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capacità di creare occupazione aveva avuto conseguenze sui quartieri retroportuali e sul
centro cittadino, dato che molti porti avevano il sito storico nell’inner- city. Con
l’industria e le attività collegate ridotte o trasferite altrove e i posti di lavoro diminuiti si
era attivato un circolo vizioso di obsolescenza, mancanza d’investimenti e degrado
(Hoyle, 1994, p. 21- 35). Rivalutare quei “vuoti urbani” significava pure una nuova
possibilità d’investimento e attrazione di attività legate ad usi alternativi come il
turismo, dato che in certi casi si trattava di siti di particolare pregio architettonico o
paesaggistico. Dai porti antichi si potevano ottenere parchi urbani marittimi da sfruttare
per finalità ricreative e di svago o addirittura per insediare nuova edilizia privata, uffici
o attività commerciali.
E’ partita così la stagione della riconversione del fronte del porto. La riconquista
del waterfront è quindi l’ultimo stadio della relazione Città – Porto, dopo la parabola
discendente vissuta da molte città portuali con la deindustrializzazione. Si tratta di un
processo complesso che vede in campo attori pubblici e privati e la strategia in cui si
inserisce è quella di progetti di ampia riqualificazione urbana dei centri storici e dei
quartieri retroportuali in degrado. Nel riconvertire questa parte della città non si tratta
solo di recuperare dei “vuoti urbani”, si tratta anche di cogliere occasioni per attirare
investimenti privati nella città in direzione di nuove attività. Si è rilevato però che quasi
ovunque il grande affare di chi investe è la possibilità di realizzare nuova edilizia di
qualità su suoli poco costosi. Questo significa che tale processo di riqualificazione di
aree degradate può determinare fenomeni di sostituzione sociale nel caso in cui non
vengano previste specifiche azioni relativamente a: coinvolgimento della popolazione
residente nelle forme di laboratori collettivi, rafforzamento dei legami sociali,
programmi di formazione e rivitalizzazione dell’economia locale, inserimento di servizi
sociali per l’inserimento delle minoranze etniche, una politica per nuova residenza
sovvenzionata. Dall’altra parte i processi di trasformazione urbana possono produrre dei
cambiamenti non previsti nel tessuto sociale: è il caso della gentrification, oppure
l’espulsione delle comunità insediate con la totale terziarizzazione dell’area
riqualificata. Tali problematiche sono introdotte nel secondo capitolo.
La città portuale presa di riferimento per affrontare queste tematiche è Marsiglia,
della quale sono presentati alcuni aspetti nella prima parte, nel corso della disamina del
dibattito internazionale sulla città portuale contemporanea, per poi essere approfonditi
nel quarto capitolo dove sono descritti il contesto economico, urbano e socio- politico.
Marsiglia assume in questo dibattito valenza emblematica per la sua posizione nel
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contesto Euromediterraneo, oggetto di forti opzioni di politica territoriale europea che si
concretizzano nei programmi d’integrazione per la sponda Sud. Al partenariato definito
nel “Processo di Barcellona” contribuiscono tutti i Paesi mediterranei secondo i principi
della cooperazione allo sviluppo, ma la Francia intende ricoprirvi un ruolo di primo
piano. Il Mediterraneo, con l’affermazione delle economie asiatiche, è considerato
un’area destinata a vivere una nuova stagione dopo la lunga marginalizzazione rispetto
alle rotte atlantiche.
