2indagare se essa si differenzi, e in che misura, dall’”azione di esecuzione” di matrice pretoria che
era stata coniata dalla giurisprudenza precedentemente alla legge n. 205 del 2000.
Nella parte III prenderemo in esame, nel capitolo 1, le conseguenze delle innovazioni recate
dall’art. 10 comma II della legge n. 205 del 2000 con riguardo alle sentenze della Corte dei Conti. Il
secondo capitolo sarà invece dedicato al portato dell’innovazione ex art. 21 comma XIII della legge
TAR, nel nuovo testo introdotto dalla legge n. 205 del 2000, che ha espressamente codificato il
ricorso ai poteri tipici dell’ottemperanza per l’esecuzione delle ordinanze cautelari, già
precedentemente introdotto in via pretoria dalla giurisprudenza. Il terzo ed ultimo capitolo, infine,
tratterà del particolare procedimento esecutivo previsto dall’art. 2 comma II della legge n. 205 del
2000 nell’ambito del ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione.
Trattandosi, in tutte le ipotesi appena prese in considerazione, di procedimenti esecutivi che
intervengono con riferimento a pronunce giurisdizionali che sono connotate dalla peculiare
caratteristica di essere statuizioni non definitive e quindi potenzialmente interinali, sarà importante
analizzare, tra l’altro, nelle fattispecie più rilevanti, se e come una tale natura abbia influenza nei
procedimenti esecutivi che ad esse si riferiscono e, di conseguenza, come i diversi “giudizi di
ottemperanza” che ad esse sono applicabili si differenzino dal giudizio di ottemperanza tradizionale,
ossia quello proprio delle sentenze ormai divenute giudicato.
PARTE PRIMA
L’esecuzione delle sentenze di primo grado non passate in giudicato: l’origine
del problema, l’evoluzione storica e le innovazioni apportate dall’art. 10 comma
I della legge n. 205 del 2000
PARTE I CAPITOLO I
4
CAPITOLO PRIMO
IL GIUDIZIO DI OTTEMPERANZA
1.1 Giustificazione dell’esistenza nell’ordinamento dell’istituto del giudizio di
ottemperanza e la sua evoluzione storica.
Il giudizio di ottemperanza costituisce lo strumento previsto dalla legge (art. 27 comma I n. 4 del
R.D. 26 giugno 1924 n. 1054 - Testo Unico sul Consiglio di Stato - e art. 37 legge 6 dicembre 1971
n. 1034 - legge TAR-) per far sì che il privato, che abbia ottenuto una sentenza a lui favorevole nei
confronti della pubblica amministrazione, possa ottenerne l’esecuzione coattiva, nel caso
l’amministrazione soccombente non si adegui spontaneamente a quanto statuito nella pronuncia
giurisdizionale (come previsto dall’art. 88 del Regolamento di procedura del Consiglio di Stato). Si
tratta, quindi, di un presidio del principio di effettività della tutela giurisdizionale previsto dagli artt.
24, 101, 103 e 113 della Costituzione. La necessità di un tale strumento è naturalmente presente
solo con riferimento alle sentenze che, per produrre compiutamente i loro effetti nella realtà
giuridica o materiale, abbisognino di una qualche attività da parte dell’amministrazione, sia essa
attività giuridica (ad esempio rinnovamento del procedimento riguardante un’istanza di concessione
edilizia presentata da un privato, dopo che il precedente diniego sia stato annullato dal giudice
amministrativo) oppure attività meramente materiale (ad esempio lo sgombero e la riduzione in
pristino di un fondo che fosse stato precedentemente occupato dall’amministrazione con un atto di
occupazione che poi sia stato annullato in sede giurisdizionale). Sono quindi escluse tutte le
sentenze che siano autoesecutive, cioè che producano di per se stesse tutti i loro effetti (di natura
prettamente giuridica, naturalmente) come ad esempio quella che annulli un atto ablatorio che non
sia stato eseguito, perché sospeso dal giudice amministrativo: in tal caso l’annullamento del
PARTE I CAPITOLO I
5
provvedimento in questione reintegra esso stesso compiutamente il privato nei suoi diritti, senza
necessità di alcun’altra attività successiva da parte dell’amministrazione.
La matrice genetica del giudizio di ottemperanza può farsi risalire all’art. 4 comma II della legge 20
marzo 1865 n. 2248 all. E (legge c.d. abolitrice del contenzioso amministrativo) che prevedeva che
le pubbliche amministrazioni si dovessero conformare alla sentenza dei giudici ordinari che avesse
ritenuto illegittimo e, quindi disapplicato, un atto amministrativo lesivo di un diritto soggettivo. Un
tale adempimento che incombeva sull’amministrazione non era però coercibile in alcun modo, vale
a dire al privato che avesse interesse alla rimozione dell’atto in questione, l’ordinamento non
forniva alcuno strumento, giacché esso era rimesso al beneplacito dell’amministrazione obbligata 1.
Il rimedio ad una tale lacuna fu approntato dal legislatore con la legge 31 marzo 1889 n. 5992, cioè
la legge che segna l’introduzione nell’ordinamento della situazione giuridica soggettiva
dell’interesse legittimo e della connessa giurisdizione amministrativa, mediante l’istituzione della
IV sezione del Consiglio di Stato. Infatti, l’art. 4 n. 4 della legge appena citata prevedeva la
competenza anche nel merito della IV sezione per i giudizi proposti dal privato e diretti a
conseguire l’adeguamento dell’amministrazione al giudicato del giudice ordinario che avesse
dichiarato illegittimo un atto amministrativo. Una tale disposizione fu poi, in prosieguo di tempo,
riproposta immutata in vari atti legislativi, l’ultimo dei quali è l’art. 27 I comma n. 4 del Testo
Unico 26 giugno 1924 n. 1054, tuttora in vigore.
In tal modo il problema di dotare l’ordinamento di un mezzo di coercizione all’adempimento delle
sentenze che vedevano soccombente una pubblica amministrazione era risolto per quanto
riguardava le sentenze del giudice ordinario. Per quanto riguardava, invece, le sentenze emesse dal
giudice amministrativo e che abbisognassero di esecuzione, quest’ultima continuava ad essere
rimessa al buon volere dell’amministrazione, non essendo nell’ordinamento previsti rimedi
1
In generale sull’evoluzione storica del giudizio di ottemperanza si vedano L. Verrienti, Giudizio di ottemperanza, voce
del Digesto Disc. Pubbl., VII, 1991, 259-266 e V. Caianiello, Esecuzione delle sentenze nei confronti della pubblica
amministrazione, voce dell’Enc. Dir., Aggiornamento, III, 1999, 609-610.
PARTE I CAPITOLO I
6
giurisdizionali attivabili allo scopo. La situazione permarrà immutata sino alla fine degli anni ’20,
quando il Consiglio di Stato, con le decisioni della sez. IV, 9 marzo 1928, n. 181 e della sez. V, 13
marzo 1931, n. 1762, dichiarò ammissibile il giudizio di ottemperanza anche con riferimento alle
sentenze del giudice amministrativo. Si trattò di una innovazione di natura esclusivamente pretoria
che incontrò decise opposizioni in dottrina e che trovò il sostegno delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione solo all’inizio degli anni ’50 3.
Solo nel 1971, con la legge n. 1034, istitutiva dei tribunali amministrativi regionali, l’estensione del
giudizio di ottemperanza alle sentenze del giudice amministrativo trovò ratifica legislativa. Infatti,
l’art. 37 l. TAR al terzo comma prevede esplicitamente la competenza del Consiglio di Stato e dei
tribunali amministrativi regionali per l’esercizio dell’azione di ottemperanza con riferimento alle
sentenze emesse dagli stessi organi di giustizia amministrativa.
1.2 Carattere e natura giuridica del giudizio di ottemperanza.
La natura del giudizio di ottemperanza alle sentenze del giudice amministrativo è stata una delle
questioni più dibattute dalla dottrina. Si trattava (e si tratta) di stabilire se esso sia un procedimento
giurisdizionale rientrante nel concetto di giudizio di cognizione (disciplinato dal libro II del cod.
proc. civ. e volto a decidere la controversia sul piano sostanziale, cioè a definire la volontà della
legge nel caso concreto) ovvero in quello di giudizio di esecuzione (disciplinato dal libro III del
cod. proc. civ. e volto alla realizzazione concreta di quanto stabilito nel giudizio di cognizione, in
caso di mancato adempimento spontaneo del soccombente). La dottrina è sempre stata divisa tra chi
propende per la prima tesi e chi propende per la seconda, non senza un certo numero di autori che
sono inclini ad una tesi mediana, ovvero a vedervi un processo misto di cognizione e di esecuzione.
L’orientamento, che sembra risalente nel tempo, incline a vedere nel giudizio di ottemperanza un
giudizio di cognizione sottolinea, pur con peculiarità proprie a ciascun autore, l’assenza dei requisiti
2
Rispettivamente in Foro It., 1928, III, 102 e Foro It., 1931, III, 181.
3
Con la sentenza Cass. SS. UU., 8 luglio 1953, n. 2157, in Foro It., 1953, I, 1081.
PARTE I CAPITOLO I
7
che sarebbero necessari per ritenerlo un giudizio di esecuzione4. Così vi è stato chi5 ha sottolineato
come l’obbligo di ottemperanza incombente sull’amministrazione trovi la sua origine non nella
sentenza come atto giuridico, ma nella sentenza come fatto giuridico: è cioè la legge che lo fa
sorgere e non il giudicato di per se stesso. Ne conseguirebbe che tale obbligo deve essere precisato
nei suoi limiti e nelle modalità concrete, per mezzo dell’esplicazione di una funzione dichiarativa
dell’ampiezza e del modo di essere della norma sull’obbligo; che poi tale momento dichiarativo non
sia sufficiente, ma ad esso debba necessariamente accedere, per giungere ad una tutela completa
della situazione giuridica soggettiva del ricorrente vittorioso, anche un ulteriore momento di natura
costitutiva o di condanna, non muterebbe la sostanza della natura della pronuncia, che permane, in
via di principio, di natura dichiarativa.
Altri6 afferma, invece, che il concetto di esecuzione non è applicabile a sentenze costitutive quali
sono quelle amministrative. Il giudizio di ottemperanza sarebbe un giudizio di cognizione in cui il
giudice definisce ciò cui è obbligata l’amministrazione in seguito alla sentenza amministrativa e con
la sua pronuncia surroga gli atti da essa non adottati; perché tali effetti giuridici si convertano poi in
modificazioni della realtà sarà necessaria una ulteriore attività.
Più recentemente sembra prevalsa l’opinione che si tratti di un giudizio di esecuzione, osservando
come i necessari momenti di cognizione che sono ivi riscontrabili non siano sufficienti a obliterarne
la natura esecutiva. È ciò che rileva chi7 nota come la sentenza ottemperanda costituisca il titolo
esecutivo di cui necessità il processo esecutivo: infatti, ciò che deve essere eseguito è già
4
Come la mancanza di un titolo esecutivo e dei rimedi che ad esso sono relativi: così V. Andrioli, Esecuzione forzata
giurisdizionale ed esecuzione del giudicato amministrativo, in Atti del Convegno sull’adempimento del giudicato
amministrativo, Milano, Giuffrè, 1962, 197.
5
F. Benvenuti, Valore delle pronuncie ex art. 27 n. 4 Testo Unico Consiglio di Stato e loro esecuzione, in Atti del
Convegno sull’adempimento del giudicato amministrativo, cit., 243.
6
A. Torrente, Lo schema del processo esecutivo e l’esecuzione del giudicato amministrativo, in Atti del Convegno
sull’adempimento del giudicato amministrativo, cit., 177.
7
R. Villata, Riflessioni in tema di giudizio di ottemperanza e attività successiva alla sentenza di annullamento, in Dir.
proc. amm., 1989, 369.
PARTE I CAPITOLO I
8
determinato nella sentenza stessa. Le fasi cognitive che sono riscontrabili nel giudizio di
ottemperanza non sarebbero altro che degli incidenti di esecuzione, comuni anche al processo di
esecuzione disciplinato dal libro III del cod. proc. civ. Infatti, anche nell’ambito dell’esecuzione
processualcivilistica, fatta eccezione per l’esecuzione per espropriazione, l’esecuzione forzata non
consiste mai nella semplice trasposizione nella realtà fattuale delle disposizioni contenute nella
sentenza da eseguire, ma si hanno interventi del giudice per determinare in concreto quali siano gli
adempimenti e questo in particolar modo nell’esecuzione degli obblighi di fare o non fare. Ciò è
proprio quanto dispone l’art. 612 cod. proc. civ., secondo il quale il giudice determina in
contraddittorio con la parte obbligata le modalità di esecuzione di una sentenza per violazione di
obblighi di fare o di non fare8.
