7
800 milioni di sterline (1.155 milioni di euro) e negli ultimi anni anche alcuni club
italiani (Juventus, Lazio, Roma) hanno compiuto tale scelta.
I numeri confermano, dunque, come il calcio sia indubbiamente un settore
rilevante per l’economia nazionale: dal 2000 il valore della produzione della serie A
italiana si mantiene costantemente al di sopra del milione di euro, ma di recente si
sono verificate flessioni (-2,1% nel 2002, -0,2% nel 2004) che, associate al forte
incremento dei costi e delle perdite cumulate (oltre 532 milioni di euro nel 2003/04)
testimoniano la crescente difficoltà di molti club a conservare un equilibrio
economico-finanziario. La crisi che negli ultimi anni ha colpito il calcio
professionistico nel nostro Paese ha suscitato l’attenzione di esperti in materie
giuridico-economiche e lo scalpore dell’opinione pubblica e del folto seguito di
tifosi. Nonostante il calcio abbia da tempo abbandonato la dimensione dilettantistica
per divenire un business a tutti gli effetti, ancora oggi gli aspetti economici di tale
settore sono spesso considerati marginali, relegati ad una posizione secondaria
rispetto ad elementi atletici o sociali. Ciò spiega il ritardo con cui il settore ha
cominciato a dotarsi di un assetto organizzativo e manageriale adeguato ai forti
interessi economici in gioco.
Il lavoro intende evidenziare le ragioni che hanno condotto lo sport più
seguito e praticato in Italia ad una crisi economico-finanziaria che, per certi versi,
appare irreversibile. La soluzione non può prescindere dalla formazione di una
cultura d’impresa e da un’approfondita analisi dell’evoluzione dei fattori che, più di
altri, sono in grado di generare reddito: sebbene nel calcio, come in ogni sport, il
fattore “caso” eserciti un’influenza determinante sulla performance di una squadra, i
club dovrebbero porsi l’obiettivo di individuare gli elementi sistematici, pertanto
prevedibili, su cui si basano i successi imprenditoriali, in modo da tracciare strategie
di business vincenti. Dopo aver descritto l’evoluzione legislativa del settore e
l’influenza che su di essa hanno avuto shock esogeni come la cosiddetta “sentenza
Bosman” e la nascita della tv a pagamento, il lavoro si incentra sull’analisi del
bilancio-tipo di una società professionistica di calcio e sui risvolti determinati dalla
8
promulgazione del decreto-legge n. 282/2002, noto come “salvacalcio”. Nel capitolo
3 si impronta un’analisi economico-finanziaria delle società professionistiche: si
individuano le principali voci di ricavo e di costo delle imprese calcistiche, si
illustrano gli artifizi contabili (in particolare, il meccanismo delle plusvalenze) che
hanno costituito per anni l’unica ancora di salvezza per molti club, infine si
evidenziano le maggiori difficoltà accusate dalle categorie “minori”, cioè dalla serie
B e C1, rispetto alla serie A. Col tempo si è ridotta la quota dei proventi tipici (cioè i
ricavi da gare) sul complessivo valore della produzione di una società di calcio,
eppure desta preoccupazione il generale calo di spettatori registrato negli ultimi anni
negli stadi italiani: a tale fenomeno e ai suoi effetti economici, alla luce anche di un
confronto europeo, verrà dedicata attenzione nel capitolo 4. Proprio l’evoluzione
delle principali fonti di reddito, la necessità di una loro diversificazione, la possibilità
si sfruttare nuove fonti di entrata garantite dal merchandising, dalla gestione diretta
degli stadi e dalle nuove tecnologie (digitale terrestre, internet e telefonia mobile),
nonché politiche di ridimensionamento dei costi (specie quelli relativi al personale
sportivo) e metodi alternativi di organizzazione contabile, sono argomenti focalizzati
nel capitolo 5, che propone anche un parallelo con i più importanti club europei.
