica usa il termine Stagflazione per descrivere una situazione
macroeconomica caratterizzata dalla combinazione tra recessione e aumento
dell’inflazione.
12
governo, destinata a continuare con l’inizio del nuovo
decennio.
Il coinvolgimento delle parti sociali nelle politiche
economiche del governo riprende vigore in questi anni per
il persistente peggioramento della congiuntura economica,
caratterizzata da un’elevata inflazione, dalla necessità
imminente di una ristrutturazione organizzativa e da una
vera e propria crisi della contrattazione collettiva
tradizionale, incapace di recitare il ruolo di strumento
regolatore del mercato del lavoro.
Si apre così nel 1981 la vertenza sul costo del lavoro e
sulla scala mobile che accompagnerà le relazioni trilaterali
ancora per un decennio. Vi è subito una parziale novità
rispetto al passato. L’iniziativa a trattare passa nelle mani
del governo, il quale predispone obiettivi economici di
lungo periodo, sui quali cerca di trovare il consenso delle
associazioni sindacali. Nello stesso tempo però continua a
rimanere un attore esterno al negoziato. Si giunge
all’Accordo del 22 giugno 1981, tra il governo e le parti
13
sociali, che decreta il principio dell’autocontenimento
retributivo delle associazioni sindacali ma finisce per
risultare soltanto un’intesa basata su mere intenzioni, più
che un dettato di vincoli sul comportamento delle parti in
gioco. Appare evidente, in questo particolare periodo
storico, la difficoltà delle relazioni industriali di intrecciare
un formale rapporto con l’interlocutore istituzionale e
l’estrema situazione di stallo politico e sociale presente nel
nostro paese. L’assoluta mancanza di regole certe e la
povertà di strumenti compromettono ogni tentativo di
avvicinamento delle parti su obiettivi più o meno condivisi
e la possibilità di stipulare accordi, per mettere fine ad una
situazione economica e sociale a dir poco ingovernabile.
14
1.3 Il protocollo Scotti e “l’accordo mancato”
del ’84
La situazione di assoluta ingovernabilità si protrae fino al
1983, quando cambia quella che era la tendenza
evidenziata nelle precedenti esperienze e che vedeva il
soggetto politico esterno al negoziato. Ora il governo entra
come parte attiva nel rapporto con le parti sociali,
modificando radicalmente il suo ruolo, e predispone
proprie risorse economiche per intraprendere la strada verso
relazioni triangolari. Queste sono le due caratteristiche più
importanti del così detto Protocollo Scotti (Protocollo
d’intesa tra governo e le parti sociali sul costo del lavoro
del 22 gennaio 1983). Se invece si valuta l’intesa dal punto
di vista degli obiettivi da raggiungere, poco cambia rispetto
al passato. Sono sempre i temi della scala mobile e delle
conseguenti dinamiche inflattive a tener banco, ai quali si
aggiunge l’obiettivo parallelo della crescita occupazionale.
15
Più che perseguire obiettivi di tipo keynesiano, il Protocollo
comincia ad indicare la strada verso una politica restrittiva
del welfare, che verrà percorsa con sempre maggiore enfasi
dagli accordi concertativi di “seconda generazione”.
È evidente, però, che una politica non espansiva del
reddito e del welfare, senza la previsione di
controprestazioni a relativo vantaggio delle parti sociali,
difficilmente sarebbe andata in porto. Così il governo
assume l’impegno di intervenire su molteplici materie (il
prelievo fiscale, la fiscalizzazione degli oneri sociali, gli
assegni familiari e i tickets sanitari) per rendere praticabile
la strada intrapresa.
L’attore istituzionale, consapevole che il consenso delle
parti sociali è indispensabile per il contenimento
dell’indicizzazione salariale, mira a due obiettivi chiave: la
caduta dell’inflazione e, come immediata conseguenza, il
miglioramento delle capacità produttive, organizzative e
competitive del sistema impresa. A questo fine la crescita
dei salari è legata, a livello aziendale, all’aumento di
16
produttività delle imprese. Inoltre, per far sì che le
dinamiche del costo del lavoro siano allineate ai tassi medi
d’inflazione programmati, il Protocollo del ’83 rinvia ai
rinnovi contrattuali di categoria il compito di fissare dei
tetti agli aumenti salariali.