Infine, la riedizione del potere amministrativo non osterebbe alla ricostruzione come processo di
esecuzione, in quanto si tratterebbe della normale cooperazione richiesta ad ogni debitore9.
Non si manca, inoltre, di mettere in luce, in un’ottica maggiormente formalistico-strutturale e
teleologica, come il modus operandi del giudice dell’ottemperanza sia chiaramente riconducibile a
quello di un processo di esecuzione: fissazione del termine per adempiere, nomina del commissario,
esautoramento dell’amministrazione, esplicazione dell’attività sostitutiva; si ha, cioè, un
progressivo aumento della coercizione nei confronti dell’amministrazione inadempiente 10.
Un terzo orientamento, che definisce il giudizio di ottemperanza come un tertium genus, ovvero un
procedimento connotato dalla natura mista, di cognizione e di esecuzione insieme, sottolinea i casi
in cui la sentenza di cognizione non abbia definito in modo puntuale ed esaustivo ciò che debba
essere compiuto in sua esecuzione e quindi sia necessario che il giudice dell’ottemperanza la integri
individuando l’esatta volontà della legge nel caso concreto. In tale ipotesi, assieme ad una
8
In tal senso è molto chiaro A. Pajno, Il giudizio di ottemperanza come processo di esecuzione, in La Giustizia
amministrativa in Sicilia, Atti del Convegno, Milano, Giuffrè, 1988, 359.
9
R. Villata, Riflessioni, cit., 369.
10
M. Maffezzoni, Ancora sulla natura e funzione esclusivamente giurisdizionale del giudizio di ottemperanza, in Foro
Amm., 1987, 2857 ss.; V. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, III ed., Torino, Utet, 2003, 990.
PARTE I CAPITOLO I
9
necessaria attività esecutiva, una attività di cognizione, seppure limitata alla precisa
puntualizzazione degli adempimenti, è necessariamente presente ed anzi logicamente prodromica a
quella esecutiva: si presenta allora la fattispecie del giudicato a formazione progressiva11.
1.3 I presupposti.
1.3.1 Il presupposto del passaggio in giudicato della sentenza.
Per quanto riguarda il presupposto dell’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza per
l’adeguamento alla quale si aziona il giudizio di ottemperanza, la problematica che ha suscitato e la
sua evoluzione nel tempo, argomento strettamente connesso e parzialmente sovrapponentesi con
quello dell’innovazione normativa recata dall’art. 10 della legge n. 205 del 2000, si rinvia ai capitoli
2 e 3 di questa parte e all’intera parte seconda.
1.3.2 Nozione di inadempimento dell’amministrazione.
In via di principio, il problema è quello di stabilire se il rimedio del giudizio di ottemperanza sia
esperibile solo quando l’amministrazione, in relazione all’esecuzione della sentenza, opponga un
comportamento inerte oppure anche nell’ipotesi in cui sia stato emanato un atto e quindi sia
necessario verificarne la conformità al giudicato. Un tale problema ha presentato un’evoluzione
interpretativa che si è dipanata dall’introduzione del giudizio di ottemperanza anche per le sentenze
del giudice amministrativo12 fino ai giorni nostri.
In un primo periodo (fino alla fine degli anni ’60) la giurisprudenza sostenne che l’unico
11
Sul quale si veda più diffusamente il successivo paragrafo 1.3.2 del presente capitolo; tra i più autorevoli fautori di
questa tesi v. M. Nigro, Sulla natura giuridica del processo di cui all’art. 27 n. 4 della legge sul Consiglio di Stato , in
Rass. Dir. Pubbl., 1954, 228 e Il giudicato amministrativo e il processo di ottemperanza, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
1981, 1157; C. Calabrò, L’ottemperanza come “prosecuzione” del giudizio amministrativo , in Riv. trim. dir. pubbl.,
1981, 1167 ss.; S. Pelillo, Il giudizio di ottemperanza alle sentenze del giudice amministrativo, Milano, Giuffrè, 1990,
44 ss.; in particolare, M. Nigro, nel primo dei due saggi succitati aveva definito il giudizio di ottemperanza come
processo necessariamente di cognizione ed eventualmente di esecuzione, mentre nel secondo mutava parzialmente il
suo pensiero, invertendo l’importanza attribuita ai due elementi (cognizione ed esecuzione), in quanto lo definiva come
giudizio necessariamente di esecuzione ed eventualmente di cognizione.