Il presente lavoro si conclude con l’analisi di una realtà calcistica che negli
ultimi anni ha conosciuto importanti successi, ma anche clamorosi fallimenti:
l’Ancona Calcio S.p.a., promossa in serie A nel 2003 e scomparsa l’anno dopo sotto
il peso di ingenti debiti e perdite consistenti. Il caso proposto evidenzia in modo
paradigmatico le difficoltà che una cosiddetta squadra “provinciale” è chiamata a
fronteggiare, soprattutto a causa della minore capacità di espansione dei ricavi
rispetto ai grandi club e ad un’incidenza comunque elevata dei costi di produzione. Il
fallimento dell’Ancona Calcio (seguito nella presente trattazione dall’analisi dei dati
contabili dell’A.C. Ancona, società che nell’agosto 2004 ha rilevato il titolo sportivo
del club fallito) fornisce uno spunto interessante per una riflessione conclusiva sulla
diversa filosofia di gestione che alle società dalle dimensioni più modeste impone,
inevitabilmente, una diversa enfasi sui risultati sportivi ed economici.
9
CAPITOLO PRIMO
LA NASCITA DEL PROFESSIONISMO NEL CALCIO: DALLE
ASSOCIAZIONI SPORTIVE ALL’ATTIVITA’ D’IMPRESA
1.1 ORIGINE ED EVOLUZIONE DELLE ASSOCIAZIONI SPORTIVE: LA
RIFORMA DEL 16 SETTEMBRE 1966
Sino al 1966 tutti i sodalizi sportivi affiliati alla Figc (Federazione Italiana
Giuoco Calcio) erano giuridicamente inquadrati nella forma dell’associazione non
riconosciuta, disciplinata dagli articoli 36, 37 e 38 del Codice Civile.
L’amministrazione era affidata all’iniziativa di coloro che con versamenti personali
contribuivano agli oneri sociali. Si trattava di una fattispecie giuridica per molti
aspetti vantaggiosa, dal momento che l’associazione non riconosciuta non ha
personalità giuridica e gli associati costituiscono un “fondo comune” che assolve la
funzione di elemento di garanzia per i terzi, attraverso l’apporto di beni e contributi
di cui i singoli non possono richiedere la divisione finché l’associazione stessa è in
vita, né possono pretendere la restituzione della propria quota. Ancora oggi tale
forma giuridica è largamente diffusa tra le società sportive dilettantistiche dal
momento che, essendo soggetta ad una minima regolamentazione legislativa,
garantisce grande libertà contrattuale agli associati ed elevata autonomia
organizzativa. Tuttavia sono evidenti i limiti e le imperfezioni di una simile
fattispecie, in relazione soprattutto ai crescenti interessi economici perseguiti dalle
società di calcio: la gestione, infatti, raramente risponde ai fondamentali requisiti
della veridicità, della trasparenza e della correttezza, inoltre la logica di gestione dei
club sportivi “per cassa” non consente di tenere in debita considerazione aspetti
fondamentali quali la capitalizzazione del costo d’acquisto dei giocatori, gli
10
ammortamenti degli oneri di natura pluriennale, il patrimonio sociale e il parco
giocatori, a cui non viene attribuito alcun valore contabile. L’adozione della forma
giuridica dell’associazione non riconosciuta, col passare del tempo, divenne del tutto
inadeguata a fronteggiare le enormi difficoltà finanziarie in cui il settore calcistico si
dibatteva sin dagli anni Sessanta, in coincidenza con la crescente importanza
economica dell’attività sportiva che cominciava a denotare le sue enormi potenzialità
in termini di movimento di capitali. Di fronte a un simile cambiamento di scenario,
da parte degli organi federali si rese necessario predisporre un programma di
ristrutturazione dell’intero sistema, volto a rendere più sana e trasparente l’attività
economico-finanziaria dei sodalizi sportivi. Permeata da questa esigenza fu la
riforma del 16 settembre 1966 con cui il Consiglio Direttivo Federale decretò lo
scioglimento degli organi direttivi delle associazioni calcistiche professionistiche e la
nomina di un commissario straordinario per ciascuna di esse a cui venivano
riconosciuti pieni poteri gestionali e il compito di procedere alla liquidazione dei
sodalizi sportivi e alla loro costituzione in Società per Azioni. Il Consiglio Federale
promulgò poi uno Statuto-tipo obbligatorio per tutti i club professionistici,
imponendo l’impossibilità di ripartire utili tra i soci in caso di scioglimento, l’obbligo
di devolvere le somme residue ad un fondo di assistenza del C.O.N.I. (comitato
olimpico nazionale italiano), dopo la definizione dei rapporti con i terzi e la
restituzione ai soci del capitale versato, infine, in caso di scioglimento del rapporto
limitato al singolo socio, l’obbligo di restituzione del solo valore nominale delle
azioni da questi possedute.
