6
opera di una vita, un’”ipotesi di lavoro circoscritta ma precisa” c’è: la “critique
amusante et poétique”, il “poetical criticism” o se proprio si vuole, secondo la
spregiativa ed inadeguata definizione crociana, la “critica estetizzante”, ben lungi dal
poter essere ridotte a forme di elusiva e dilettantesca evasione, o magari ad una sorta di
“materiale di scarto” dell’officina poetica, sono parte integrante ed essenziale del
contesto culturale in cui la modernità letteraria, “istituita dall’atto duplice e unitario che
scandisce la critica e la poesia, si fa sistema” (4); tali forme di critica sono speculari a
forme di “poesia della poesia”, di poesia per cui quella che sarà la derobertisiana
“collaborazione” della critica, già compiutamente prefigurata in queste esperienze,
diviene un elemento consustanziale, vitale, irrinunciabile, quasi un’algebrica
“condizione di esistenza”. Siamo di fronte ad un portato, ad una conseguenza diretta e,
nel contempo, ad un segnale e ad un sintomo di quella quasi patologica e nevrotica
“coazione alla teoria” (5) o, per usare una felice terminologia adorniana, “necessitazione
all’estetica” (6), che caratterizza la modernità letteraria.
II
Torniamo, per un momento, al “panorama” e all’”ipotesi di lavoro”. Baudelaire e
Mallarmé in Francia, Wilde - con la linea Arnold-Pater che lo precede e lo prepara, e
alla quale la sua idea di independent criticism dovrà essere in qualche modo rapportata -
in Inghilterra, D’Annunzio e Angelo Conti in Italia, sono, a mio parere, figure in cui si
possono individuare gli “esempi” e i “campioni”, tipici e paradigmatici, di quella
concezione creativa e artistica della pratica critica e di quello stretto legame tra la
riflessione critica e la creazione artistica che sono tra i più limpidi tratti distintivi della
décadence; décadence che per pura distinzione di comodo la mia trattazione scinde nelle
duttili ed oscillanti categorie di simbolismo e di estetismo. Questi cinque autori, su cui
sarà incentrata la mia tesi, e il cui estemporaneo e quanto mai aperto e rivedibile
7
“canone” non vuole essere se non uno specimen, parziale ed esemplificativo, di un
movimento e di un àmbito ben più vasti, sono accomunati, al di là delle innegabili
differenze e peculiarità individuali, da forme di teorizzazione dell’autonomia dell’arte.
Com’è noto, peraltro, questa concezione del fatto estetico come autonomamente
fondato, assolutamente puro ed incondizionato - come, di conseguenza, assolutamente
libere ed incondizionate rispetto alla morale e all’utile vorranno essere le facoltà
esegetiche e valutative di questi critici-artisti -, si trovava già, lucidamente formulata,
nel pensiero settecentesco, per quanto, ovviamente, ancora priva delle radicali e
“militanti” esasperazioni che avrebbe incontrato nella poesia moderna, almeno a partire
da Poe. Già in quelle teorizzazioni, ad ogni modo, si avvertiva una certa tendenza al
“ripiegamento all’interno della stessa esperienza interiore dell’arte” (7): ripiegamento,
autogenetico ed autoreferenziale, che è tipico della “poesia della poesia”, della poesia
che si fa, che è quasi forzata a farsi critica di se stessa, e nel contempo ispira ed accredita
una critica che in qualche misura si fa poesia, assume in sé modalità, forme e strutture
che sono proprie della poesia. Come ha scritto Anceschi, delineando un principio
metodologico a cui credo possa essere accordata validità generale, almeno quando si
tratti di compiere “ricognizioni” globali come la mia, “questo avvicinare personalità
diversissime non vuole indicare la formazione di una scuola, ma semplicemente la
grande ricchezza e vitalità di questi concetti” (8); e si noti che Anceschi si spinge fino ad
accostare agli autori citati, unitamente ad altri di sensibilità ed orientamento affini, anche
figure come Valéry, al cui assai peculiare metodo critico e alla cui poetica, che certo
devono molto all’”idea simbolista”, si dovrà perlomeno accennare, e Proust, fautore di
una “teoria dell’arte come salvazione per via di una conoscenza obiettiva”. Credo che la
ricchezza e la vitalità di questi concetti si possano in buona parte ricondurre al legame,
intimo e necessitante e scambievole - quasi “simbiosi mutualistica” o “corrispondenza
biunivoca” -, tra creazione poetica e riflessione critica. Come ha osservato Nicola
Abbagnano, la definizione della poesia “come modo privilegiato di espressione
8
linguistica”, come approfondimento ed affinamento dei valori, essenzialmente
linguistici, metrici, stilistici, che sono propri della poesia e solo della poesia, è
strettamente legata al presupposto dell’autonomia del fatto estetico. E’ questo “il solo
procedimento che può dar luogo ad una definizione funzionale della poesia: ad una
definizione cioè che si presti ad esprimere e a orientare l’effettivo lavoro dei poeti” (9).