12
Su cui cfr. il precedente § 1.1.
PARTE I CAPITOLO I
10
presupposto relativo all’inadempimento dell’amministrazione che desse ingresso al giudizio di
ottemperanza fosse l’inerzia oppure la esplicita dichiarazione dell’amministrazione di non voler
ottemperare; se, invece, fosse stato adottato dall’amministrazione un qualsiasi provvedimento in
asserita esecuzione del giudicato, il ricorrente vittorioso in sede di legittimità non poteva che
promuovere un nuovo giudizio di legittimità, impugnando il provvedimento emesso
dall’amministrazione soccombente 13.
Successivamente, la giurisprudenza, in risposta alle istanze di effettività della tutela giurisdizionale,
estese l’area di operatività del giudizio di ottemperanza alle ipotesi in cui l’atto assunto
dall’amministrazione abbia natura di atto meramente preparatorio o preliminare, sia un atto di
adempimento incompleto o parziale e quindi, in ultima analisi si tratti di atti elusivi del giudicato14.
Un tale orientamento finiva per individuare una dicotomia tra elusione del giudicato e violazione
del giudicato. L’elusione sarebbe caratterizzata da un atto che, pur avendo le apparenze di atto di
adempimento, ignorerebbe e trascurerebbe il sostanziale contenuto del giudicato e quindi
manifesterebbe la reale intenzione dell’amministrazione di sottrarsi ad esso (come, ad esempio, atti
preparatori, preliminari, istruttori, soprassessori), mentre per violazione si dovrebbe intendere
adozione di un atto formalmente e sostanzialmente diretto a dare esecuzione al giudicato, ma che
nondimeno risulta viziato. Nel primo caso il giudizio di ottemperanza sarebbe ammissibile in
quanto si integrerebbe l’inadempimento, mentre nel secondo caso, se il ricorrente vittorioso ritiene
l’atto non conforme al giudicato, avrebbe come unico rimedio a disposizione l’impugnazione con
ricorso ordinario dell’atto stesso. Una tale teoria “dicotomica” è stata, tra l’altro, recisamente
criticata in dottrina15 sulla base dell’osservazione che l’inadempimento dell’amministrazione è in
ogni caso inadempimento, a prescindere dal fatto che sia dovuto a malafede oppure sia, per così
13
In tal senso Cons. Stato, Ad. Pl., 27 ottobre 1969, n. 27, in Foro Amm., 1969, I, 2, 948.
14
Cons. Stato, Ad. Pl., 9 marzo 1973 n. 1, in Foro Amm., 1973, I, 203; Cons. Stato, Ad. Pl., 29 gennaio 1980, n. 2, in
Cons. St., 1980, I, 1.
15
Ad es. v. M. Nigro, Giustizia amministrativa, V ed., Bologna, Il Mulino, 2000, 325.
PARTE I CAPITOLO I
11
dire, obbiettivo, sia dovuto all’inerzia ovvero sia, semplicemente, incompleto o inesatto. La
conseguenza che ne viene è quindi che il giudizio di ottemperanza debba ritenersi ammissibile in
ogni caso di mancato adeguamento dell’amministrazione al disposto della sentenza.
Ed è ciò che poi è effettivamente avvenuto, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, quando una
parte consistente della giurisprudenza si orienta verso l’idea di ricomprendere nella nozione di
inadempimento qualsiasi provvedimento che, dietro l’ossequio formale alla sentenza, nasconda una
sostanziale violazione della pronuncia giurisdizionale, senza più distinguere tra atti elusivi e atti
violativi. Viene in tale contesto valorizzata e applicata anche all’agire dei pubblici poteri la nozione
civilistica di adempimento, che considera inadempimento anche l’adempimento parziale o
lacunoso: in tal senso sono attratte nel giudizio di ottemperanza le fattispecie in cui
l’amministrazione ponga in essere una esecuzione incompleta o parziale 16 o senza tener conto del
precetto contenuto nella sentenza ottemperanda17, oppure, ancora, che sia disancorata dall’esigenza
di soddisfare la pretesa riconosciuta in sentenza18, e i relativi atti sono considerati alla stregua di atti
nulli. L’indirizzo più recente ed estensivo identifica quindi l’inadempimento dell’amministrazione
con l’intero spettro del comportamento tenuto dall’amministrazione stessa relativamente al rapporto
controverso, reputando sempre ammissibile il giudizio di ottemperanza qualora il petitum
sostanziale del ricorso miri a far valere non la difformità dell’atto sopravvenuto
dell’amministrazione rispetto alla legge sostanziale (in tal caso occorrendo esperire l’ordinaria
azione di annullamento), ma la difformità specifica dell’atto stesso rispetto all’obbligo (di origine
processuale) di attenersi esattamente all’accertamento contenuto nella sentenza da eseguire 19.