L’adozione della forma della s.p.a., negli intendimenti degli organi federali,
era orientata al perseguimento di più obiettivi: in primo luogo la riduzione delle
posizioni debitorie correnti, attraverso un miglior coordinamento finanziario
dell’attività d’impresa. Quindi, il rispetto di criteri uniformi che consentissero ai club
di coniugare le loro finalità sportive all’esigenza di una gestione economica corretta,
chiara e trasparente. Infine, il rispetto delle disposizioni in materia societaria e
fiscale. Ma l’assunzione della forma giuridica della s.p.a. rappresentava altresì una
11
condizione indispensabile per l’erogazione del mutuo sportivo e per la concessione di
agevolazioni tributarie. In generale, imponendo la forma societaria, si voleva rendere
possibile l’applicazione di una serie di disposizioni, in particolare quelle sulla
formazione e sulla pubblicità del bilancio, che avrebbero dovuto garantire
un’amministrazione più cauta e trasparente dei sodalizi sportivi, ma anche un
controllo più agevole e puntuale da parte delle autorità competenti
1
.
1.2 LA RIFORMA DELLA LEGGE N. 91 DEL 23 MARZO 1981
La trasformazione dei club sportivi in società di capitali ha senz’altro
rappresentato una vera svolta nel rapporto tra il mondo del calcio, quello economico
e quello giuridico, ma nonostante tutto la riforma federale del 1966 non bastò ad
evitare lo squilibrio gestionale sperimentato agli inizi degli anni Ottanta, sebbene nel
frattempo le fonti di introito si fossero sensibilmente sviluppate (diritti radiofonici e
televisivi, sponsorizzazioni, ecc.). Dal 1972 al 1980 il disavanzo delle società di
calcio di serie A e B passò da 18 a 86 miliardi di lire: fu questo il terreno su cui si
svilupparono i primi espedienti contabili (in particolare, il sistematico ricorso alle
plusvalenze fittizie da cessione del patrimonio calciatori) volti a mascherare la
drammatica situazione economico-finanziaria dei club
2
. Una simile situazione
evidenziò i limiti della riforma federale del 1966 che, sia pure ponendo delle basi per
una gestione più oculata e corretta nell’industria del calcio, non costituiva da sola
una soluzione soddisfacente.
1
La delibera federale causò l’intervento della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato, che
dichiararono illegittima l’imposizione della costituzione di una s.p.a. dopo lo scioglimento di un ente
privato. La riforma fu allora attuata attraverso due operazioni collegate e successive: delibera di
scioglimento delle associazioni da parte delle rispettive assemblee e ricostituzione di nuove società ad
opera dei membri degli organismi disciolti, rispettando così l’autonomia statutaria dei sodalizi
calcistici.