Non c’è da stupirsi, dunque, se poeta “autonomo” e poeta “critico” spesso convivono e
collaborano vicendevolmente l’uno con l’altro, e anzi spesso coincidono. “A tale
definizione”, prosegue Abbagnano, “hanno pertanto contribuito i poeti stessi, più che i
filosofi”; e sulla fondamentale distinzione, se non proprio antinomia insanabile, tra
“critico-poeta” e “critico-filosofo” (distinzione, del resto, anche anceschiana), tra artifex
additus artifici e philosophus additus artifici, si dovrà certo tornare, per aggiungere un
breve capitolo, se mai ce ne fosse bisogno, alla storia della grande incomprensione
crociana della poesia moderna. Incomprensione che il postcrocianesimo, nelle sue varie
e diversissime forme e manifestazioni, dalla critica all’estetica, da Fubini a Binni a
Pareyson, ma già, in larga parte, il “saper leggere” vociano, che pure prendeva le mosse
da presupposti latamente crociani, cercarono di sanare, tra le altre cose, proprio
recuperando e riabilitando, pur se con grandi difficoltà e mille cautele, la concezione e
l’idea da un lato di una poesia armata di un preciso “ideale estetico” che ne fissasse e ne
regolasse i “modi di costruire”, dall’altro di una critica in cui sembrasse “di sentir
battere due cuori”, quello del critico e quello del poeta, quello del “soggetto” e quello
dell’”oggetto” - peraltro dispostissimi, all’occorrenza, a scambiarsi i ruoli - dell’atto
critico.
9
III
Alla luce di quanto si è detto - e spero di non aver promesso troppo - credo che non
si debbano sottovalutare le implicazioni che, in sede di storiografia letteraria, potrebbero
forse derivare da una ricerca come questa.
In particolare, alla luce di quanto si è detto a proposito dell’ autonomia dell’arte e
del cosiddetto art pour l’art, non è più molto chiaro, ad esempio, a che cosa alluda
Northrop Frye quando definisce “l’ultima parte del XIX secolo” come “l’età d’oro della
critica contro la critica”, soggiungendo che “molti dei suoi pregiudizi continuano a
sopravvivere” (10). Certo, all’idea “militante” di una “critique amusante et poétique” è
legata una battagliera polemica contro la critica “froide et algébrique”, che dietro il
pretesto “scientifico” di “spiegare tutto” finisce per risolversi in sterile esercizio
accademico, degno solo di tetri e cattedratici “professeurs jurés”. Analoga, per certi
versi, sarà, in seno all’estetismo italiano del Convito e del primo Marzocco, la serrata
polemica contro l’erudizione di stampo positivista e di scuola storica, peraltro
innegabilmente meritoria. Ma non credo si possa affermare - dopo aver peraltro
riconosciuto che “la critica letteraria si occupa di un’arte ed è essa stessa,
manifestamente, un’arte” (11) - che “l’arte per l’arte è una rinuncia alla critica che si
conclude con l’impoverimento della stessa vita civile” (12). In realtà, come si è detto,
l’arte autonoma non formula necessariamente un atto di “rinuncia alla critica”, non
ostacola e non esclude né l’immanenza della facoltà critica alla creazione poetica né una
fattiva e attivamente operante “collaborazione” della critica alla poesia. Essa, anzi,
sembra favorire e, in qualche modo, addirittura esigere la presenza, al suo fianco o
addirittura al suo interno - la poesia come “critica in atto” o “in divenire” -, di una critica
che l’accompagni e la sostenga. Nel momento stesso in cui la poesia si proclama “legge
a se stessa”, entità assoluta, impregiudicata, nutrita e “garantita” da quella “finalità
