4
La correlazione fra accusa e sentenza esprime la necessità, per il giudice, di verificare
la sussistenza di un rapporto di compatibilità fra l’imputazione contestata dalla pubblica
accusa e la sentenza che,alla luce delle risultanze processuali,dovrà emettere. Questa
esigenza sorge dalla previsione, nel processo penale,dei meccanismi preordinati alla
acquisizione dei mezzi di prova e quindi di un accertamento circa la (o le) imputazione
contestata. A seguito dell’applicazione di questi strumenti infatti potrebbero emergere
elementi tali da porre in discussione la contestazione effettuata dal pubblico ministero, e
rinvenirsi un fatto diverso attribuibile all’imputato il luogo di quello originariamente
contestato. Se l’organo deputato a formulare l’accusa non procede a modificarla sulla
scorta delle risultanze dell’istruzione dibattimentale, attraverso l’applicazione degli art.
516 e ss. C.P.P., il giudice dovrà rilevare la discrasia fra l’imputazione contestata e la
sentenza che dovrebbe emettere all’esito del dibattimento e applicare l’art. 521 c.p.p.
Al comma 1 viene richiamato il tradizionale brocardo “iura novit curia” sulla base
del quale il giudice può dare al fatto una definizione giuridica diversa rispetto a quella
enunciata dall’accusa , senza per questo incorrere egli stesso in una violazione della
correlazione fra accusa e sentenza. Si ripropone cosi’la distinzione fra giudizio di fatto e
giudizio di diritto contenuti nell’imputazione(e successivamente nella sentenza) affidando
solo il primo alla intangibile disponibilità della pubblica accusa, per lasciare al giudice
eventuale modificazione del nomen iuris. Ciò,tuttavia, non esime autorevole dottrina dal
sottolineare l’esigenza che anche sul nomen iuris e sulla sua eventuale modificazione si
instauri il contraddittorio fra le parti, data l’influenza che la norma di diritto sostanziale ha
sul fatto. Secondo questa dottrina infatti, “anche il mutamento del solo nomen iuris
comporta sempre che il fatto contestato sia visto,in alcuno dei suoi elementi,come non più
5
costitutivo o diversamente costitutivo”
2
. Qui per fatto deve intendersi la fattispecie
giudiziale che si distingue dalla fattispecie legale per la presenza quantitativamente
significativa di elementi dell’evento storico, fermo restando che la distinzione legale-
giudiziale è frutto di una astrazione “giacché la situazione concreta essendo unica è nel
contempo una situazione di fatto qualificata dal diritto e una situazione di diritto
realizzatasi nel fatto”
3
(G. Lozzi, Lezioni di procedura penale, Torino,2002, pag.534) Più
controversa appare invece l’individuazione degli elementi costitutivi e della distinzione fra
questi e quelli non costitutivi anche definiti come “accidentali” soprattutto alla luce del
comma 2 dell’art. 521 C.P.P. quando viene richiamata la nozione di diversità del fatto. La
centralità della nozione per la tematica trattata nel presente lavoro è testimoniata dalla sua
riconducibilità alla funzione stessa del principio di correlazione tra accusa e sentenza;
infatti la correlazione sussisterà solo se il fatto oggetto dell’imputazione (o eventualmente
modificato nei casi previsti dagli artt. 516, 517 e 518 comma 2 C.P.P.) e quello ritenuto in
sentenza non risultino diversi. Sulla base di questi rilievi la Corte di cassazione, con
numerose pronunce, ha enucleato due criteri uno “strutturale” l’altro “funzionale” per
individuare gli elementi costitutivi: il primo definisce essenziali (costitutivi) gli elementi
che siano idonei ad influire sull’accertamento della responsabilità e quindi, variando questi
rispetto all’imputazione, il pubblico ministero dovrà procedere alla modifica mancando la
quale il giudice dovrà trasmettergli gli atti ex art. 521comma 2 C.P.P.; per il secondo, al
fine di temperare l’eccessiva rigidità del criterio strutturale così individuato
“qualora venga dedotta la violazione del principio di correlazione fra accusa
contestata e sentenza, al fine di verificare se vi sia stata una trasformazione, sostituzione o
variazione dei contenuti essenziali dell'addebito, non soltanto va apprezzato in concreto se
2
T. RAFARACI, le nuove contestazioni nel processo penale, Milano, 1996, p. 299
3
G. LOZZI, op. cit., p. 534
6
nella contestazione, considerata nella sua interezza, non siano contenuti gli stessi elementi
del fatto costitutivo del reato ritenuto in sentenza, ma anche se una tale trasformazione,
sostituzione o variazione abbia realmente inciso sul diritto di difesa dell'imputato, e cioè se
egli si sia trovato o meno nella condizione concreta di potersi difendere. Sotto tali profili,
tuttavia, non può ravvisarsi una non consentita immutazione qualora il fatto ritenuto in
sentenza, ancorché diverso da quello contestato con l'imputazione, sia stato prospettato
dallo stesso imputato quale elemento a sua discolpa ovvero per farne derivare, in via
eventuale, una sua penale responsabilità per reato meno grave, giacché in tal caso
l'imputato medesimo si è automaticamente investito della variazione del thema ed in
relazione al diverso fatto ha apprestato le sue difese. (In applicazione di tale principio la
Corte ha ritenuto inesistente la prospettata violazione del principio di correlazione in un
caso in cui l'imputato, al quale era stato contestato il delitto di estorsione, aveva dedotto a
sua difesa la sussistenza non di minacce bensì di artifici e raggiri, per cui era stato
condannato per il diverso delitto di truffa)”
4
.
L’orientamento funzionale, cioè, sposta l’accento su ciò di cui concretamente
l’imputato ha potuto prendere conoscenza, anche aliunde, o che egli stesso ha introdotto
nel giudizio imputandolo a propria discolpa potendo farne oggetto delle proprie difese; si
vedrà che il criterio suddetto,soprattutto in relazione al primo aspetto, crea problemi di non
poco momento proprio in relazione al rilievo che la correlazione della sentenza deve
sussistere in relazione all’imputazione e non a qualsivoglia altro atto processuale.
Al momento poi di definire quali elementi considerare costitutivi o essenziali e quali
accidentali, gli orientamenti sono stati i più disparati: secondo alcuni la sola condotta, per
altri invece l’evento, per altri ancora evento e condotta insieme. Tutti schemi ripresi dal
4
Cass. pen., 15 marzo 2000, n. 5329, in Cass. Pen., 2001, p. 1887
7
diritto sostanziale penale che tuttavia tralasciano altri elementi anche meramente descrittivi
(coordinate di tempo e luogo dell’evento storico oggetto dell’imputazione, qualifiche
personali dell’imputato, ecc…) che invece assumono rilevanza , a volte decisiva,
nell’accertamento della responsabilità del presunto reo.
Ancora sul comma 2 dell’art. 521 C.P.P., merita un richiamo, per ora necessariamente
panoramico, il provvedimento con il quale il giudice trasmette gli atti al pubblico
ministero. L’ ordinanza presuppone un doppio divieto per il giudice: da un lato non può
decidere sull’accusa contestata ritenuta inadeguata, dall’altro non può decidere sul fatto
diverso scaturito dal processo senza che sia stato contenuto nell’imputazione. Da queste
brevi notazioni emergono una pubblica accusa che nel ricostruire la fattispecie di reato
deve il più possibile accusare secundum veritatem, pena il vedersi trasmettere gli atti dal
giudice a seguito della rilevazione del suo errato procedere, ed il giudice che non può
sostituirsi al pubblico ministero nel formulare l’imputazione (quella che ritiene adeguata in
luogo di quella contestata), pena la violazione del principio nemo iudex sine actore ispirato
a quella terzietà dell’ organo giudicante al centro oggi di vibranti polemiche. Nondimeno è
necessario evidenziare come anche dalla disciplina in esame traspaia che l’organo deputato
a formulare l’accusa, pur rimanendo una delle parti processuali così come vuole il modello
accusatorio adottato dal codice vigente, debba comunque nutrirsi di quella cultura e
formazione giurisdizionale che lo porta a sposare tesi accusatorie e formulare imputazioni
non esclusivamente dettate da spirito “di parte” ma che abbiano un riscontro apprezzabile
nella realtà.