Marsiglia, la città più antica di Francia e avamposto sul Mediterraneo proteso
verso Oriente, ha goduto per secoli di prosperità grazie ai commerci. Ma quando la
Francia ha perso il suo peso di potenza coloniale e i porti del Mediterraneo in generale
sono stati soppiantati progressivamente da quelli del Mare del Nord, come Rotterdam,
Anversa o Amburgo, per la “ville phocéenne” è iniziata la decadenza. Questa decadenza
è stata accentuata dalla difficoltà di riconversione delle attività portuali, per il 70%
basate sui prodotti petroliferi, rispetto al più florido sbarco/imbarco dei container. Per
quest’ultima attività il porto marsigliese aveva fino a qualche anno fa le tariffe tra le più
alte, che l’hanno portata a vedersi scavalcare da Genova prima e Barcellona poi come
volume di traffici a cavallo del decennio 1985-1995 (Soda, 2003, p. 107-110). La
volontà di rafforzare l’attrezzatura portuale investendo nelle infrastrutture del porto di
Fos (facente capo anch’esso all’autorità portuale marsigliese) non ha prodotto gli effetti
desiderati. Pur dotata di un’ottima università e di una aggregazione di centri di ricerca
seconda solo a quello della regione parigina, Marsiglia si trovava alla metà degli anni
novanta, secondo i dati dell’INSEE, con un tasso di disoccupazione del 17%,
decisamente più elevato della media nazionale francese e dell’Unione Europea. A
questo bisogna aggiungere l’alta criminalità presente nella zona e le tensioni razziali
legate alla massiccia immigrazione dal Maghreb che aveva accresciuto la banlieue a
partire dagli anni Sessanta. L’immagine della città era profondamente deteriorata a
dispetto di una storia, di attività culturali e di bellezze paesaggistiche di tutto rispetto.
Nel 1994, sull’esempio di altre città di porto trovatesi di fronte alla necessità di una
riqualificazione per rivitalizzare un’economia troppo basata sul settore industriale, si è
optato per un progetto che riguardasse la sistemazione della facciata marittima della
città. Per comprenderne la natura è necessario tenere in considerazione le relazioni Città
– Porto, tema fondamentale per tutte le città portuali moderne, senza le quali la
presentazione di Euroméditerranée sarebbe deficitaria, nonché i significati che il
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progetto assume, dato che quella di Marsiglia era una crisi sociale e di governance
locale prima ancora che economica.
Nel terzo capitolo si trova delineato a grandi tratti un modello di rigenerazione
urbana, che trova attuazione in due realtà, sotto alcuni profili simili a Marsiglia, quelle
di Genova e di Bilbao. Il capoluogo ligure perché è stata la prima città portuale italiana
che ha pensato il recupero del suo waterfront, il Porto Antico, per riconvertirlo a nuovi
usi urbani. La città basca perché è considerata in Europa un caso all’avanguardia di
riqualificazione urbana. Le difficoltà di Marsiglia dopo la crisi economica erano
presenti pure in Bilbao e soprattutto in Genova e per questo motivo sono inserite le
esperienze di queste altre due città, che rafforzano l’impostazione secondo la quale lo
scenario generale della città portuale è quello di un declino consolidato nelle sue attività
tradizionali. Ma nel confronto del caso di Marsiglia con quelli di Genova e di Bilbao si
pone l’accento sulla sperimentazione delle opportunità offerte dalle politiche culturali,
di conservazione dell’eredità storica nel primo caso, o di produzione ed innovazione
dell’arte e della cultura nel secondo. Si tratta di città che hanno attuato piani di
riqualificazione urbana assumendo la valorizzazione del patrimonio culturale,
l’innovazione culturale e l’animazione socio- culturale come punti di forza dei progetti
di rigenerazione urbana. Le politiche culturali sono considerate come un volano delle
potenzialità attrattive della città e come motore di rigenerazione culturale ed economica
di aree depresse.
Dopo che nel corso del primo, secondo e quarto capitolo sono stati affrontati vari
aspetti della realtà della metropoli portuale marsigliese, il mosaico si conclude con la
descrizione del progetto di riconquista del waterfront marittimo di Marsiglia:
“Euroméditerranée”. Si tratta di un progetto che ha una dimensione di politica urbana
riguardo al recupero e rigenerazione di quartieri vetusti, nonché del ricentramento della
città su sé stessa riequilibrando la qualità urbana tra i quartieri litoranei.
Euroméditerranée è una risposta alla crisi politica della città perché è un progetto
voluto dalla municipalità per rilanciare la metropoli dal punto di vista dell’immagine,
per contrastare il declino, le tensioni sociali, attirare nuovi investimenti per sviluppare il
settore terziario e chiaramente creare nuova occupazione. Il grande progetto urbano è
anche una risposta alla crisi identitaria legata alla decadenza della città dal punto di
vista economico e di funzioni rispetto alle altre realtà metropolitane francesi.
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PARTE PRIMA
Il dibattito sulla città portuale contemporanea
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1. Il ruolo della città portuale contemporanea in
Europa.
1.1 Concetti di sistema portuale nella pianificazione per lo sviluppo.
La presenza di un “sistema portuale” caratterizza a fondo il sistema locale in cui è
inserito, non solo come impatto ambientale, ma pure per le ricadute che ha
sull’economia dell’area, la produzione e l’occupazione e quindi sullo sviluppo
demografico. E’ necessario da subito distinguere tra “sistema portuale” e “insieme di
porti”. Quest’ultimo termine riguarda porti appartenenti ad un medesimo tratto costiero,
vicini fisicamente e magari anche dal punto politico- istituzionale. Invece un “sistema
portuale” indica un coordinamento funzionale delle strutture portuali presenti in una
medesima area (Vallega, 1985, p. 29-42). Vallega individua in un “sistema portuale” la
presenza di alcune proprietà (ib., p. 51-66) :
ξ Interdipendenza tra porti e città costiere di un litorale.
ξ Il sistema portuale è un sottosistema di un regime territoriale e può non
coincidere necessariamente con una regione istituzionale.
ξ Esigenza primaria del sistema è la massimizzazione del livello di connessione
porti- regioni.
ξ Le funzioni dei singoli porti valgono in quanto inquadrati nelle finalità del
sistema, all’interno di una gerarchia che persegue un rafforzamento della
proiezione esterna.
L’installazione di un complesso portuale si accompagna ad un distretto di attività
e industrie, legate spesso all’importazione delle materie prime come ad esempio i
prodotti petroliferi, che hanno sfruttato il vantaggio di trovarsi in un luogo che favorisce
11
i trasporti. I cambiamenti avvenuti nel sistema dei trasporti, dal gigantismo navale
all’unitizzazione, portano all’esigenza di coordinare le funzioni di tratti costieri investiti
da un’espansione dell’economia internazionale e da una maggiore specializzazione.
A partire dagli anni Sessanta sono nati dei piani per dare ordine ai porti ubicati
lungo una costa investita da un denso ed esteso sistema industriale. Ad esempio la
formulazione delle Maritime Industrial Development Areas (MIDAs): le strutture
litoranee ricettive servono le industrie della regione legate alla trasformazione dei
metalli o alla raffinazione. Secondo Vigarié la prima generazione di MIDAs prende
campo dalla fine degli anni Cinquanta fino all’inizio dei Settanta. Vallega individua i tre
ordini di convenienza che caratterizzano le MIDAs (ib., p. 157):
1. Economie da trasporto marittimo per le materie prime.
2. Economie da movimentazione portuale per l’industria litoranea.
3. Economie di scala.
Negli anni Sessanta si pensava che ciò permettesse alle MIDAs di costituire un
modello di sviluppo dalle potenzialità indefinite, grazie al boom dei prodotti petroliferi
e agli impulsi che venivano dall’industria della lavorazione dei metalli, tanto da restare
il motivo dominante dell’industrializzazione costiera. Tuttavia all’inizio degli anni
Settanta le MIDAs entrano in crisi per una serie di fattori: dalla delocalizzazione alla
crisi petrolifera del 1973, dalla coscienza ambientalista contro l’inquinamento che
devasta le coste al progressivo emergere del settore terziario anche nelle città portuali.
In uno scenario in cui la globalizzazione ha allargato i mercati e ne ha aperti di
nuovi si è avuto un aumento dei traffici via mare. Il boom dei container e le conseguenti
economie di scala (con il calo dei costi che ciò ha permesso) hanno portato ad uno
sviluppo del trasporto marittimo dalla metà degli anni Ottanta. Tuttavia nel contempo si
era avuto un miglioramento ed un incremento delle reti di trasporto in generale, su
strada e su rotaia in particolare, nonché dei mezzi di comunicazione.
Sempre a partire dagli anni Ottanta, la ristrettezza dei siti e la mancanza di spazi
ha portato molte industrie a delocalizzarsi verso regioni economiche più interne, in
prossimità di interporti o dove si poteva sfruttare meglio i nodi delle reti di trasporto,
spesso su suoli economicamente più vantaggiosi. Inoltre con i container non era più
necessario essere in prossimità delle infrastrutture portuali dove avveniva la rottura di
carico, proprio perché la catena dei trasporti aveva annullato la rottura di carico
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garantendo una maggiore libertà localizzativa per le aziende (Musso, Benacchio,
Ferrari, 1999).
Questa rivoluzione del ciclo del trasporto si è accompagnata ad un progressivo
allontanamento del porto da quel sistema industriale che gli ruotava intorno. Si nota così
in quegli anni che se da una parte c’è stato un aumento dei trasporti marittimi, dall’altra
la grande maggioranza dei porti viveva una fase di declino con perdita di occupazione.
Quello che stava cambiando era infatti lo scenario. Stavano crescendo e sviluppandosi
quei porti che si erano attrezzati per affrontare “il boom del container”, come ad
esempio nel Mediterraneo gli scali di Barcellona, Gioia Tauro o Algeciras, mentre di
contro vivevano la crisi quei porti che basavano le loro attività principalmente sulla
raffinazione dei prodotti petroliferi, tipo Marsiglia.
I porti conoscevano dunque una fase di agguerrita concorrenza fra loro in questa
nuova era del grande affare dei container: <<[…] il progresso tecnico nei trasporti ha
trasformato il mercato dei servizi portuali da un quasi-monopolio ad un mercato
tendenzialmente concorrenziale, in cui i bacini di utenza si sovrappongono e la “rendita
del produttore” (il terminalista portuale, pubblico o privato) si è erosa a favore del
consumatore (l’armatore, lo spedizioniere, l’operatore del ciclo intermodale).>>
(Musso, Benacchio, Ferrari, 1999)
Adeguarsi a questa lucrosa attività disponeva, oltre alla presenza di bacini
adeguati, consistenti investimenti nelle attrezzature per lo sbarco/imbarco e un
ripensamento delle strategie. Per quanto riguarda l’adeguamento per la ricezione delle
navi portacontenitori si elabora il modello “Anyport” sul quale si impostano piani di
espansione portuale per un intero fronte litoraneo e per il retroterra. Ad esempio
l’adozione del “Piano Delta” per il coordinamento dei porti tra le foci del Reno e della
Schelda ha arricchito le funzioni di Rotterdam e Anversa permettendo una vera e
propria simbiosi tra porto e regione (Vallega, 1985, p. 37-41).
Le ripercussioni non finiscono qui. Infatti è importante sottolineare che il
fruttifero commercio ad alto valore aggiunto in questione non ha avuto alcuna
significativa ricaduta sull’occupazione nei porti, poiché l’attività di sbarco/imbarco
necessita di minore manodopera rispetto al passato. Quella che è la parte più rilevante
del lavoro è fatta dalle attrezzature meccaniche, e in genere le merci sono solo di
passaggio dal porto. Questo ci porta a definire queste innovazioni come capital
intensive ma con una decrescente retribuzione del fattore lavoro (Musso, 1996). In
generale quindi molti porti hanno vissuto una fase di ristrutturazione e la perdita di
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occupazione in questo settore è stata considerata rilevante in tutte le vecchie città
portuali. Oltre all’evidente costo sociale bisogna aggiungere il costo ambientale per la
collettività dovuto alla necessità del porto di occupare nuovo spazio costiero per
l’allocazione delle attrezzature e delle tonnellate e tonnellate di container da imbarcare o
che sono stati sbarcati.
E’ doveroso notare che tutto questo va ad aggiungersi all’inquinamento marino ed
atmosferico che la presenza di un porto comporta e che da un po’ di tempo a questa
parte sta facendo riflettere sulla necessità di pensare politiche per uno sviluppo
sostenibile dei sistemi portuali. Tale tematica, accennata nel secondo capitolo, deve
essere inserita in un quadro di ripensamento del suolo portuale nelle sue funzioni. Il
dibattito non si limita alla lotta all’inquinamento costiero ma prevede pure di prendere
in considerazione attività turistiche, valorizzazione del trasporto fluviale ove possibile e
recupero delle strutture portuali in disuso.
14
1.2 La struttura economica dei sistemi portuali e la transizione
postindustriale.
Un porto può avere una funzione commerciale se le sue attività sono
principalmente centrate sull’attività di sbarco/imbarco e deposito merci e sul trasporto
dei passeggeri oppure può avere una funzione industriale se la sua attività è legata alla
lavorazione dei prodotti del sistema industriale direttamente connesso al porto.
In relazione alla funzione del porto ci sono delle attività che vengono a svilupparsi
per rispondere alle necessità dei clienti dei servizi portuali: armatori, spedizionieri,
borse merci, agenzie marittime, servizi assicurativi, ditte import/export nel caso di porti
commerciali; alberghi, pubblici servizi, attività turistiche per quei porti interessati al
movimento crocieristico dei passeggeri; cantieristica navale, edilizia per le infrastrutture
marittime, raffinerie per i porti industriali.
Generalmente un porto si caratterizza per una funzione principale e storicamente i
porti erano legati a funzioni militari, commerciali, oppure alla pesca.
Solamente dopo la Seconda guerra mondiale l’industria è stata attirata dal porto in
modo rilevante, mi riferisco alla costituzione delle MIDAs come precedentemente
accennato. Il motivo di questa attrazione è appunto legato alle “economie
d’agglomerazione” (Musso, 1996, p. 31-40) cioè al vantaggio di trovarsi in un luogo
dove si concentra un sistema che produce e beneficia di beni e servizi da e per le attività
marittime/portuali.
Ad esempio per l’industria è conveniente localizzarsi in prossimità di un porto
quando il trasporto delle materie prime è più economico via mare anziché via terra. Le
economie di scala fanno aumentare le richieste grazie al minor costo e questo spinge
ancora la produzione favorendo la specializzazione.
Da ciò si ricava che il porto ha reso conveniente la localizzazione di tutte quelle
industrie la cui produzione è destinata oltremare e/o la materia prima arriva via mare; di
tutte quelle attività di trasporto merci che viaggiano via mare e quindi è come dire che
il porto è il loro fornitore di materia prima; di tutte le raffinerie degli oli minerali perché
il greggio costa meno trasportarlo via mare per una questione di peso specifico della
materia (dopo la raffinazione il discorso cambia...). Idem per l’industria siderurgica è
più conveniente far arrivare i minerali ferrosi via mare e poi trasportare via terra il
prodotto finito (Musso, 1996, p. 31-40). Per questo motivo grossi impianti siderurgici
sono nati presso i porti inglesi e nel nord della Francia.
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L’insieme dei gruppi di attività considerati ha avuto un riflesso sulla crescita
demografica delle regioni portuali. La città offre forza lavoro al sistema produttivo
portuale e spesso è la destinataria delle attività del suo porto. Così in Europa porti
importanti hanno fatto da traino allo sviluppo demografico di aree metropolitane
caratterizzate per essere centri di attività industriali e terziarie affermate a livello
nazionale e internazionale per la loro specificità come Londra, Rotterdam, Amburgo,
Anversa, Marsiglia, Genova, Liverpool, Bilbao, Le Havre…
Questo significa che il porto ha un effetto indotto sull’economia della regione in
cui si trova, oltre a causa è pure effetto di questo sviluppo data l’importanza della
domanda delle imprese del luogo che richiedono i suoi servizi e delle persone nel caso
del trasporto passeggeri. Non è il porto di per sé che può influenzare l’intera economia
del luogo, è magari l’anello più importante di una catena, dato che magari è stato il
motore dello sviluppo iniziale dell’area.
Spesso la politica statale per il rilancio di un area depressa è stata quella di
consistenti investimenti per dotare un luogo d’infrastrutture portuali che facessero da
traino all’industria chimica, navale o della raffinazione, come è accaduto in Italia, in
Olanda, in Inghilterra o in Francia con il cospicuo investimento in Fos per rafforzare il
porto di Marsiglia negli anni Sessanta (Musso, 1996, p. 48-59).
L’influenza del porto à storicamente da considerarsi quasi sempre positiva:
l’impatto del porto sull’economia cittadina o regionale è rappresentata dal valore
aggiunto delle attività legate al porto.
Tali attività sarebbero state comunque presenti pure in assenza del porto? Dalla
tipologia dell’influenza del porto sulle attività a cui è connesso, Yochum e Agarwal
propongono la classificazione delle attività portuali in:
ξ Port related
ξ Port required
ξ Port attracted
ξ Port induced
Inoltre bisogna chiedersi se tali attività rimarrebbero localizzate ancora in zona
qualora il beneficio di essere vicine ad un sistema portuale venisse meno? Le tendenze
evolutive nell’economia delle regioni portuali saranno discusse a partire dai
cambiamenti strutturali che sono avvenuti a partire dalla fine anni Settanta.
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Fino ad allora oltre i ