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capitolo. Si è cercato di vedere quante e quali informazioni potessero essere
profittevolmente sviscerate in questo contesto, utilizzando unicamente le fonti
descritte precedentemente. Il terzo ed ultimo capitolo è un’analisi del metodo
utilizzato per scrivere l’esempio proposto. Si andranno quindi a considerare
nuovamente i vari mezzi di reperimento delle informazioni, indicando per ognuna
quando e quanto essa si sia rivelata utile ovvero fuorviante. Si parlerà poi dei problemi
riscontrati in corso d’opera, traendone infine le debite conclusioni.
Al termine del lavoro ci si sente di osservare che si sono riscontrati numerosi ed
interessanti spunti di riflessione. Alcune conclusioni alle quali siamo giunti ci
consentono di indicare, nel metodo analizzato, uno strumento potenzialmente valido
che può affiancare quelli più comunemente utilizzati, fatte salve però le considerazioni
relative alle problematiche che questa scelta comporta. Inoltre, crediamo che quanto
detto in materia di diverse fonti di informazioni possa risultare variamente utile,
poiché si è cercato di analizzarle in maniera generale, non cristallizzandoci cioè nel
solo esempio proposto.
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CAPITOLO I
LO STUDIO DI UN CASO AZIENDALE
FONDATO SU DATI DI DOMINIO PUBBLICO
1.1 INTRODUZIONE
Nel tempo, l’utilizzo del “caso aziendale” si è evoluto in maniera molto
profonda. Esso non è solo uno strumento di analisi e di ricerca finalizzato alla
risoluzione di problematiche, ma anche un valido metodo di studio che può essere
variamente applicato. Si pensi, ad esempio, all’insegnamento universitario, piuttosto
che all’analisi comparativa che un’impresa può voler fare riguardante una situazione,
simile alla propria, occorsa ad altri. O ancora, allo studio di un settore di mercato
partendo dall’analisi di uno o più concorrenti, oppure alla tesi di laurea finalizzata
all’applicazione di determinate teorie economiche.
Inteso come approccio distinto alla ricerca, il caso di studio è stato usato fin
dall’inizio del ventesimo secolo1. Inizialmente era utilizzato soprattutto in Francia, e
1
Fonte: Tellis W. – Introduction to case study, http://www.nova.edu/ssss/QR/QR3-2/tellis1.html
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negli Stati Uniti ne è stato precursore il Dipartimento di Sociologia della Chicago
University (dall’inizio del ‘900). Solo successivamente è stato però riconosciuto come
metodo di ricerca vero e proprio. La prima traccia di questo riconoscimento si trova
nell’ Oxford English Dictionary, che definisce il lemma “case study” (o case-study)
nel 1934, a latere del concetto di case history in medicina. L’uso del caso di studio per
la creazione di nuove teorie nelle scienze sociali è stato successivamente sviluppato
dai sociologi B. Glaser e A. Strauss, che hanno presentato il loro metodo di ricerca,
Grounded Theory, nel 1967. La popolarità del caso di studio come metodo di ricerca è
esplosa solo negli ultimi decenni. Assieme a questa popolarità si è però diffusa anche
quella che è stata la maggior critica al metodo: il fatto di prendere in considerazione
un singolo caso, secondo alcuni studiosi [Giddens, 1984] renderebbe il metodo
incapace di raggiungere delle conclusioni generali, in quanto tende al “microscopico”
invece che al “macroscopico”. Queste critiche sono state superate soprattutto con i
contributi di Hamel [1993] e Yin [1984, 1989, 1993, 1994], i quali hanno a più riprese
affermato che lo studio di una molteplicità di casi non rende ipso facto la conclusione
generale; ma al contrario il caso di studio è una metodologia valida perché inteso alla
ricerca di parametri applicabili in senso macroscopico. In questo senso, il caso di
studio può essere visto come metodo per rispondere alle necessità dello studio
qualitativo: descrivere, capire e spiegare. Oltre all’ambito economico, è molto usato in
quello legale e soprattutto sociologico.
Con una semplice ricerca in internet, è facile trovare un elevato numero di
articoli (soprattutto in lingua inglese) su come scrivere un caso aziendale. Ci siamo
soffermati in particolare su un interessante elaborato preparato dal Prof. Thomas K.