interna” che è la bellezza, e che la preserva da ogni uso strumentale e da ogni modalità
10
di giudizio che ne metta in questione l’utilità pratica o la liceità etica, allora essa è ipso
facto forzata a cercare e a trovare al suo interno una giustificazione, un fondamento, una
ragion d’essere, che possono giungerle solo dalla collaborazione della critica; di una
critica, beninteso, che voglia essa stessa porsi e presentarsi come “autonoma”, estetica,
che voglia essere essa stessa arte, e che proprio per questo cerchi di enfatizzare e, se
possibile, di riprodurre, per via “simpatetica” e “mimetica”, i valori e i fattori che sono
intrinseci ed immanenti all’opera d’arte, e che ne fondano e ne garantiscono
l’autonomia.
Se poi queste forme di arte, e conseguentemente di critica, possano o meno
“impoverire la stessa vita civile”, è questione che sarebbe interessante sottoporre ad un
sociologo della letteratura; qui non si possono fare che un paio di considerazioni.
Innanzitutto, sembra che già con un Baudelaire o un Wilde, la critica letteraria ed
artistica cominci, accennando ad uno sviluppo che si accentuerà e giungerà a
compimento con le Avanguardie e con la Scuola di Francoforte, a trasformarsi, ad
evolvere e a risolversi in una critica che, da critica dell’”istituzione arte” si traduce,
direttamente o indirettamente, in critica delle istituzioni, della società, dei pregiudizi,
insomma “critica dell’esistente”; una critica che, dunque, si fa specchio e cassa di
risonanza di una forma di “coscienza della crisi”, di quella crisi degli ideali libertari,
delle certezze scientifiche, dei valori borghesi, che attanaglia l’Europa a cavallo tra i due
secoli. Credo che questa critica, talora liquidata come “critica estetizzante”, assente,
oziosa, disimpegnata, possa, magari per negazione e per contrasto, condizionare in modo
non necessariamente negativo la “vita civile”. Del resto, come aggiunge Frye, “il solo
modo di impedire e di prevenire il lavoro della critica è ricorrere alla censura, la quale
ha con la critica gli stessi rapporti che il linciaggio ha con la giustizia” (13). I problemi
che autori come Baudelaire e Wilde, ma anche, pur se in misura assai minore, Mallarmé
e D’Annunzio, ebbero con la “censura”, possono, in quest’ottica, essere visti nella giusta
luce, in relazione alla sdegnosa e spregiudicata autonomia tanto della loro arte quanto
11
della loro critica. E uno dei prodigi di cui questa critica e questa poesia sono capaci è
proprio quello di agire o reagire nei confronti della realtà esterna senza di necessità
varcare, almeno visibilmente, lo spazio magico della pagina, della scrittura, del verbo. Si
delinea, in tal modo, qualcosa di simile a quell’operazione intrinsecamente,
internamente rivoluzionaria, a quella sorta di “rivoluzione nascosta” o, per usare una
terminologia cara a certa critica anglosassone, quella “revolution of the word” che è
l’unica che la poesia possa attuare senza divenire eteronoma, senza ridursi a oggetto o a
strumento di propaganda. L’essenza di tale poesia continua a sottrarsi alle istanze
ideologiche e agli schemi preconcetti propri di una critica che si configuri come
“organismo logico-estetico pensato fuori della cosa, su un premere di impulsi esterni, in
una prospettiva in cui lo ‘sguardo della storia’ (o meglio un particolare modo di muovere
questo sguardo) prevale rispetto a ogni altro modo di affrontare l’enigma” (14).
Sempre per quanto concerne l’aspetto storiografico, con specifica attinenza alla
storia della critica, una ricerca come questa potrà dare o aggiungere, se non un capitolo,
almeno qualche paragrafo all’ardua ma incredibilmente affascinante “storia”, “ancora
tutta da scrivere”, “dei modi diversi in cui fu intesa l’analogia come criterio di giudizio
critico da Baudelaire a Ungaretti” (15). E’ proprio l’analogia, sia come forma di
pensiero che come forma d’espressione, a consentire al poeta-critico “certe fulminee
ricapitolazioni volte a cogliere d’un balzo l’essenziale” (16). In particolare, l’analogia
rivelerà da un lato di essere in grado, come forma di pensiero, di consentire
quell’immedesimazione “simpatetica” tra critico ed artista che sta alla base della forma
saggistica dello “studio”, tipica dell’estetismo; dall’altro, come forma espressiva
sistematizzatasi, con Baudelaire e con D’Annunzio, in modo tanto lucido e rigoroso da
assumere quasi la consistenza e la funzionalità di una vera e propria “istituzione”
retorica, essa si rivelerà strumento principe di quella sorta di “sfida all’ineffabile” -
suoni, colori, profumi - che, negli anni della grande stagione simbolista, tanto la poesia
quanto la critica stavano tentando.
12
IV
Ancora qualche doverosa - e molto cauta - considerazione. Alcune delle esperienze
poetiche e critiche, tra loro coeve e interconnesse l’una all’altra, che sono oggetto di
questa tesi, nacquero, o furono comunque in varia misura contrassegnate, da un diffuso
atteggiamento di insofferenza e di rifiuto nei confronti di varie forme di accademismo
filologico e storicista, dalla non ben precisata “critique froide et algébrique” contro cui
erano indirizzati gli strali di Baudelaire, all’erudizione ottocentesca, di ispirazione
positivista e di scuola storica, cui voleva contrapporsi l’estetismo militante di Conti e di
D’Annunzio. Si tratta, del resto, di una posizione e di un atteggiamento che possono, in
certa misura, trovare un qualche riscontro nella polemica che, con la sua consueta,
garbata ironia, un poeta-critico come Eliot - non per nulla, in qualche misura, debitore,
pur se non senza riserve e in una prospettiva del tutto autonoma, della grande tradizione
simbolista - condusse risolutamente contro quella che chiamava “la scuola critica
spremilimone” (17), e contro quegli studiosi perennemente intenti a riportare alla luce “i
conti della lavandaia di Shakespeare”, o a svolgere - oggi, per di più, con il comodo
ausilio degli strumenti informatici - ricerche intese a calcolare “quante volte si sono
nominate le giraffe nel romanzo inglese” (18). Non c’è una grande differenza tra questi
critici e certi odierni “scienziati”, entusiasmati soltanto dalla “scoperta di una sillaba
usata per cinquantasei volte da Coluccio Salutati” (19).
Sembrano così ulteriormente rafforzate, pur se in modo indiretto e per negazione,
certe considerazioni anceschiane. Anche se l’idea di una critica fondata su di un unico
metodo, rigidamente formalizzato, e magari preso a prestito, con forti implicazioni in
senso determinista, dalle scienze naturali, conobbe la sua più vasta e rigogliosa fioritura
nel quadro del “dogmatismo scientista dell’Ottocento”, è però certo che “un filo collega
con diverse colorazioni dalla metà del secolo passato fino a oggi varie esperienze: dalla
critica che si disse ‘positivista’ fino alo strutturalismo e alla semiotica, fino alla
13
psicoanalisi e alla sociologia, nella volontà continua di poggiare i piedi su una terra
ferma, fuori sia dal ‘terrore’ della letteratura che dai suoi momenti di distensione, e in un
modo in cui tutti possiamo esser coinvolti” (20). A questo sottile “filo” si oppone, e a
tratti s’intreccia, quello parallelo della critica dei poeti, di volta in volta
“impressionista”, “soggettiva”, “estetizzante”, antisistematica e affatto priva di
preoccupazioni e di istanze di “scientifica”, rassicurante oggettività.