2
Esperti di calcio nel biennio 1979-1980 analizzarono la contabilità ufficiale dei club di serie A e B e
sottolinearono come 115 miliardi e 220 milioni di plusvalenze fossero state del tutto assorbite da 115
miliardi di perdite capitalizzate, a dimostrazione del fatto che le società mascheravano le perdite di
gestione alterando sistematicamente il valore dei giocatori iscritti a bilancio.
12
Con la legge n. 91 del 23 marzo 1981 recante “Norme in materia di rapporti
tra società e sportivi professionisti” si cercò di porre rimedio ai problemi e alle
carenze della normativa in essere. La legge intendeva soddisfare due esigenze
principali: da un lato la necessità di inquadrare giuridicamente il rapporto di lavoro
sportivo nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, ricavandone una nicchia di
specialità per venire incontro ai particolari interessi dell’ordinamento sportivo; in
secondo luogo, la volontà di definire i rapporti tra società e sportivi professionisti al
di fuori del legame costituito dal “vincolo sportivo”. Il legislatore, con la legge
91/1981, fissò una serie di principi generali, tra cui la libertà dell’attività sportiva e
la distinzione tra attività sportiva dilettantistica da quella professionistica,
quest’ultima intesa come attività svolta dal singolo allo scopo di conseguire un
profitto.
La nuova normativa può essere semplificata in quattro punti della figura
dello sportivo professionista e regolamentazione dei suoi rapporti con le società;
1. individuazione dei requisiti-base per la costituzione, il controllo della
gestione e la liquidazione delle società sportive e definizione delle
caratteristiche e delle competenze delle federazioni sportive nazionali;
2. analisi della rilevanza dei contratti tra società e atleta professionista ai fini
dell’imposizione e dell’imposta sul valore aggiunto e individuazione delle
modalità di applicazione delle imposte straordinarie per l’operazione di
trasformazione delle associazioni in società di capitali;
3. abolizione del “vincolo sportivo”, cioè dell’istituto che attribuiva ad una
società sportiva il diritto di utilizzazione esclusiva delle prestazioni di un
atleta.
Uno degli aspetti più innovativi della legge 91/1981 è rappresentato
senz’altro dall’impostazione circa le finalità lucrative dei singoli azionisti delle
società di calcio. L’articolo 10, secondo comma, prescrive infatti: “L’atto costitutivo
deve prevedere che gli utili siano interamente reinvestiti nella società per il
perseguimento esclusivo dell’attività sportiva”. La norma va letta in relazione
13
all’articolo 13, secondo comma, laddove si sancisce il divieto di distribuire ai soci
parte dell’attivo eccedente il valore nominale delle azioni o delle quote possedute:
tale residuo attivo andava piuttosto assegnato al C.O.N.I. che era obbligato a
reinvestirlo nel perseguimento delle finalità sportive, conformemente alla sua natura
di ente pubblico non economico.
La legge provvedeva, poi, a specificare i poteri di controllo che la
Federazione poteva esercitare per sovrintendere alla gestione delle società negli atti
di disposizione rischiosi per la stabilità del patrimonio sociale. L’articolo 12, primo
comma, prescrive infatti che “le società sportive sono sottoposte all’approvazione e
ai controlli sulla gestione da parte delle federazioni Sportive Nazionali di cui sono
affiliate, per delega del C.O.N.I. e secondo modalità approvate dal C.O.N.I.”. Il
secondo comma aggiungeva che “tutte le deliberazioni delle società concernenti
esposizioni finanziarie, acquisti o vendita di immobili o, comunque, tutti gli atti di
straordinaria amministrazione, sono soggetti ad approvazione da parte delle
Federazioni Sportive Nazionali cui sono affiliate”. Nell’ottica di legittimazione di
uno strumento sanzionatorio in grado di rafforzare il controllo federale si poneva
anche l’articolo 13 che riconosceva alle Federazioni sportive nazionali il potere di
chiedere all’autorità giudiziaria la messa in liquidazione delle società affiliate “per
gravi irregolarità di gestione”.
