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addicono ad un evento in ogni caso sempre molto doloroso, che richiede partecipazione e non
condanna, discrezione ma non silenzio.
Per molti secoli, speculazioni e superstizioni sul suicidio si sono intersecate variamente con codici
giuridici, morali, religiosi e filosofici. Solo tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX, quando la
metodologia scientifica iniziava ad imporsi, Emile Durkheim e Sigmund Freud cominciarono a
disperdere e contrastare seriamente credenze arcaiche e ad aprire più obiettive vie per lo studio del
suicidio. Il panorama che venne ridisegnato abbracciava molte discipline: epidemiologi, statistici,
sociologi, psichiatri, psicologi diventarono sempre più consapevoli dell'importanza del suicidio
come causa di morte. Anche oggi più che mai, le dimensioni e la complessità del problema sono
tali da non poter essere demarcate e limitate all'interno di una singola disciplina.
Il passaggio del suicidio dall'area morale e religiosa a quella scientifica, sociologica e
psicologica, si accompagna ad un'importante trasformazione del modo cognitivo ed emotivo
con cui suicidio e suicida sono percepiti: all'orrore per il peccatore e alla sua persecuzione, si
sostituisce in larga misura la pena e la compassione, pur sempre accompagnati da un
sentimento di più o meno consapevole ostilità. Il cambiamento di area di interesse e di
spiegazione ha avuto, dunque, incontestabili vantaggi, ma ha anche comportato un altro tipo
di ghettizzazione della condotta suicidaria, che spesso viene ora stigmatizzata come un segno
manifesto di malattia mentale: il suicida viene considerato un folle, pericoloso per sé e per gli
altri, privato di una sua autentica volontà suicidaria e considerato non responsabile del suo
gesto (attraverso questa sottile ma fondamentale mistificazione la chiesa ammette ora il
suicida). Non a caso, una delle questioni aperte nel dibattito contemporaneo in tema di morte
volontaria è fra i sostenitori della malattia alla base del gesto e quelli che vi vogliono vedere
invece una libera scelta. L’attuale tendenza a confinare il suicidio nell'area della
psicopatologia affonda le sue radici nel peccato, in cui riaffiora l'antico primato della ragione
e della volontà sulle emozioni.
Il suicida è passato dall’essere oggetto del giudizio morale a quello di una più matura
ortodossia scientifica, senza però che ogni pur lodevole tentativo di comprenderne la natura
sia riuscito ad eliminare i limiti metodologici più grossolani, o abbia evitato risultati
contraddittori. Il suicida sfugge spesso allo sforzo di incasellamento tassonomico e di riduzione
causalistica del suo gesto: rappresenta uno scacco matto non solo per le regole della razionalità
scientifica ma anche, e soprattutto, per i familiari, per gli amici, per chiunque gli sia stato
vicino, per chi lo ha avuto in cura o ha tentato di aiutarlo.
Aldilà delle considerazioni storiche e filosofiche, il nostro interesse per il suicidio ci ha
portato a riflettere anche sulla sua ambiguità e paradossalità psicologica: da una parte appare
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come una delle azioni più personali che un individuo possa compiere, dall’altra si è sempre
verificato lungo tutta la storia dell’uomo, in tutte le culture e in tutte le società, anche se con
frequenze assai diverse e variabili nel tempo. Anche se conosciamo molto, sia nell'area
dell'epidemiologia sia nell'area clinica o nella ricerca psichiatrica, sul “cosa” e “come” del
comportamento suicidario, ancora poco sappiamo sui “perché”. Il nucleo di imprevedibilità e
insieme di ineluttabilità, dolorosa e spesso tragica, del suicidio, che contribuisce
probabilmente non poco a rivestirlo di un certo tabù, rappresenta uno stimolo anche dal punto
di vista della prevenzione e previsione psicodiagnostica.