16
Ad. es. Cons. Stato, sez. V, 20 maggio 1993, n. 603, in Cons. St., 1993, I, 672; Cons. Stato, sez. VI, 9 agosto 1996, n.
990, in Foro It., Repertorio, 1997, voce Giustizia amministrativa n. 1034; TAR Veneto, sez. I, 8 febbraio 1996, n. 156,
in Giorn. dir. amm., 1996, 1051, con nota di S. Cogliani, Atti elusivi del giudicato e giudizio di ottemperanza.
17
Cons. Stato, sez. VI, 3 febbraio 1992, n. 59, in Foro Amm., 1992, 541 e Giur. it., 1992, III, 580, con nota di A.
Verrando, Atti di elusione e atti di violazione del giudicato innanzi al giudice dell’ottemperanza: definitivo
superamento di una inutile dicotomia?
18
TAR Lombardia, Milano, sez. II, 2 dicembre 1991, n. 533, in Giur. It., 1992, III, 1011.
19
Tra le pronunce più recenti v. Cons. Stato, sez. VI, 20 luglio 2004, n. 5251, in www.giustizia-amministrativa.it; TAR
PARTE I CAPITOLO I
12
Opinando in tal modo si sono fatte talora rientrare nel giudizio di ottemperanza anche le censure di
illegittimità, per profili non pregiudicati dalla decisione ottemperanda, del provvedimento adottato
dall’amministrazione 20.
È importante notare, comunque, come la giurisprudenza non sia affatto concorde, dato che si hanno
pronunce, anche recenti, che affermano che gli atti successivamente emanati, per l’adozione dei
quali sia necessario esercitare poteri connotati da spazi di discrezionalità, sono soggetti all’ordinario
regime di impugnazione, anche quando si discostino dai criteri indicati in sentenza.21
È importante notare, inoltre, che di recente ha fatto la sua comparsa un indirizzo giurisprudenziale
che ammette il riespandersi del potere dell’amministrazione dopo il giudicato, negli spazi non
coperti da quest’ultimo, ma che non ammette un suo esercizio, per così dire, indefinito ed
immanente, ritenendo invece che, dopo il giudicato formatosi su una sentenza di annullamento di un
provvedimento di diniego, è onere dell’amministrazione riesaminare nella sua interezza la “pratica”,
con la conseguenza che, una volta adottato un secondo provvedimento di diniego, a sua volta
annullato, l’amministrazione stessa non può più adottare provvedimenti sfavorevoli per profili non
ancora esaminati, pena l’attrazione nel giudizio di ottemperanza della censura contro il nuovo
diniego22. Un tale ultimo orientamento sembra fortemente suffragato dalla recente legge n. 15
Lazio, Roma, sez. II; 24 aprile 2002, n. 3571, in www.dirittoitalia.it; TAR Lazio, Roma, sez. III ter, 3 aprile 2002, n.
2722, in www.dirittoitalia.it; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 25 novembre 2002, n. 6575, in TAR, 2003, I, 442; TAR Veneto,
sez. II, 21 maggio 2003, n. 2975, in www.dirittoitalia.it; Cons. Stato, sez. IV, 29 agosto 2001, n. 4568, in Foro It., 2002,
III, 124, con nota di P.F. La Spina, Avanzamento degli ufficiali e (limiti alla) esecuzione del giudicato di annullamento
del giudizio; più risalente nel tempo TAR Campania, sez. III, 21 luglio 1995, n. 536, in Foro Amm., 1996, 1040, con
nota di P. Carpentieri, Giudicato e atti successivi dell’amministrazione tra ottemperanza e azione impugnatoria
ordinaria.