Aspetto controverso è se l’ ordinanza in esame costituisca o meno eccezione al
principio di non regressione. Di certo, a seguito della trasmissione degli atti al pubblico
ministero, questi non può che esercitare ex novo l’azione penale e investire di questa il
8
giudice; il problema è vedere se si tratti non già di azione del tutto nuova o meno,
muovendosi innegabilmente il pubblico ministero nell’ambito dell’azione già esercitata e
sanzionata dall’ordinanza dell’organo giudicante e nulla impedendo che proceda per il
medesimo fatto pur se diversamente atteggiato per grado, titolo o circostanze. Il
provvedimento, secondo dottrina e giurisprudenza prevalente, ha natura decisoria, ma “in
mancanza di correlazione tra la imputazione contestata e il fatto accertato all'esito del
dibattimento, la ordinanza del giudice che dispone la trasmissione degli atti al p.m., a
norma dell'art. 521 comma 2 c.p.p., non e' impugnabile, trattandosi di decisione
meramente processuale che non incide ne' sul merito della "res judicanda", né sulla
competenza, né sulla libertà personale.”
5
(Cassazione penale sez. VI, 7 maggio 1997, n.
7322. Cass. pen. 1999, 631)
Con il 3° ed ultimo comma dell’ art. 521 C.P.P., il legislatore, prevede la trasmissione
degli atti al pubblico ministero qualora quest ultimo proceda ad una nuova contestazione al
di fuori dei casi previsti negli artt. 516, 517 e 518 comma 2 C.P.P. L’ipotesi è quella della
modifica atipica dell’addebito. Questa norma costituisce norma di chiusura del sistema
disegnato dall’art. 521 C.P.P. Appare cioè applicabile solo nel caso in cui non sia stato
utilizzato il comma 2 dell’art. 521 C.P.P. Alla luce di ciò, la norma non sembra possa
soccorrere nel caso in cui si palesino altre anomalie quali per esempio quelle ricollegate
alla violazione degli artt. 519 e 520. Per queste anomalie,infatti, la soluzione è presente
nell’art. 185 C.P.P. potendo il giudice disporre la rinnovazione dell’atto nullo.
Da sottolineare poi la tesi
6
secondo la quale i due gruppi di anomalie, quelle per cui è
prevista la tutela dell’ art. 521 III co. c.p.p. e quelle degli artt. 519 e 520, si differenziano
per il fatto che le prime rappresentano violazioni “sostanziali” degli artt. 516, 517, 518 II
5
Cass. pen., 7 maggio 1997, n. 7322, in Cass. Pen., 1999, p. 631
6
M. NOBILI, la nuova procedura penale, Bologna, 1989, p. 344-345
9
co., mentre le ultime, essendo applicabile l’art. 185 C.P.P., integrano una violazione
meramente “formale” delle disposizioni.
Per ciò che riguarda le fattispecie concrete alle quali si applica la norma,
“le modifiche dell'imputazione compiute sulla base di documenti già presenti nel
fascicolo del p.m., e non già sulla base di elementi emersi nel corso dell'istruzione
dibattimentale, sono da ritenere operate fuori dei casi previsti dagli art. 516 e 517 c.p.p. e,
pertanto, a norma dell'art. 521 comma 3 c.p.p., s'impone al giudice la trasmissione degli
atti al p.m. Una diversa interpretazione della richiamata normativa comporterebbe lesione
del diritto di difesa, stante l'astratta possibilità per l'accusa di evitare l'udienza preliminare
su una parte dei fatti oggetto dell'imputazione già emergenti dal fascicolo del p.m.”
7
.
Inoltre
“la modifica dell'imputazione di cui all'art. 516 c.p.p. presuppone un fatto in relazione
al quale le emergenze dibattimentali rendano necessaria una puntualizzazione della
ricostruzione degli elementi essenziali del reato o dei suoi riferimenti spazio-temporali;
non può adottarsi tale strumento, quindi, per la contestazione di reato ontologicamente
diverso; il giudice non può d'altra parte impedire al p.m. la modifica dell'imputazione,
unico strumento per denunciarne l'irritualità è costituito dall'ordinanza di restituzione degli
atti di cui all'art. 521, 3° comma, c.p.p.”