Il fatto che rappresenti una vera e propria emergenza sanitaria in tutto il mondo (secondo
l’OMS, circa un milione di persone nel mondo si sono tolte la vita nel corso dell’anno 2000,
la mortalità per suicidio negli ultimi 45 anni è cresciuta del 60%, i tassi suicidari continuano a
presentare un andamento correlato all’aumentare dell’età, ma già in molti Paesi le fasce
giovanili dai 15 ai 25 anni indicano incrementi dei tassi superiori a quelli degli anziani) ci ha
indotto a riflettere sul problema della possibilità di psicodiagnosi di un problema così grave e,
nello stesso tempo, così delicato. La sua predizione rappresenta ancora oggi uno degli aspetti
più difficili sia della clinica sia della ricerca, non essendosi ancora individuato un
“comportamento suicidario” definito e deducibile. Il suicidio può rappresentare l’esito
infausto di alcune gravi patologie psichiatriche (prima fra tutte la depressione), ma può anche
presentarsi all’interno di patologie nevrotiche, o costituire un fattore di rischio in alcuni
momenti cruciali della vita o in alcune fasi di età, come l’adolescenza e la vecchiaia.
L’aspetto inquietante del suicidio consiste proprio nella sua trasversalità sia socio-geografica
(può capitare in ogni luogo ed in ogni strato sociale) sia nosografica, nonché la sua relativa
imprevedibilità. Tutti, di solito, ci sorprendiamo nel leggere che qualcuno che conosciamo si è
tolto la vita o ha tentato di farlo, e la comune reazione di amici e familiari è la perplessità e lo
stupore (“non lo avrei mai detto”).
In che misura, dunque, il suicidio è un evento prevedibile dal punto di vista psicodiagnostico?
In particolare, quali fenomeni e risposte particolari al test di Rorschach rappresentano
specifici segnali d’allarme per il clinico della potenzialità suicidaria? Oltre agli studi storici
degli anni ’60 e ‘70, ci sono contributi recenti significativi nella letteratura Rorschach sulla
valutazione del rischio di suicidio?
Il presente lavoro è diviso in due parti. La Prima parte serve come cornice teorica sul tema
del suicidio in generale. Il primo capitolo è dedicato al problema delle definizioni dello
spettro suicidario; il secondo ai più comuni fattori predisponenti e precipitanti
sociodemografici; il terzo alla discussa relazione tra fenomeni suicidari e psicopatologie; il
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quarto tratta del tema dal punto di vista psicoanalitico e nell’opera del suicidologo Edwin
Shneidman.
Nella Seconda parte l’attenzione è centrata sull’identificazione e sulla predittività al test di
Rorschach del rischio suicidio, a partire dai problemi metodologici di ricerca e clinici
(capitolo 5), sono analizzati gli studi storici a segno singolo Rorschach (capitolo 6), gli studi
a segno multiplo (capitolo 7) e i contenuti più frequenti presenti nei protocolli (capitolo 8).
In Appendice sono analizzate le più diffuse scale psicometriche per la valutazione del
rischio suicidario, infine le Conclusioni, la Bibliografia e i siti consultati.
Desidero ringraziare il personale della Biblioteca “Federico Kiesow” della Facoltà di
Psicologia dell’Università degli Studi di Torino che mi ha assistito nella ricerca degli articoli
in inglese sul test di Rorschach; il Centro di ricerca e documentazione sulla morte e il morire
della Fondazione Ariodante Fabretti per la preziosa collaborazione ai contenuti della Prima
parte; Armando Molari e Flavia Melidoni che hanno dato i loro contributi critici durante
l’elaborazione della Tesi; infine, la mia famiglia, cui dedico idealmente questo lavoro, che mi
ha sostenuto durante tutto l’iter universitario e a cui devo gran parte della mia crescita
personale e professionale.
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PARTE PRIMA
ASPETTI GENERALI DEL SUICIDIO
“Né il sole né la morte possono essere guardati fissamente”.
Francois La Rochefoucauld, Massime (1664)
“Non ci si uccide per amore di una donna. Ci
si uccide perché un amore, qualunque amore,
ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità,
nulla”.
Lettera tratta dal diario Il mestiere di
vivere (1952), scritta il 25 marzo da
Cesare Pavese, poi morto suicida nella
notte tra il 27 e il 28 agosto 1950, all’età
di 42 anni.
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Capitolo 1. Definizione dei fenomeni suicidari
Nessuno s'aspetta che definire o classificare il suicidio sia cosa semplice, poiché finiscono per
confluire troppe motivazioni sconosciute, fattori psicologici complessi e circostanze incerte
perché la sua definizione possa entrare in categorie precise. Le definizioni e i sistemi di
classificazione del suicidio rimangono, perciò, molto vari, controversi e soggetti a continua
rielaborazione. Tutti i sistemi di classificazione e nomenclatura del suicidio sono in maggiore
o minor misura difettosi; d'altra parte, molti presentano specifici punti di vista e aspetti
originali.