La dottrina si interroga sull’ipotesi di definire il
Protocollo Scotti il primo esempio di concertazione in
Italia. I dubbi nascono dalla considerazione delle “critiche”
che si portano ad esso da più parti e sotto più punti di vista.
Nonostante, infatti, si sostenga che l’accordo abbia tutte le
caratteristiche formali tipiche di un atto di concertazione,
appare evidente che esso si configuri come un esempio di
“scambio effimero”
7
: l’unica esigenza delle parti è quella di
superare lo stallo delle relazioni industriali e ottenere
reciproci vantaggi economici. Da questo punto di vista si è
parlato anche di uno scambio ad hoc
8
, opportunista e
contingente, più che un atto regolativo dell’assetto
concertativo. Se si considera poi che il tentativo del
7
E. Ghera, opera citata, pag. 122.
8
L. Bellardi, op. citata, pag. 32.
17
Protocollo di mettere ordine al sistema contrattuale,
attraverso il principio generale di non sovrapposizione
normativa tra i vari livelli, si riveli solo una manifestazione
d’intenti più che una predisposizione di impegni vincolanti,
è evidente allora il disagio nel considerare l’accordo un
esempio di patto sociale. Del resto il Protocollo non fissa
nemmeno regole certe per superare il problema della
rappresentanza e dei criteri di selezione delle parti
legittimate a trattare, manifestando così la povertà di
strumenti per valutare la dimensione dell’effettivo sostegno
sociale alla politica economica dell’accordo. Ad incidere
sulla debolezza del Protocollo sono da un lato problemi di
carattere politico e dall’altro di natura propriamente
sindacale. Dal primo punto di vista si manifesta in modo
evidente l’incapacità del governo di offrire garanzie per il
perseguimento degli obiettivi fissati. Infatti, le forti
conflittualità interne alla maggioranza e i vincoli di bilancio
sono evidenti e non possono non determinarne l’instabilità.
18
Sotto il profilo sindacale, la mancanza di regole sulla
struttura delle relazioni industriali pesa non poco sul
risultato finale.
Nonostante quindi il Protocollo segni una svolta nella
direzione di accordi trilaterali e proponga obiettivi di futura
discussione, non si può sicuramente affermare che esso
ponga fine alla vertenza sulla scala mobile e
all’ingovernabilità della situazione politico-sociale.
È però nel 1984 che si raggiunge l’apice della crisi. Le
condizioni capaci di bloccare l’azione concertativa si sono
già manifestate ma si amplificano nel momento in cui si
tenta di confermare, con un nuovo protocollo, la linea
economica seguita. Il Protocollo sul costo del lavoro del 14
febbraio 1984 va incontro all’esplicito dissenso della CGIL,
la maggiore associazione sindacale, e si finisce così per
arrivare alla firma separata con la CISL e la UIL. I motivi
di questa situazione possono essere trovati sia sotto
l’aspetto politico (opposizione comunista allo scambio
governo-sindacati e riaffermazione della preminenza del
19
ruolo del parlamento) sia in quello sindacale (rottura netta
dell’unità sindacale). Il colpo però più duro alla
concertazione lo scaglia il governo che, di fronte al
fallimento del negoziato, si riappropria dell’autorità
politica, tentando di raggiungere gli obiettivi prefissati per
mezzo del decreto legge. L’attività negoziale, come
strumento privilegiato per regolare materie di carattere
sociale, si svuota così di ogni significato. Il decreto legge
9
emanato in questa occasione è stato oggetto anche di una
pronuncia della Corte Costituzionale
10
, la quale però ne
sancisce la legittimità.
In definitiva, il contenuto del Protocollo è salvo. Ciò che
si compromette è il valore della concertazione sociale come
mezzo di cooperazione tra pubblici poteri e interessi
organizzati per la definizione di politiche in tema di lavoro.
9
Si tratta del decreto legge 70/1984 convertito in legge con la L. 12 giugno 1984, n.
219. Il d.l opera nella direzione di un taglio della contingenza, ridotta ad un semestre.
10
Sentenza n. 34/1985. La Corte precisa che gli accordi trilaterali non sono coperti
dalla garanzia di libertà sindacale espressa dall’art. 39 Cost. e si pongono in un quadro
esterno rispetto al sistema costituzionale. Si legittima così pienamente l’azione
politica del governo di regolare la materia in questione in modo indipendente dalla
trattativa negoziale.