20
Cons. Giust. Amm. Sicilia, 29 ottobre 1994, n. 406, in Mass. Cons. Stato, 1994, 479.
21
Cons. Stato, sez. V, 16 settembre 2004, n. 6047, in www.giustizia-amministrativa.it; TAR Marche, 3 febbraio 2004, n.
61, in www.giustizia-amministrativa.it; TAR Lazio, sez. II bis, 20 febbraio 2002, n. 1195, in www.giustizia-
amministrativa.it; Cons. Stato, sez. V, 20 aprile 2003, n. 2197, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. IV,
21 maggio 2004, n. 3347, in www.giustizia-amministrativa.it.
22
Cons. Stato, sez. V, 6 febbraio 1999, n. 134, in Foro It., 1999, III, 166 e in Urb. App., 1999, 1229, con nota di A.
Russo, La frontiera dell’ottemperanza verso una vera effettività della tutela giurisdizionale ; TAR Puglia, Lecce, sez. I,
7 febbraio 2002, n. 842, in Urb. App., 2002, 955, con nota di G. De Giorgi Cezzi, Sulla “inesauribilità” del potere
PARTE I CAPITOLO I
13
dell’11 febbraio 2005 che ha introdotto un articolo 21 septies nella legge n. 241/1990 sul
procedimento amministrativo che definisce nulli i provvedimenti assunti dall’amministrazione in
elusione o violazione del giudicato.
1.3.3 Il giudizio di ottemperanza e le sentenze di condanna pecuniaria.
Fino all’inizio degli anni ’70 la giurisprudenza prevalente non ammetteva il ricorso al giudizio di
ottemperanza per l’esecuzione delle sentenze che condannassero una pubblica amministrazione al
pagamento di una somma di denaro, ma la soddisfazione di una tale tipologia di sentenze era
rimessa alla comune procedimento civilistico di esecuzione forzata, disciplinato dal libro III del
codice di procedura civile.
Un tale indirizzo venne, tuttavia, successivamente superato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato23, che ammise l’esperibilità del giudizio di ottemperanza anche con riferimento a sentenze di
condanna al pagamento di un debito pecuniario ed ammise la concorrenza dei due rimedi (giudizio
di ottemperanza amministrativistico e giudizio di esecuzione processualcivilistico), a scelta del
creditore.
Più articolata è apparsa, invece, la posizione della Corte di Cassazione, la quale ha seguito, in
maniera eclettica, tre orientamenti diversi24:
a) concorrenza dei due rimedi del giudizio di ottemperanza e dell’esecuzione forzata civilistica solo
in caso di esecuzione che comporti provvedimenti discrezionali da parte dell’amministrazione 25.
amministrativo.
23
Cons. Stato, Ad. Pl., 9 marzo 1973, n. 1, in Foro Amm., 1973, I, 203; indirizzo poi mantenuto costantemente dalla
giurisprudenza del giudice amministrativo: v. di recente TAR Lazio, sez. III, 29 ottobre 2003, n. 9142, in
www.giustizia-amministrativa.it.
24
Cfr. G. Sigismondi, Commento all’art. 8, in Travi A. (a cura di), Commentario alla L. 21 luglio 2000 n. 205, in Le
nuove leggi civili commentate, 2001, 649.
25
Cass., SS. UU., 13 luglio 1979, n. 4071, in Foro It., 1979, I, c. 1979, con osservazioni di Barone; Cass., SS. UU., 14
febbraio 1987, n. 4609, in Foro It., 1987, I, c. 2149 e Dir. proc. amm., 1988, 447 con nota di Formentin, Limiti veri e
presunti del giudizio di ottemperanza nei confronti di sentenze di condanna pecuniaria contro la pubblica
amministrazione.