I problemi nei quali ci s’imbatte nell’analizzare scientificamente il fenomeno del suicidio
sono molteplici, i primi dei quali riguardano la definizione stessa. Il termine “suicidio” è la
versione italiana di suicide, vocabolo francese coniato nel 1700 sul modello di homicide,
composto da sui- (dal pronome riflessivo latino “sui”, di sé
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) e da –cide (dal sostantivo latino
“caedes”, uccisione). Non ci sono dubbi dunque sul fatto che letteralmente “suicidio”
significhi “uccisione di sé”.
Mentre l’etimologia della parola è univoca, non risulta altrettanto facile esaminare le
definizioni scientifiche di “suicidio”, vale a dire i tentativi fondati su principi teorici e criteri
logici di precisare cosa correttamente si possa intendere per “suicidio”, delimitando in questo
modo il campo d'indagine sul fenomeno: fra le definizioni di cui attualmente si dispone non
esiste, infatti, omogeneità, in gran parte a causa delle differenti teorie e discipline degli
studiosi che le hanno elaborate.
1. Definizioni di suicidio
Le definizioni di suicidio attualmente esistenti possono essere suddivise in due grandi
categorie. Alla prima appartengono quelle che limitano l'uso del termine alle “uccisioni di sé”
volontarie, agli atti attraverso i quali un individuo consapevolmente, intenzionalmente si
procura la morte; alla seconda invece appartengono le definizioni che includono nella
nozione di suicidio anche quelle morti che tradiscono la presenza di un impulso inconscio
ad uccidersi.
La prima categoria comprende la maggior parte delle definizioni di suicidio esistenti.
Prendiamo in considerazione la più classica e citata definizione, quella formulata da Emile
1
È significativo notare che “venne anche attribuita un’etimologia fantasiosa che faceva risalire il prefisso sui-
non al reale significato di di se stesso, ma di sus, maiale, indicando l’animalità del gesto” (Tondo, 2000, p. 18).
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Durkheim, uno dei padri della sociologia moderna: “Si chiama suicidio ogni caso di morte che
risulti direttamente o indirettamente da un atto positivo o negativo, compiuto dalla vittima
stessa consapevole di produrre questo risultato” (Durkheim, 1897, p. 168).
Questa definizione ci pone di fronte ad alcuni problemi. Da una parte, infatti, essa supera
qualsiasi tipo di giudizio di valore sull'atto, dall'altra, però, pone tutta una serie di rigide
limitazioni: per prima cosa restringe il termine “suicidio” a tutti quei casi in cui l'effetto
finale sia l'effettiva morte della persona, in altre parole definisce il suicidio a partire dal
risultato; ma ne ricava un’immagine distorta poiché “la morte non è che uno dei possibili
risultati di un pensiero o di una volontà suicida. Quindi il problema che si solleva è se
l'individuo che aveva una volontà di essere morto differisce da quello che aveva volontà di
essere morto e nel contempo raggiunge la morte” (Farmer, 1988, p. 18).
In effetti, se, pur essendoci la volontà di morire, non si raggiunge la morte, ci si trova davanti
ad una situazione che non può essere considerata in modo univoco, poiché potrebbe essere
il frutto di un evento fortuito, del tutto casuale, come potrebbe invece comportare la
presenza di altri fattori, conseguenti ad una volontà non realmente determinata o
ambivalente. Questo problema, molto dibattuto e lungi dall'essere risolto, costituisce il
motivo per cui al termine “suicidio” si sono via via affiancati altri termini quali “tentato
suicidio”, “suicidio mancato” e “parasuicidio”.
Ma non è questa l'unica critica che è stata mossa alla definizione di Durkheim: l’espressione
“consapevole di produrre questo risultato” rivela una concezione interamente razionalista dove
il comportamento di ogni uomo è a lui trasparente, ridotto ad una coscienza lucida ed una
precisa determinazione, implica una profondità di conoscenze e certezza degli effetti del
metodo adottato, mentre non sempre si può pretendere che la lucidità mentale sia un elemento
costitutivo del suicidio.
Più recentemente, Edwin Shneidman, che da almeno trent’anni si occupa espressamente di
suicidio, presta attenzione anche alle variabili socioculturali e storiche che intervengono nella
definizione di suicidio e rileva che “correntemente nel mondo occidentale il suicidio è un atto
consapevole di annichilimento autoindotto, meglio compreso come un malessere
multidimensionale all'interno di un bisogno individuale che definisce un problema per il quale
il suicidio è percepito come la migliore soluzione” (Shneidman, 1989, pp. 17-18).