8
7
Trib. Sondrio, 19 aprile 1996, in Dir. Pen. e Processo, 1997, p. 329
8
Trib. Trapani, 27 maggio 1992, in Arch. Nuova Proc. Pen., 1992, p. 723
10
1.2. Rito accusatorio e processo di parti
“Nel delineare le caratteristiche di un sistema processuale penale si fa inevitabilmente
riferimento ai due modelli astratti del sistema accusatorio e del sistema inquisitorio”
9
Il primo sistema,introdotto con la riforma del 1988, ha come principi cardine quello
del contraddittorio nel momento di formazione della prova, della terzietà del giudice, e
soprattutto riprende dal processo dispositivo (caratterizzato dalla disponibilità della
situazione giuridica controversa, così come avviene nel processo civile) il principio della
domanda in base al quale nemo iudex sine actore e quello ad esso correlato della
allegazione degli elementi di prova ad opera delle parti; ciò non significa certo che in un
rito come quello penale, nel quale è indubbia la connotazione pubblicistica dell’oggetto
controverso, l’officium iudicis non debba avere alcuna possibilità di esplicare la propria
azione soprattutto per quanto attiene agli elementi di prova.”I limiti nei quali questo
fenomeno può dirsi contenuto entro la fisiologia del processo di parti sono da segnare, con
inevitabile approssimazione, osservando che sul piano della trattazione, la quale coinvolge
il giudice come organo di cognizione (prima che di decisione), partecipe della dialettica
propria dell’accertamento probatorio, l’officium iudicis è fattore utile e,specialmente nei
processi non dispositivi,in qualche misura naturale e necessario ad integrare la cognizione
promossa dalle parti.”
10
Significativi in questo senso sono gli artt. 506 c. 1 e 507 C.P.P. nei
quali sono enucleati i poteri che l’organo giudicante può porre in essere successivamente o
in via residuale rispetto all’iniziativa delle parti.
9
G. LOZZI,op. cit., p. 5.
10
T. RAFARACI, op. cit., p. 248
11
Le linee direttrici sulle quali si sviluppa il rito penale vedono allora una
valorizzazione delle diverse funzioni cui devono assolvere l’organo giudicante e l’organo
dell’accusa.
Quest’ultimo assume la veste di una vera e propria parte processuale in vista di un
progressivo avvicinamento nelle prerogative tra accusa e difesa, testimoniato anche dalla
bipartizione del procedimento in due fasi:una di indagini preliminari, la seconda
dell’istruzione dibattimentale. Ed è nel dibattimento che si formano le prove propriamente
dette dal momento che durante la fase istruttoria, tranne alcune eccezioni (dettate
sostanzialmente dal pericolo di non poter escutere utilmente i mezzi di prova al tempo del
processo propriamente detto), come l’incidente probatorio, non è consentito.
Il motivo di ciò è da ricercare con tutta probabilità nell’esigenza, perché una prova
possa dirsi formata, del contraddittorio fra le parti che può realizzarsi esclusivamente
quando queste compaiano davanti al giudice della decisione. Ma se vige il contraddittorio,
e questo è collegato nel nostro sistema al principio della domanda e segnatamente a quello
delle allegazioni rappresentato dall’art. 190 c. 1 C.P.P. è evidente che l’onere probatorio
“in tanto potrà essere assolto in quanto le parti siano messe in condizioni di ricercare le
prove. Se tale potere non fosse riconosciuto ai difensori delle parti private si sarebbe creata
una ingiustificata disparità di trattamento rispetto al pubblico ministero, che ha amplissime
possibilità di ricercare le fonti di prova non solo nel corso della fase delle indagini
preliminari ma anche dopo la chiusura della stessa, dal momento che, ex art. 430 C.P.P.
successivamente all’emissione del decreto che dispone il giudizio, il pubblico ministero, ai
fini delle proprie richieste al giudice del dibattimento, può compiere attività integrativa di
12
indagine, fatta eccezione degli atti per i quali è prevista la partecipazione dell’imputato o
del difensore di questo.”
11
“Accusa e difesa partecipano su basi di parità, in ogni stato e grado del procedimento.
Dovrebbero partecipare, quindi, su basi di parità, anche nella fase della indagini
preliminari, secondo parametri volti a realizzare un’equilibrata regolamentazione degli
opposti interventi e una reale possibilità di affrontare i relativi oneri. Il ‘nuovo’ art. 111
comma 3 cost. contiene una identica direttiva.
Diciamo subito che prescrizioni del genere non si spiegherebbero, o non si
spiegherebbero a pieno, in relazione ad indagini preliminari organizzate come inchiesta di
parte. Per tali indagini non vi sarebbe la necessità di una disciplina legislativa volta a
regolare in qualche modo l’attività dell’accusa e della difesa. Scontata la necessità di questi
interventi, si tratterebbe, semmai, di dettare specifiche regole di tipo deontologico, per ciò
che attiene ai rapporti del difensore con le persone che possono dare informazioni.
Sappiamo che il nuovo codice ha scartato l’ipotesi dell’inchiesta di parte. Ma
all’articolata previsione degli atti d’indagine del pubblico ministero (e della polizia
giudiziaria) il codice, nel suo impianto originario, non faceva seguire la previsione di
un’indagine parallela della difesa. E le regole circa la formazione di un fascicolo del
pubblico ministero non venivano, perciò, ripetute per i possibili atti dell’indagine
difensiva.
Le prescrizioni fissate per qualche specifica iniziativa del difensore o la previsione
di possibili interventi del pubblico ministero a favore dell’indagato non modificavano (né
potevano in effetti modificare) la piattaforma normativa, contrassegnata, nonostante le
promesse della legge delega, da forti squilibri. La potenzialità probatoria, riconosciuta in
11
G. LOZZI, op. cit.,p. 213
13
maniera sempre più accentuata agli atti d’indagine del pubblico ministero, completava il
quadro. Con sfasature che, secondo una tesi ricorrente, sembravano addirittura
ineliminabili, perché sorrette dall’argomentazione relativa alla posizione istituzionale del
pubblico ministero (ed alla riaffermata presunzione di imparzialità).
Ma procediamo con ordine.
Alle facoltà dei difensori della persona sottoposta alle indagini e della persona
offesa accennava l’art. 38 della norme di attuazione del codice (modificato dall’art. 22 l. 8
agosto 1995, n. 332). Non era, quindi, il codice a disciplinare in qualche modo l’indagine
della difesa, a disciplinarla come indagine parallela a quella svolta prima del dibattimento
dal pubblico ministero. E c’era da chiedersi ‘se la sede più propria per la regolamentazione
di una materia così irta di difficoltà e così nuova per il nostro ordinamento ed il nostro
costume giudiziario non fosse quella del codice e non quella delle norma di attuazione’
(parere del Consiglio superiore della Magistratura).
L’art. 38 n. att. C.P.P., pur con le innovazioni apportate dalla legge n. 332 del 1995,
non disciplinò le forme attraverso le quali esercitare il diritto di difendersi provando (… di
un vero e proprio diritto alla prova può parlarsi solo nella fase del dibattimento). Eccettuata
l’ipotesi della difesa tecnica, da attuare a mezzo di consulenti (nelle forme previste dall’art.
233 C.P.P.), mancò una compiuta regolamentazione delle modalità di acquisizione di
documenti, informazioni e notizie; e la normativa sugli istituti di investigazione privata
apparve in più punti in contrasto con le esigenze dell’indagine difensiva.