Con tutto questo non si possono comunque disconoscere gli stretti legami che hanno
spesso unito la scienza alla poesia. Per limitarsi alla materia che è specifico oggetto di
questa trattazione, non si devono certo trascurare, proprio nel quadro dei legami tra
creazione poetica e riflessione critica, aspetti come il “metodo algebrico” e la “severa
analisi” a cui Poe, a parere di un Baudelaire a sua volta non ignaro della frenologia, della
fisiologia, del mesmerismo, sottopone la materia della sua arte, o come l’”uso”, peraltro
totalmente pretestuoso ed arbitrario, che l’estetismo italiano fece delle dottrine del
Taine.
E’, comunque, piuttosto inquietante che anche in anni relativamente recenti, in
àmbito strutturalista, sia stata posta quantomeno in dubbio, proprio in nome della
“scientificità” di un metodo critico, la stessa possibilità di una collaborazione e di una
convivenza tra atto poetico e atto critico. Secondo Cesare Segre (21), in quello che può
essere definito come “il secolo della critica”, quest’ultima “si pone ormai come
concorrente della poesia: risultato di una attività bloccata, che cerca nell’arte altrui le
energie vitali di cui è priva. Allora il boom della critica non apparirebbe più come il
trionfo della ragione sull’irrazionale della poesia, ma come un proliferarsi tumorale di
cellule sul corpo che suo malgrado la ospita”. Quest’ultima agghiacciante similitudine
può illustrare nel modo più efficace certi aspetti degenerativi dell’abnorme
proliferazione e superfetazione quantitativa della produzione critica. Non è detto, però,
che la critica debba per forza perseguire “una vittoria della razionalità sull’irrazionale
della poesia”, o che possa presentarsi come alleata e fiancheggiatrice di quest’ultima
14
solo indossando le ingannevoli vesti di un’”antagonista camuffata da collaboratrice”, o
assumendo le immonde sembianze di “un parassita che sopravvive su un cadavere”; si
può, al contrario, ipotizzare che il “blocco” della critica possa, almeno in parte, essere
imputato proprio al venir meno di quella funzione di “collaborazione” alla poesia che
essa aveva per lungo tempo esercitato. Segre, comunque, conclude il suo ragionamento
con un “richiamo a qualcosa di molto vicino all’onestà professionale”: il “fine
istituzionale” da cui la critica non deve distogliersi è “quello d’interpretare e illustrare
l’opera d’arte esplicitando quanto vi sia implicito: significati che, nel loro sistema,
costituiscono dei valori”. In tal modo, certo, la critica evita di imboccare “strade
divaganti e divergenti dall’intento ermeneutico”, ma rischia anche di isterilirsi,
“bloccarsi”, restare ghiacciata e imprigionata nei severi limiti di un’operazione che ha il
“rigore” della scienza ma, in certi casi - non certo, com’è ovvio, in quello di Segre,
finissimo e sensibilissimo lettore -, anche il “rigore” del cadavere. Ciò non toglie che
proprio alcuni preziosi princìpi introdotti dal formalismo e dallo strutturalismo, come
l’”immanenza” o la “centralità del testo”, possano essere assai proficuamente applicati
anche allo studio del rapporti tra poesia e critica.