Ma, al di là della definizione delle competenze delle federazioni sportive
nazionali, ciò che più risalta è il fatto che alle società sportive è riconosciuta
esclusivamente una capacità lucrativa “oggettiva”: il legislatore, cioè, ha voluto
delineare una società di capitali che svolge anche attività diretta alla produzione di
guadagni, ma con il limite di impedirne la successiva distribuzione tra i soci,
vietando così le attività lucrative “soggettive”, ossia riguardanti i singoli azionisti.
L’imprenditore sportivo non trae dalla sua attività alcun beneficio di carattere
economico e, quand’anche questo si verifichi, si tratta di un interesse indiretto,
mediato e riflesso. Il suo eventuale vantaggio economico non deriva certo, secondo
l’intendimento del legislatore, dalla singola gestione della società sportiva, bensì da
14
benefici connessi alla notorietà, alla pubblicità o alla sua immagine sociale, benefici
comunque non commisurati al successo economico. E’ proprio in questa scissione tra
profitto dell’impresa (riconosciuto) e profitto dell’imprenditore sportivo (non
riconosciuto) che, secondo alcuni, sta la causa fondamentale dell’incapacità
dell’impresa sportiva di produrre risultati positivi duraturi e stabili. Spesso, infatti, è
nel perseguimento di finalità extraeconomiche che si annida il pericolo di una
degenerazione dello strumento societario, dal momento che la finalità ideale può
generare conseguenze negative sul piano dell’economicità della gestione.
Dunque, è proprio l’impossibilità di remunerare adeguatamente il capitale
investito, sancita, di fatto, dalla legge 91/1981, la causa principale degli effetti
negativi sulla gestione aziendale delle società sportive: il legislatore probabilmente
trascurò il fatto che la prospettiva di una remunerazione sulla carta porta ad uno
spontaneo meccanismo di autocontrollo. Senza tralasciare, peraltro, il rischio per cui
i soci, dato il divieto di ripartizione degli utili, potessero ricercare forme diverse, più
o meno limpide, allo scopo di remunerare il capitale investito, con effetti negativi
anche per l’immagine stessa dello sport professionistico.
Un ulteriore elemento di innovazione inserito dalla legge 91/1981 è
l’abolizione del cosiddetto “vincolo sportivo”. In precedenza le società potevano
esercitare una sorta di monopolio sulle prestazioni degli atleti grazie all’istituto che
riconosceva ai club il diritto di utilizzazione esclusiva delle prestazioni dello
sportivo: un diritto, questo, che si manteneva anche allo scadere del contratto,
limitando di fatto la libertà del giocatore, costretto ad accettare la destinazione decisa
dal suo club d’appartenenza. L’articolo 16 della presente legge rivoluzionò la
materia, stabilendo che “le limitazioni alla libertà contrattuale dell’atleta
professionista devono gradualmente essere eliminate entro cinque anni dalla data di
entrata in vigore della legge”. Venne così riconosciuta l’autonomia e la
professionalità del giocatore, ma venne anche introdotto un nuovo tipo di contratto di
lavoro subordinato: quello del lavoratore sportivo, per cui l’atleta professionista
veniva equiparato al lavoratore dipendente, ma con alcune eccezioni illustrate
15
dall’articolo 3. La prestazione dell’atleta, in particolare, si configura come un lavoro
autonomo quando la sua attività si svolge nell’ambito di una singola manifestazione
sportiva o di più manifestazioni fra loro collegate in un breve periodo di tempo, e
purché la prestazione, anche avendo carattere continuativo, non superi le otto ore
settimanali o cinque giorni in un mese o trenta giorni in un anno
3
.
Con l’abolizione del “vincolo sportivo” il legislatore ritenne però opportuno
tutelare il patrimonio e il potere contrattuale dei club: per questo venne introdotta una
forma di indennizzo rappresentata dalla “indennità di trasferimento, formazione e
promozione”. Si trattava di un onere patrimoniale da calcolarsi in base al periodo di
durata del rapporto tra la società e l’atleta, una forma di recupero del costo sostenuto
dal club per la formazione e la crescita atletica del giocatore. Il premio doveva essere
versato dalla società acquirente alla società cedente e, in caso di primo contratto
professionistico, l’indennità era dovuta alla società o all’associazione sportiva presso
cui l’atleta aveva svolto la sua ultima attività dilettantistica. Successivamente,
attraverso quella che verrà ricordata come la “sentenza Bosman”, del 15 dicembre
1995, sarà abrogata l’indennità di trasferimento, preparazione e promozione e a dare
una spinta inattesa e improvvisa al processo di riforma indispensabile per risolvere la
grave crisi economica che coinvolse lo sport professionistico italiano tra gli anni
Ottanta e Novanta del secolo scorso.
3
BRUNELLI M. – BASILE G. – CAZZULO G., Le società di calcio professionistiche, aspetti
civilistici, fiscali e gestionali, Buffetti, Roma, 1997.
16
1.3 DALLA “SENTENZA BOSMAN” ALLA RIFORMA APPORTATA
DALLA LEGGE N. 586 DEL 18 NOVEMBRE 1996
Nell’agosto del 1990 il calciatore belga Jean Marc Bosman decise di
rivolgersi alla Corte di Liegi citando per danni il suo club d’appartenenza (F.C.
Liegi) e la Federazione calcistica del suo Paese, a suo parere colpevoli di averne
impedito il trasferimento al club francese del Dunkerque: il contratto col Liegi era,
infatti, scaduto, ma il club belga in cui militava si opponeva ugualmente alla sua
cessione, proponendo invece al giocatore un rinnovo del contratto con parziale
decurtazione dello stipendio.
Appellandosi al Trattato di Roma del 1957 che aveva istituito il Mercato
comune e sancito il principio della libera circolazione dei lavoratori all’interno
dell’Unione Europea, Bosman portò in tribunale la sua squadra. La Corte d’Appello
di Liegi, con ordinanza del primo ottobre 1993, rimandò la questione alla Corte di
Giustizia Europea chiedendole di pronunciarsi in via pregiudiziale sulla compatibilità
con il Trattato UE dei regolamenti calcistici nazionali e internazionali in materia di
indennità di trasferimento. Il 15 dicembre 1995 la Corte di Giustizia delle Comunità
Europee si pronunciò stabilendo, alla luce dell’articolo 48 del Trattato di Roma, due
principi:
1. sono contrarie al principio di libera circolazione dei lavoratori nel Mercato
comune “le norme emanate da federazioni sportive in forza alle quali un
calciatore professionista, cittadino di uno Stato membro, alla scadenza del
contratto che lo vincola ad una società può essere ingaggiato da società di un
altro Stato membro solo se questa ha versato alla società di provenienza
un’indennità di trasferimento, formazione e promozione”;
2. sono contrarie al principio della libera circolazione dei lavoratori all’interno
dell’Unione Europea anche “le norme emanate dalle federazioni sportive in
forza delle quali, nelle partite che organizzano, le società calcistiche possono
17
schierare solo un numero limitato di calciatori professionisti cittadini di altri
Stati membri”.
Va tuttavia sottolineato come la sentenza, a ben guardare, aboliva l’indennità
di preparazione e promozione soltanto per il trasferimento degli atleti professionisti
nell’ambito della circolazione comunitaria, ma non nell’ambito della circolazione
all’interno dei singoli Stati membri dove, dunque, rischiava di crearsi di fatto
un’alterazione del mercato. Si rese così necessario un intervento del legislatore volto
a modificare la legge n. 91/1981 laddove, all’articolo 6, disciplinava l’indennità di
trasferimento, formazione e promozione. A tal proposito il decreto legislativo n. 272
del 17 maggio 1996 recante “disposizioni urgenti per le società sportive” abrogò tale
indennità, salvaguardando però gli interessi della società o associazione sportiva
“presso la quale l’atleta professionista ha svolto la sua ultima attività dilettantistica o
giovanile”, alla quale veniva riconosciuto un “premio di addestramento e formazione
tecnica”. Inoltre, il citato decreto legislativo disciplinava la fattispecie sotto il profilo
contabile e fiscale, prevedendo all’articolo 15, quarto comma, della legge 91/1981
che “le somme versate a titolo di indennità di preparazione e promozione, ai sensi
dell’articolo 6, sono equiparate alle operazioni esenti da imposte sul valore aggiunto
ai sensi dell’articolo 10 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972,
n.633”
4
. Tuttavia il D.L. n. 272 del 1996 non fu convertito in legge, ma la materia in
esame venne reiterata attraverso un nuovo decreto legge, il n. 383 del 22 luglio 1996,
a sua volta reiterato (perché non convertito in legge dalle Camere) a mezzo del D.L.
4
Alla “sentenza Bosman” seguirono nuove sentenze che allargarono i confini del mercato. Nel 1996 il
calciatore rumeno Hagi passò dal Barcellona al Galatasaray (Turchia, fuori dell’Unione Europea): il
club spagnolo pretendeva un indennizzo, ma in virtù di accordi in materia di lavoro tra la Turchia e
l’UE Hagi meritò parità di trattamento. Lo stesso accadde, sempre nel ’96, al Padova per il
trasferimento del croato Vlaovic al Valencia. Nel dicembre 2002 una sentenza del Consiglio di Stato
francese consentì alla cestista polacca Lilia Malaja di essere tesserata come comunitaria da un club di
basket francese perché cittadina di uno dei 24 Paesi che avevano firmato accordi di associazione con
l’UE. In seguito giocatore di pallamano slovacco Kolpak e il calciatore russo Simutenkov chiesero e
ottennero di essere equiparati ai comunitari per giocare rispettivamente in un club tedesco e nel
Tenerife. Infine, il caso Ekong, calciatore nigeriano della Reggiana, nel 2000 in C1, categoria che non
ammetteva extra-comunitari: il tribunale di Reggio dichiarò illegittima la norma.
18
n. 485 del 20 settembre 1996. Quest’ultimo, a differenza del precedente, non si
limitava ad intervenire solo sugli articoli 6, 15 e 16 della legge n. 91/81, ma
disciplinava altresì l’aspetto giuridico delle società sportive. Venne abrogato il
secondo comma dell’articolo 10 che obbligava i club a reinvestire gli utili realizzati
“per il perseguimento esclusivo dell’attività sportiva”. In più, veniva imposto a tutte
le società sportive professionistiche, in deroga a quanto previsto dall’articolo 2488
del Codice Civile, l’obbligatorietà di nominare un collegio sindacale per le società
sportive costituite in forma di società a responsabilità limitata in ogni caso, anche
quando il capitale sociale è inferiore ai 200 milioni di lire. Inoltre, al fine di favorire
l’azionariato popolare che all’estero era già praticato, alla fine dell’articolo 10 un
nuovo comma disponeva che “non costituisce sollecitazione del pubblico risparmio il
collocamento di azioni e di altri valori mobiliari effettuato dalle società sportive
professionistiche tra persone fisiche o giuridiche per importi unitari non superiori a
dieci milioni di lire”. Ma la riforma riguardò anche l’articolo 12 della legge n. 91/81
che disciplinava i controlli federali sulla gestione. Nella nuova formulazione si
eliminò la possibilità per la federazione di chiedere all’autorità giudiziaria la messa
in liquidazione delle società sportive, recependo così l’orientamento più diffuso in
tema di controlli, riconoscendo alla Federazione sportiva nazionale il potere di
compiere la denuncia di cui all’art. 2409 c.c. Il decreto legge n. 485, del 20 settembre
1996, fu convertito dalle Camere in un provvedimento definitivo attraverso la legge
n. 586 del 18 novembre 1996: quest’ultima modificò alcuni aspetti della disciplina
stabilita in sede di decretazione d’urgenza. In primo luogo, ribadito che il premio di
addestramento e formazione tecnica doveva ritenersi esente dall’applicazione
dell’imposta sul valore aggiunto, ai sensi dell’art.10 D.P.R. n. 633/1972, il legislatore
ha aggiunto che tale premio non concorre alla determinazione del reddito, si fini
Irpeg e Ilor, delle società sportive professionistiche o delle associazioni sportive
dilettantistiche presso cui il giocatore ha svolto la sua ultima attività giovanile o
dilettantistica. Al secondo comma dell’art.10 il legislatore ha poi specificato che
“l’atto costitutivo deve prevedere che la società possa svolgere esclusivamente
19
attività sportive ed attività ad esse connesse e strumentali”. Di fatto, le società
sportive confluivano nell’alveo delle società di capitali e a loro veniva consentito di
perseguire finalità lucrative “soggettive”, al contrario di quanto prevedeva il secondo
comma dell’art.10 della legge 91/1981. Veniva sancito il passaggio del mondo del
calcio ad un sistema business oriented, laddove però la finalità sportiva
contraddistingue pur sempre l’oggetto sociale svolto dalle società: è consentita ogni
attività, anche a carattere economico o imprenditoriale, purché questa si traduca “in
via immediata in forme di promozione e diffusione dello sport”. Ad esempio, si
stabiliva che “l’atto costitutivo deve prevedere che una quota parte degli utili, non
inferiore al 10 per cento, sia destinata a scuole giovanili di addestramento e
formazione tecnico-sportiva”
5
. Il dato normativo ha un’importanza notevole, specie
alla luce delle critiche sollevate da alcuni a seguito della rivoluzione apportata dalla
“sentenza Bosman”, per cui questa avrebbe colpito duramente il settore giovanile
delle società calcistiche poiché, eliminando l’indennità di preparazione e
promozione, esse avrebbero perso ogni interesse economico ad investire sui vivai.
Accogliendo tale preoccupazione, il legislatore da un lato ha previsto
l’obbligo di reinvestire il premio di addestramento e formazione tecnica “nel
perseguimento di fini sportivi”, dall’altro l’obbligo di destinare il 10% degli utili in
favore dei settori giovanili, sia quando la società decide di dividere gli utili tra i soci,
sia quando decide di investire il ricavato nell’attività sportiva. Ad ogni modo, la
legge n. 586/1996 costituisce, di fatto, un lasciapassare per la differenziazione delle
fonti di guadagno delle società sportive professionistiche, ma per esse comporta
anche due conseguenze di rilievo derivanti dall’introduzione dello scopo di lucro.
Una conseguenza diretta è la necessità di remunerare il capitale investito,
perseguendo politiche d’impresa volte a fronteggiare i costi, mantenere l’equilibrio
finanziario e garantire la solidità patrimoniale della società nel medio-lungo periodo.
Indirettamente, poi, le società sportive sono costrette ad “aziendalizzarsi”, anche
5
Fonte: www.parlamento.it.
20
attraverso un rinnovamento manageriale in grado di valorizzare le diverse funzioni
d’impresa e di sfruttare tutte le aree strategiche d’affari della società. In altre parole,
le società sportive professionistiche sono obbligate a divenire più responsabili e sono
chiamate ad un maggiore controllo dei propri bilanci, troppo spesso falsati da un non
corretto ammortamento del costo dei calciatori, ad un migliore funzionamento del
collegio sindacale, ad una maggiore opera di investimento nel settore giovanile e,
infine, alla produzione di utili che dovrebbe rendere appetibile la società per gli
investitori, anche in borsa. La tabella 1.1 riassume l’evoluzione legislativa del settore
calcistico di cui si è discusso.