Chandy nel 2004 per gli studenti del suo corso nella Binghampton University. La
scelta è stata fatta considerando la chiarezza espositiva e il fatto che, mentre molti
papers sono rivolti ad un lettore “professionista”, questo ha come utente finale proprio
uno studente che si accinge all’analisi di una situazione aziendale a scopo di “puro
studio”. Dall’analisi del prof. Chandy (consultabile in
http://bingweb.binghamton.edu/%7Etchandy/Mgmt411/case_guide.html) siamo
partiti per cercare di capire dove l’utilizzo delle fonti di pubblico dominio possano
essere di buona utilità.
Studiare un caso aziendale vuol dire principalmente analizzare una serie di dati e
di problematiche tra loro connesse, che formano, in definitiva, il quadro di interesse.
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Parlando in termini generali, il processo è suddivisibile in varie fasi: una fase ex ante,
nella quale si osserva una situazione, si formulano delle ipotesi e si raccolgono i dati;
una fase centrale, di studio e di elaborazione dei dati raccolti, al fine di confermare o
smentire l’ipotesi; e infine una fase ex post, nella quale viene esplicitato formalmente
il risultato dello studio e si forma il commento. Come è facilmente intuibile, i tre
momenti dell’analisi di un caso aziendale sono inscindibili tra loro, poiché lo studio
deve basarsi su dei dati empirici, e deve essere poi finalizzato ad una elaborazione
finale, e non già fine a se stesso.
Lo scopo di questo elaborato è quello di studiare se e come sia profittevole
utilizzare, in questo processo, una base di dati di dominio pubblico, cioè accessibile
liberamente. Infatti, si possono considerare varie e molteplici fonti per lo studio di un
caso aziendale: possono essere documenti, archivi, interviste, osservazioni dirette,
osservazioni dei partecipanti, artefatti fisici [Yin, 1994; Stake, 1995]. All’interno di
questo elenco di possibili fonti, è possibile individuare quelle di dominio pubblico, e i
mezzi per ottenerle. Si studieranno perciò le molteplici modalità per acquisire i dati
(internet, giornali, comunicati stampa, eccetera); si analizzeranno le difficoltà e le
potenzialità di ciascuna modalità; verrà affrontata la problematica dell’“information
overload”; si vedrà quando e come un metodo di lavoro siffatto può essere
vantaggioso ovvero dispersivo.
Nel tempo, l’ambito dei documenti riservati si è ristretto, e si è invece allargato
quello dei documenti accessibili a chi vi abbia un qualunque interesse, e ad un
pubblico indeterminato. I dati di dominio pubblico riguardanti un’azienda possono
essere di varia natura e provenienza. Possono venire dalla stessa azienda (è il caso, ad
esempio, dei comunicati stampa e dei dati raccolti nei siti internet aziendali); si
possono ricercare tramite internet, sia sotto forma di informazioni riportate da siti
autonomi che come vere e proprie note informative; possono essere trovati nei
quotidiani (soprattutto in quelli specializzati come Il Sole 24 Ore, o in inserti tematici
come La Repubblica Economia); alcuni dati sono rintracciabili negli archivi pubblici;
ancora, è possibile utilizzare fonti indirette, come ad esempio gli istituti bancari.
Verrà inoltre proposto un caso di studio analizzato secondo questa metodologia.
La scelta è ricaduta sulla crisi della Fiat, per diversi motivi. Innanzitutto perché
l’argomento è di estrema attualità: e a ben d’onde, considerando la vastità delle
conseguenze che potrebbe avere l’esito più drammatico di tale crisi. In secondo luogo
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perché la “letteratura” di dominio pubblico sull’argomento è molto vasta (anche a
livello internazionale) e quindi ha dato la possibilità di esplicare alcuni meccanismi
del metodo di studio qui analizzato. E infine perché, comunque, è un argomento molto
importante e di sicuro interesse per la nostra economia, come dimostrano i dati
proposti.
1.1.1 INFORMATION OVERLOAD E REPERIBILITA’ DEI DATI: UN
CHIARIMENTO.