In ogni caso, ciascuna definizione solleva questioni particolari (ad esempio, il fatto che il
suicida sia una “vittima”, come risulta dalla definizione di Durkheim, oppure che il suicidio
scaturisca da una forma di malessere piuttosto che da una malattia, come emerge da quella
di Shneidman), ma tutte ruotano intorno al concetto di intenzione consapevole.
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Invece, della seconda categoria fanno parte quelle definizioni di suicidio elaborate da studiosi,
in genere di scuola psicoanalitica, che sostengono il ruolo preponderante delle motivazioni
inconsce nella determinazione dell'atto suicida. Perciò, la consapevolezza del suicida
rappresenta un tentativo di difesa nei confronti del progredire del processo intrapsichico
inconscio diretto all'uccisione di sé più che una condizione necessaria perché si possa
parlare di suicidio. Deshaies, ad esempio, definisce il suicidio come l'”atto di uccidersi in
modo abitualmente [e quindi non esclusivamente] cosciente assumendo la morte come
mezzo o fine” (Deshaies, 1947, p. 14), mentre Haim giunge a concludere che “sembra
evidente che esso escluda il criterio di coscienza e d'intenzione, ma che includa la nozione di
atto” (Haim, 1973, p. 159) e che “il suicidio incosciente è dunque un autentico suicidio così
come il suicidio cosciente” (Haim, 1973, p. 256).
Definite “equivalenti suicidari” anche le morti apparentemente accidentali e involontarie
(come automutilazioni, ricerca continua di operazioni chirurgiche, anoressia mentale,
tossicomanie, alcoolismo, incidenti stradali e altri comportamenti a rischio per la vita)
potrebbero essere il prodotto di un impulso inconscio ad uccidersi senza una chiara e
consapevole intenzionalità di morte o autodistruzione.
Messe a confronto, le definizioni dell'una e dell'altra categoria risultano evidentemente
contrastanti. Quelle che si fondano sul criterio di intenzionalità suicida pongono il problema
di individuare la volontarietà dell'atto, poiché, tranne nei casi in cui il soggetto suicida lasci un
messaggio per spiegare il perché del suo gesto (ciò accade solo nel 15% circa dei casi), non
è facile risalire alla motivazione conscia di un suicidio, né in modo diretto (tentati suicidi
falliti), né tantomeno indiretto (familiari e curanti).
Se le definizioni della prima categoria possono risultare dunque restrittive (poiché non
tengono conto del fatto che talvolta nell'atto suicida si riscontra un'ambivalenza tra desiderio
di vivere e desiderio di morire spesso vagamente riconosciuto), quelle della seconda possono
presentare il problema opposto: se, infatti, si considerano come suicidi anche alcuni incidenti
e automutilazioni, il rischio che si corre è quello di includere nella categoria degli atti suicidi
tutte quelle morti non intenzionali, nemmeno inconsciamente.
Si può dunque dire che paradossalmente le definizioni di entrambe le categorie, sia prese
singolarmente sia messe a confronto, invece di precisare la natura e i caratteri del suicidio ci
restituiscono il fenomeno nella sua elusività e complessità. Le differenti posizioni assunte
dagli studiosi sulla definizione di suicidio consentono di sottolineare che “esiste tutta una
gradualità nelle condotte e nei comportamenti genericamente definiti autolesivi, che si estende
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dall’omissione delle norme di vita ritenute efficaci per conservare l'integrità fisica e psichica,
fino alla radicalità del suicidio” (Cazzullo et al., 1987, p. 7).
Kreitman giunge ad affermare che una definizione ideale di suicidio non è possibile, poiché
“mentre la motivazione è certamente centrale nella designazione di una morte come suicidio [...], noi
non siamo in possesso di una chiara teoria della motivazione. Non c'è una visione generalmente
accettata su quali tipi di motivazione ha la gente, su come trattare con i determinanti non consci delle
azioni, di come distinguere chiaramente i fini immediati da quelli ultimi, o di come pensare alle
gerarchie delle motivazioni, o come rendere operative le nostre definizioni. È un problema generale e
non è specifico del suicidio” (Kreitman, 1988, p. 843).