È bene, inoltre, rilevare:
a) la mancata regolamentazione delle forme dell’attività difensiva accentuò le
sfasature delle relative iniziative nel corso dell’istruzione dibattimentale e durante le
indagini preliminari. Come immaginare una plausibile iniziativa della difesa, volta a
14
‘contestare’ la dichiarazione effettuata al dibattimento da un teste o da una parte? Se la
contestazione al dibattimento sigla la divergenza con la dichiarazione, resa nella fase
dell’udienza preliminare, è sulla forma di questa dichiarazione che bisogna insistere per
dare forza all’attività del difensore. Insuperabili rimasero, quindi, i limiti frapposti a questa
attività in sede di indagini preliminari. La possibilità di ‘presentare direttamente al giudice
gli elementi rilevanti ai fini della decisione da adottare’ (riconosciuta dal ‘nuovo’ art. 38
comma 2-bis n. att. C.P.P.) fece cadere, è vero, le preclusioni adombrate dalla
giurisprudenza (Cass. 18 agosto 1992, Burraffato) in ordine alla necessaria
‘canalizzazione’ sul pubblico ministero delle ‘informazioni acquisite dai difensori’. Ma
non ridusse le difficoltà, insite in iniziative non sorrette da adeguate forme: nel settore, ad
esempio, della revoca e della sostituzione delle misure cautelari (art. 299 C.P.P.);
b) nonostante le ‘specificazioni’ introdotte dalla legge n. 332 del 1995, l’asimmetria
dei ruoli tra l’accusa e la difesa non venne, perciò, eliminata e trovò nella difettosa
regolamentazione delle forme dell’attività difensiva una sua ulteriore conferma. In una
persistente ‘illusione dell’accusatorio’, il sistema ripropose l’immagine del difensore,
ancora sfornito di effettivi poteri in punto di prova, e del pubblico ministero ‘che si attiva
secondo un sistema diverso… fornendo prove’ (Nobili);
c) per superare questa singolare dissociazione di procedure e modelli operativi è
stata varata la legge 7 dicembre 2000 n. 397, recante ‘disposizioni in materia di indagini
difensive’. La legge, oltre ad apportare alcune modifiche al codice di procedura penale,
aggiunge un titolo (il VI-bis) nel libro quinto del codice. È stata, così, abrogata una norma
di attuazione, effettivamente non adeguata a disciplinare la materia. Ma la introduzione
delle suaccennate disposizioni non spiana, certo, la via ad agevoli innesti nell’impianto
codicistico.
15
La nuova normativa pone, in ogni caso, notevoli problemi di ‘equilibrio’ fra le
‘due’ indagini, del pubblico ministero e del difensore. In relazione a queste ‘inchieste
parallele’ regole particolari sono state previste per evitare la ‘sovrapposizione’ degli atti
d’indagine, con le forzature di possibilissime rettifiche, ‘stimolate’ dalle iniziative
sopravvenute. La verifica incrociata sullo stesso tema rientra nella logica del sistema, ma
può avvenire soltanto nel contraddittorio fra le parti nella successiva escussione in fase
dibattimentale.
In base all’art. 362 C.P.P., alle persone già sentite dal difensore il pubblico
ministero non può chiedere ‘informazioni sulle domande formulate e sulle risposte date’.
In base all’art. 391-bis, comma 4 C.P.P., alle persone già sentite dalla polizia giudiziaria o
dal pubblico ministero il difensore ‘non può chiedere notizie sulle domande formulate o
sulle risposte date’.
Le dichiarazioni ricevute e le informazioni assunte, nonostante i suindicati ‘divieti’,
non possono essere utilizzate. La sanzione, espressamente previste solo in relazione ai casi
di ‘divieto’ imposto al difensore, va estesa alle ipotesi di ‘assunzione di informazioni’ da
parte del pubblico ministero (in base al principio generale, fissato dall’art. 191 C.P.P.)”
12
Queste riflessioni ci svelano dunque quale fosse l’intento del legislatore del 2000,
quello cioè di ampliare il peso del diritto di difesa nelle fasi del procedimento. Ed è proprio
tale diritto a sembrare quello maggiormente colpito nell’ipotesi di un vizio di correlazione.
Infatti a seguito della mancata corrispondenza fra il fatto contenuto nell’atto di accusa e
quello ritenuto in sentenza, le conseguenze prime ed anche le più pratiche di ciò riguardano
proprio le garanzie difensive dell’imputato che vengono meno nella misura in cui non gli
12
D. SIRACUSANO, la polivalenza delle indagini preliminari, in AA.VV., di SIRACUSANO- GALATI-
TRANCHINA- ZAPPALA’, Diritto processuale penale, 2004, II, p. 14 ss.
16
sia consentito di prendere conoscenza del fatto contestatogli e di approntare le opportune
difese.
Tuttavia autorevole dottrina precisa che, per comprendere la fattispecie dell’art. 521 C.P.P.
e quindi distinguerla da altre che salvaguardano dalla violazione di altri principi del
sistema processuale, bisogna accostarsi al problema non tanto a partire dal diritto di difesa,
che pure abbiamo visto avere una centralità innegabile nella stessa impostazione
(potremmo dire “ideologica”) del codice, quanto proprio dall’accusa; infatti “ se è vero che
la difesa, già sul piano concettuale, presuppone l’esistenza di una accusa che la implichi,
deve poi a fil di logica convenirsi che dove accusa non vi sia stata, di difesa non può
neppure parlarsi. Ne segue,pertanto, che una condanna su fatti che sono stati oggetto
d’accusa, viola innanzitutto quest’ultima, prima che la contestazione e la difesa( di cui a
rigore, non sarebbero neppure sorti i presupposti), benché, a guardare solo le conseguenze
più immediate (ciò che è comune ed anche comprensibile dal punto di vista pratico), il
pregiudizio appaia tutto subìto dall’imputato, e questo evochi senz’altro la violazione dei
suoi propri diritti. Nonostante tali risvolti resta salda l’idea che di vizio di
Contestazione (e di violazione della difesa) in quanto tale debba propriamente parlarsi
come di fenomeno distinto dal vizio di correlazione, e riferito a violazioni che riguardano,
appunto, soltanto la contestazione all’imputato (e i diritti difensivi conseguenti) di quanto è
già oggetto d’accusa.”
13
Ed ancora,” basti osservare come sia certamente irrituale che il
giudice, rilevati certi elementi di fatto, li contesti all’imputato (con ciò pretendendo di
farne materia di giudizio), per accorgersi che il diritto alla contestazione non basta a
spiegare la regola della correlazione; e che, invece, quest’ultima, vincolando all’atto
d’accusa non solo il contenuto della decisione ma anche della contestazione, specifichi la
13
T. RAFARACI,op. cit., p. 218
17
dimensione del contraddittorio cui la contestazione stessa servirà, quanto meno nel senso
di lasciare il giudice fuori dell’attività di ricerca ed individuazione del fatto sul quale la
decisione dovrà cadere.”
14
Queste notazioni contribuiscono a rilevare la funzione del contraddittorio nel
processo penale, ed in particolar modo nella operatività dell’art. 521; dal momento che,
richiamandosi qui gli artt. 516, 517, e 518 (riguardanti rispettivamente un fatto diverso, un
reato concorrente o una circostanza aggravante, un fatto nuovo), si vuole ricordare che ha
senso la possibilità di modificare l’imputazione nel corso del processo propriamente detto,
nella misura in cui il fatto introdotto sia sottoposto ex novo al contraddittorio come avviene
per la domanda iniziale (l’imputazione). La regiudicanda cioè, perché si possa parlare di un
processo penale come “processo di parti”, anche modificata in corso di giudizio, non può
essere portatrice di valenze idonee ad esprimere uno stato di avanzamento
dell’accertamento processuale, ma valere esclusivamente come domanda rivolta al giudice
della decisione sulla quale però egli non potrà pronunciarsi, perché non contiene ancora
alcun elemento che rilevi come accertato. Acquisterà questo status solo a seguito di quella
fase nella quale la domanda di una parte processuale (sia pure essa parte rappresentante
quegli interessi che la natura stessa dei fatti oggetto di un procedimento penale rendono di
rilevanza pubblica) diverrà accusa sulla quale, questa volta si ed obbligatoriamente
vigendo il divieto di non liquet, il giudice del dibattimento dovrà pronunciarsi.
14
T. RAFARACI, op. cit., p. 219