Non è casuale, comunque, che proprio un post-strutturalista come Geoffrey Hartman
abbia potuto parlare “critica salvata dalla poesia” (22). Secondo il critico americano,
“una delle ragioni per cui la critica moderna ha ristretto i propri orizzonti è che
l’elemento creativo, che era parte integrante di certa critica, e che è così proprio della
poesia, è stato espunto, nel senso che si è fatto di tutto per espungerlo. (...) La poesia, lo
spirito della poesia salva il critico ma allo stesso modo lo spirito critico è necessario alla
salvazione della poesia, soprattutto nel mondo contemporaneo”. Non è detto, poi, che
una critica “creativa” si risolva sempre e comunque in una forma di vacuo e sterile
“impressionismo”, o in un estetizzante esercizio letterario fine a se stesso, che riduce il
testo a pretesto, a “traccia”, a labile e flebile gramma. In base al “principio di
reciprocità” di cui ha parlato lo stesso Hartman, rifacendosi esplicitamente ai “maestri
15
dell’Ottocento”, tra cui Baudelaire e Wilde, la critica creativa è, al contrario, capace di
rivalutare da un lato “il proprio potenziale creativo”, dall’altro “il potenziale critico e
riflessivo della poesia”.
Ancor oggi, talvolta, “verso i modi del critico-poeta, del critico-scrittore, del critico-
saggista si alzano dita accusatrici che indicano cartelli di protesta su cui si legge
impressionismo, arbitrarietà, puri motivi di gusto ... Insomma si eleva l’accusa di
cattivo soggettivismo” (23). Non è detto, peraltro, che il soggettivismo debba essere
sempre e soltanto “cattivo”; e non sarà indispensabile condividere l’idea wildiana della
critica come “mode of autobiography” per riconoscere che tale soggettività “ha dato e dà
talora risultati molto apprezzabili” (24). Quest’idea di “critica soggettiva” presenta, del
resto, sorprendenti analogie con certi aspetti del metodo di critici come un Renato Serra
o, in forme e contesti completamente diversi, Barthes.
La critica dei poeti, al di là del rischio di assolutizzazione e di ipostatizzazione dei
propri assunti che incombe su di essa come su ogni critica, in genere si guarda bene dal
promettere più di quanto non possa poi dare, dal prospettare certezze e verità che, nel
suo esasperante ed irrisolto oscillare tra istinto e ragione, tra “impressione” e sistema,
non può garantire neppure a se stessa; tali certezze e tali verità, anzi, sotto la lente di
questa critica apparirebbero forse come una perentoria ed arrogante rivendicazione di un
carattere di assolutezza e di incontrovertibilità. Per contro, “una delle maggiori illusioni
di una critica che pretenda di evitare le eventuali limitazioni e le quasi inevitabili
contraddizioni del gusto nelle quali può incorrere, e spesso vi incorre, il critico-poeta in
quanto direttamente implicato nel ‘fare poesia’, risiede nella convinzione d’essere in
grado di formulare giudizi di valore oggettivi e definitivi”. Anche il poeta-critico può
tendere, come il caso specifico di Eliot mostra in modo evidente, verso una qualche
forma di sistematicità, cercando, per usare una formulazione baudelairiana, di “eriger en
lois ses impressions personnelles”; e allora “lo scontro fra alcuni di questi elementi fissi
di verità (critica, estetica, di sistema) e l’intuizione (poetica, di rispondenza personale,
16
creativa) di ‘ciò che l’età richiede’ risulta a tratti violento, contraddittorio, e provoca
squilibri prospettici, esasperazioni di giudizio che tendono, da apertamente personali, a
pretendere validità di categorie assolute” (25). Eliot - esempio quasi paradigmatico di
poeta-critico - “è alla ricerca di un metodo (non assoluto, ma sempre confrontabile,
controllabile) e nel medesimo tempo sembra averne timore”. (26) L’unico strumento
attraverso il quale queste contraddizioni possono in qualche modo ricomporsi, restando,
nel contempo, vitali e feconde, sarà qualcosa di non molto diverso dalla “sistematicità
aperta” teorizzata e realizzata dall’estetica fenomenologica, e, come si vedrà, già
presente in nuce, e già attivamente operante, negli scritti estetici di Baudelaire.