PARTE I CAPITOLO I
14
Poiché nella fattispecie del pagamento di somma di denaro non sarebbero rinvenibili margini di
discrezionalità, risulterebbe ammissibile esclusivamente la procedura dell’esecuzione forzata a
norma del codice di procedura civile.
b) concorrenza dei due procedimenti giurisdizionali in ogni caso26, con l’obbiettivo di garantire la
maggiore effettività possibile della tutela giurisdizionale concretatasi nella sentenza di condanna;
c) concorrenza dei due procedimenti giurisdizionali solo in presenza di tre condizioni27 e cioè:
c.1) che il creditore chieda l’emissione dei provvedimenti necessari per il pagamento;
c.2) che i provvedimenti suddetti comportino la scelta tra soluzioni alternative;
c.3) che i provvedimenti in discorso non siano atti dovuti.
Secondo tale linea interpretativa non è ammissibile l’azionamento del giudizio di ottemperanza nel
caso in cui, ad esempio, l’amministrazione abbia provveduto all’iscrizione in bilancio del debito e
all’emissione del relativo mandato, ma non abbia proceduto al materiale pagamento; al creditore,
rimarrebbe quindi, quale unico rimedio esecutivo, il giudizio di esecuzione civilistico.
Dopo le riforme introdotte dal D. Lgs. 31 marzo 1998, n. 80 e dalla legge 21 luglio 2000 n. 205, la
dottrina28 si è posta il problema di ridefinire il rapporto tra il giudizio di ottemperanza e
l’esecuzione forzata civilistica, dato che l’art. 37 comma III della legge TAR ammette in via
generale il rimedio del giudizio di ottemperanza, ivi comprese, quindi, anche le sentenze di
condanna al pagamento di somme di denaro e che le novelle succitate hanno portato ad
un’estensione considerevole dell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (a
norma degli artt. 33 e 34 del D. Lgs. n. 80 del 1998, poi riformulati dall’art. 7 della legge n. 205 cit.,
26
Cass., SS. UU., 9 marzo 1981, n. 1299, in Foro It., 1981, I, 636, con osservazioni di Barone e in Foro Amm., 1981,
1575 con osservazioni di Farina, In tema di giudizio di ottemperanza; più di recente v. Cass., SS. UU., 7 dicembre 1993,
n. 12060, in Mass. Giust. Civ., 1993 (con riferimento ad una decisione del Consiglio di Stato in materia di pubblico
impiego).
27
Cass., SS. UU., 3 febbraio 1988, n. 1074, in Foro It., 1989, I, 853, con osservazioni di A. Romano.
28
G. Sigismondi, Commento all’art. 8 , cit., 649.
PARTE I CAPITOLO I
15
anche se da ultimo la Corte Costituzionale con la sent. n. 204/200429 ne ha parzialmente limitato
l’estensione).
In particolare, sono state enucleati due ordini di problemi:
a) l’estensione della giurisdizione esclusiva potrebbe portare a superare definitivamente ogni
pregiudizio sul carattere preferenziale di uno dei due strumenti rispetto all’altro: infatti, in caso di
pretese identiche, non è razionale che la possibilità di ottenere o meno una data tutela debba
dipendere dal giudice competente. Ne verrebbe che l’orientamento più restrittivo della Corte di
Cassazione dovrebbe essere abbandonato;
b) il processo esecutivo civilistico acquisisce una importanza fondamentale anche per l’esecuzione
delle decisioni del giudice amministrativo, atteso che l’opzione del giudizio di ottemperanza non è
praticabile nei casi in cui la parte resistente sia un soggetto privato. Ciò avvalora l’opzione
interpretativa che ammette la sostanziale parità dei due rimedi: la parte vittoriosa deve poter
scegliere il rimedio che consenta la maggiore tutela, indipendentemente dal giudice che ha emesso
la sentenza della cui esecuzione si tratta. Una conseguenza di tale osservazione è quella della
necessità di garantire, anche per questo verso, il contraddittorio nel giudizio di ottemperanza30.
1.4 La competenza.
L’art. 37 L. TAR delinea la distribuzione della competenza per i giudizi di ottemperanza. Per
quanto riguarda il giudizio di ottemperanza alle sentenze del giudice ordinario, la competenza spetta
al TAR quando l’amministrazione chiamata ad ottemperare eserciti la sua attività esclusivamente
nell’ambito della circoscrizione territoriale dello stesso tribunale amministrativo, mentre spetta al
Consiglio di Stato qualora detta attività esorbiti da tale ambito (commi I e II).
29
Corte Cost., 6 luglio 2004, n. 204, in www.cortecostituzionale.it.
30
Su cui cfr. il successivo § 1.5 di questo capitolo.