Spesso in questo elaborato si parlerà di “vastità” e “completezza” del
macrocosmo informativo, con il quale si ha a che fare quando si cercano informazioni
di dominio pubblico. E’ bene ricordare come, molto spesso, l’utente che si accinge ad
una ricerca di questo tipo si muove in un universo potenzialmente sconfinato,
all’interno del quale navigare può risultare in realtà molto difficoltoso. E’ il problema
del cosiddetto information overload. Avere di fronte un numero illimitato di
informazioni equivale a non averne sostanzialmente nessuna, perché districarsi può
necessitare di una quantità di tempo eccessiva o addirittura improponibile.
Come si può definire l’information overload? Wurman [1989] spiega che esso
può manifestarsi quando un individuo:
non capisce le informazioni reperibili
si sente sovrastato dalla mole di informazioni che devono essere comprese
non sa per certo se l’informazione che cerca esiste
non sa dove trovare l’informazione
sa dove trovare l’informazione che cerca, ma non ha la chiave per accedervi.
Quindi la definizione è quella dell’incapacità di estrarre una conoscenza
necessaria da una immensa quantità di informazioni, per vari motivi.
Michael Schudson, uno degli studiosi più autorevoli dei fenomeni legati alla
comunicazione di massa, ha sostenuto negli ultimi anni un’idea dissacrante di come il
cittadino debba considerare se stesso, nel mondo dell’information overload.
Occorre superare, Schudson dice [1994], l’ideale astratto del “cittadino informato”,
cioè del cittadino che deve essere aggiornato su tutto per poter partecipare con
razionalità alla vita pubblica. Il cittadino può limitarsi, in questo nostro mondo pieno
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zeppo di informazioni, ad essere monitorante (monitorial citizen). Deve, cioè, fare
scanning dell’ambiente che lo circonda, in modalità a basso consumo cognitivo, ed
essere pronto a diventare attivo solo quando il suo intervento sia rilevante.
Traslato ai nostri fini, il discorso può essere sicuramente utilizzato con
riferimento alla ricerca delle informazioni. Con una sostanziale differenza: il
ricercatore non deve limitarsi ad essere un monitorante “passivo”, ma deve esserlo in
senso “proattivo”, senziente. Deve imparare a creare dei filtri (che si costituiscono
con l’esperienza) attraverso le cui trame scremare tutto ciò che è inutile e fuorviante.
La Prof.ssa Mandelli, in un editoriale sul tema “Giornalismo e cittadini in
Rete”2, ipotizza che l’aiuto, in futuro, sulla risoluzione delle questioni legate a questa
necessità di scanning, possano venire dal giornalismo. Si potrebbe anche ipotizzare la
nascita di nuove figure professionali atte allo scopo (anzi, in parte già sono presenti in
alcuni ambiti, si pensi ai consulenti che il sito d’aste online Ebay fornisce ai propri
clienti-acquirenti). In un certo senso il ricercatore deve fare proprio questo: diventare
il proprio consulente, aiutare se stesso a difendersi dalle insidie che la mole enorme di
dati e di notizie porta.
L’intenzione iniziale era quella di fornire alcune linee guida, o suggerimenti, su
come costruire questi filtri cognitivi atti a scremare il macrocosmo informativo. Ci si è
accorti però, in corso d’opera, di quanto varie siano le modalità, e di conseguenza i
pregi e difetti delle medesime. La rete, per esempio, è piena di riferimenti,
suggerimenti, bibliografie a tema, articoli eccetera. Come si può vedere, anche in
questo caso si subisce l’ information overload. Alcune statistiche fornite da Inc.com3
parlano di:
15.652 siti che trattano il tema dell’information overload
40% dei lavoratori che sostiene che il proprio lavoro sia interrotto più di sei volte
all’ora da comunicazioni intrusive
50% dei professionisti statunitensi che ricevono ripetutamente messaggi che dicono
sostanzialmente la stessa cosa.
Una linea generale che si può seguire, comunque, è quella di imparare a valutare
in maniera rapida ed efficiente una informazione appena la si individua, rispondendo
2
http://www.mymarketingnet.com/agora/editoriali/contributi/dettaglio_articolo.asp?a=6&s=15&i=509
3
http://www.inc.com/magazine/19990101/715.html