Appare chiara la problematicità di una definizione che accomuni in un'unica categoria sia i
suicidi provocati da un atto compiuto, sia da un atto mancato o subito, sia quei
comportamenti che conducono direttamente alla morte, sia quelli che vi conducono
indirettamente. D’altronde, quando parliamo di intenzionalità e motivazione, entriamo in
“quell'ampio spettro che abbraccia dalla visione intellettuale agli impulsi oscuri e istintuali
immanenti all'individuo” (Holderegger, 1977, p. 42).
La definizione di suicidio contenuta nell'espressione “uccisione di se stesso” delimita bene
l'accadere degli eventi suicidari in rapporto alla persona, eliminandone ogni riferimento
ambiguo relativo sia all'omicidio sia all'eventuale accidentalità della morte.
Per quanto concerne, invece, i moventi ideali consci o inconsci del suicidio, le difficoltà si
presentano perché ogni indirizzo di studio ci offre la sua definizione di suicidio, ponendo
l'accento su di uno o su di un altro degli aspetti dell'azione suicida. Si dovrebbe, quindi,
considerare suicidio quanto accade alla fine di un'azione fatta intenzionalmente e che ha per
fine inesorabile la morte, escludendo, per quanto possibile, tutto quanto si presenta sospetto,
non chiaro ed ambiguo.
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2. Suicidio e tentato suicidio
Un'ulteriore fondamentale questione inerente la delimitazione del campo d'indagine sul
fenomeno riguarda il rapporto tra suicidio e tentativo di suicidio. Innanzitutto, bisogna
fugare ogni pregiudizio circa tali tentativi ribadendo con il sociologo francese Patrick che
“ogni tentativo di suicidio è serio […] una persona su cinque tra coloro che tentano il
suicidio viene gravemente o molto gravemente lesa. Nel 40% dei casi si registra la
recidiva. Non è dunque il caso di parlare di ‘falsi’ suicidi” (Baudry, 1985, pp. 21-22). Anche
il più banale tentativo di suicidio deve essere considerato seriamente e mai sottovalutato,
dato che esiste un'essenziale sovrapposizione fra coloro che tentano il suicidio e coloro che
riescono a commetterlo (a lungo termine, il 10-15% di coloro che tentano il suicidio riuscirà
infine nel proprio intento).
Tra gli autori che più hanno indagato il rapporto tra suicidi e tentati suicidi vi è Stengel, che
si oppone all’impostazione secondo cui tutti gli atti suicidi genuini mirino esclusivamente
alla morte, mentre “molti tentativi di suicidi e parecchi suicidi vengono compiuti nello stato d'animo
di ‘non m'importa se vivo o muoio’ piuttosto che con una chiara e inequivocabile determinazione a
por fine alla propria vita. [...] La maggior parte delle persone, nel momento in cui compie un atto
suicida, è in uno stato di confusione” (Stengel, 1964, p. 80).
Stengel sottolinea quindi come il tentato suicidio sia ben lungi da essere un fenomeno
univoco e dal chiaro significato. Anche Shneidman, ad esempio, classifica gli atti suicidari non
fatali secondo le affermazioni della persona stessa in: intenzionato e consapevole,
subintenzionato (indiretto o inconscio), non intenzionato, controintenzionato.
Il tentato suicidio quindi è un'azione complessa con funzioni verosimilmente molteplici. Una
può essere il desiderio di provocare un cambiamento nella situazione, di fuggire, di cercare
sollievo e riposo, tanto che molti soggetti, prima e durante l'azione suicida, non riflettono
affatto sulla problematica della morte. Altre funzioni, sottolineate da Stengel, sarebbero quella
di appello, di richiamo per lo più inconscio, allo scopo di suscitare l'attenzione dell'ambiente,
l'intervento e la sollecitudine degli altri (il cosiddetto tentato suicidio dimostrativo o
manipolatorio). Stengel conclude che “la maggior parte delle persone che compie atti suicidi
non vuole né morire né vivere; vuole fare le due cose nello stesso tempo” (Stengel, 1964, p.
85).
In ogni caso, i tentati suicidi hanno un significato diverso dal suicidio riuscito e/o fallito: se il
suicidio, infatti, è un gesto definitivo contro se stessi sostenuto da una motivazione consapevole
di morte, il tentato suicidio sarebbe gesto contro gli altri, una richiesta di aiuto e la morte un
risultato non voluto.