Non si vuole, con tutto questo, negare che la critica possa aspirare ad uno statuto di
scientificità, e conseguirlo in modo compiuto. “I fatti sono esaminati scientificamente, le
fonti secondarie sono usate scientificamente, i vari campi sono investigati
scientificamente, i testi sono editi scientificamente. La struttura della prosodia è
scientifica: così la fonetica, così la filologia. Quindi la critica letteraria è scientifica,
oppure tutti questi addestratissimi ed intelligenti studiosi stanno perdendo il loro tempo
intorno ad una pseudoscienza” (27). Credo che questa quasi lapalissiana considerazione
possa essere sostanzialmente condivisa, a patto di non volervi scorgere una forma di
supina ed irriflessa acquiescenza, del tipo “la critica è scientifica perché si presenta
come tale e tale si dichiara”. Bisogna però precisare - senza con questo voler ridurre
filologia, storia della lingua, sociologia della letteratura e quant’altro al rango di umili
“ancelle” della critica - che “la critica mostra una sempre più resoluta tendenza a
definirsi quale attività autonoma”, forse in termini non molto diversi da quelli in cui la
sua “autonomia” è stata definita e considerata nel paragrafo precedente. “Di fatto, il
critico è scienziato, ma non si risolve nella scienza e nei metodi; è storico, ma non si
risolve nella storiografia; è filologo, ma non si risolve nella filologia; è studioso di
filosofia, ma non si risolve nelle questioni generali...” (28). La scientificità della critica
dovrebbe dunque essere considerata e definita non tanto o non solo in relazione agli
17
strumenti e ai materiali di cui essa si serve, ma su basi che siano sue proprie, autonome,
ad essa esclusive.
Non si sa, inoltre, fino a che punto coloro che usano, con riferimento agli studi
letterari, il termine “scientifico” - magari “con un tono esclusivo, quasi da esorcisma”
(29) - si siano effettivamente interrogati, come forse dovrebbero, sulla problematica ed
inquietante evoluzione che lo statuto e la nozione di scienza hanno subìto nel nostro
secolo, dal fallibilismo al falsificazionismo fino al relativismo di epistemologi come
Thomas Kuhn, la cui applicazione allo studio dell’evoluzione e del mutamento dei
sistemi letterari ha sortito, non a caso, interessanti risultati. E prospettive ugualmente
affascinanti potrebbero forse essere dischiuse, in particolar modo per ciò che concerne lo
studio delle avanguardie, dall’applicazione ai fatti letterari della teorie di un Feyerabend,
con il suo “anarchismo” o “dadaismo” scientifico. Al di là delle provocatorie
esasperazioni, in senso esageratamente relativistico ed antidogmatico, insite in tali
teorie, sembra, in ogni caso, buona norma di igiene intellettuale guardarsi comunque da
“tutti coloro che sono disposti ad accettare un’opinione solo se essa viene espressa in un
certo modo e che prestano fede ad essa solo se contiene certe frasi magiche, designate
come protocolli o rapporti d’osservazione” (30). In generale, e a maggior ragione nel
caso di ogni critica che voglia presentarsi come scienza, “si determina davvero un
singolare trasferimento quando si riporta alle scienze che si dicono umane quella fiducia
assoluta nei procedimenti e nei metodi euristici che le stesse scienze che si dicono esatte,
senza perdere la produttività della ricerca e l’efficienza dei risultati, anzi proprio nel
momento in cui produttività ed efficienza sono al più alto livello, hanno messo in crisi”
(31).
18
V
Credo che l’innegabile impasse, riconosciuta e lamentata ormai da più parti, in cui la
critica si dibatte da qualche anno a questa parte, sia da ricondurre, in certa misura, da un
lato all’esasperazione - e nel contempo, forse, alla crisi - del suo carattere e del suo
statuto di disciplina “scientifica”, specialistica, strettamente tecnica, dall’altro alla
perdita, che sembra irrimediabile, di quel prezioso e vivificante ruolo di collaboratrice e
di guida del lavoro poetico che essa ha per lungo tempo esercitato, e ancora esercitava
in anni non molto lontani dai nostri. Sarebbe, credo, sintomo di goffo e generico
materialismo ridurre questa impasse ad una sorta di “crisi di sovrapproduzione” del
lavoro critico. Peraltro l’abnorme, ipertrofica proliferazione e superfetazione del
“discorso secondo”, della riflessione sulla letteratura più che per la letteratura, è un
fenomeno che caratterizza in modo eminente questi ultimi anni; e ben difficilmente,
credo, vi si potrebbe porre rimedio ricorrendo all’utopistica “ecologia letteraria”
prospettata da Ferroni, che finirebbe, comunque, per essere in qualche modo
condizionata da presupposti metodologici “di parte” e da pregiudizali ideologiche.
Indubbiamente, come ha scritto Sapegno (32), “la riflessione critica sui fatti artistici
(...) acquista nel quadro della civiltà letteraria italiana del Novecento un rilievo
inconsueto, una vastità e varietà di manifestazioni, un rigore metodico, quali forse non
aveva conosciuto mai nei secoli precedenti e solo in parte erano stati precorsi in tempi
recenti dall’atteggiamento consapevole di alcuni grandi scrittori (Foscolo, Manzoni,
Leopardi), nonché soprattutto dall’attività militante, ma già fortemente specializzata, di
un Tenca e di un De Sanctis”. A mediare tra l’esempio dei grandi dell’Ottocento italiano
e il grande sviluppo novecentesco della critica collaboratrice, sta la lezione dei
simbolisti francesi, e più in generale della tanto disprezzata “critica estetizzante” del
secondo Ottocento, a cui si ricollegano, più o meno direttamente, varie esperienze, dal
19
“saper leggere” vociano alla critica ermetica, dalla critica di un Valéry alla
decostruzione. Il progressivo “accentuarsi della componente riflessiva e critica in seno
alla stessa esperienza artistica e il suo prender coscienza di sé, fino a costituirsi in
un’attività parallela e autonoma, fiancheggiatrice e indipendente, non senza la pretesa a
volte di esercitare una funzione non più servile e marginale, anzi preminente, di stimolo
e di guida, sono fatti concomitanti, non soltanto italiani, ma che in Italia per l’appunto
prendono un rilievo più netto e toccano un grado più alto di consapevolezza”. Questo
carattere di “attività fiancheggiatrice ed indipendente” e questa “funzione di stimolo e di
guida” hanno trovato espressione soprattutto nelle riviste che si sono susseguite in gran
numero nel nostro secolo, e a cui spesso si sono strettamente legate le posizioni e
l’attività di autori, di gruppi e di correnti; e si vedrà, in questo caso specifico,
l’importanza che riviste quali Il Marzocco e Il Convito rivestirono nel quadro del
programma culturale perseguito dall’estetismo. Di conseguenza, l’”incessante
susseguirsi” delle riviste non indica necessariamente, come pure è stato ipotizzato, “la
prevalsa dell’elemento critico riflessivo su quello fantasioso creativo” (33), fino a
configurare un’ipotetica “vittoria della critica sulla letteratura”. La grande diffusione e la
grande importanza delle riviste sono, al contrario, un mirabile esempio proprio di
quell’attiva e fattiva collaborazione tra critica e poesia il cui venir meno rappresenta,
forse, una delle principali cause dell’odierna impasse della critica.
Quanto poi alle istanze di scientificità accampate da quest’ultima, credo si possano
condividere alcune penetranti osservazioni di Giulio Ferroni: “la filologia tende a
muoversi al di là del certo addirittura verso l’esatto, o meglio verso un suo simulacro.
(...) Quanto più perfetta e avanzata è la verifica e la ricostruzione filologica, tanto più si
allontana la vitalità dei testi, il loro rapporto con un continuum vitale, il confronto con il
loro essere storico ed esistenziale” (34). Il fatto, poi, che in questa “verifica” e in questa
“ricostruzione” giochino un ruolo determinante le nuove tecnologie informatiche,
“proposte e imposte dal mercato”, può rappresentare - sia detto per inciso - un altro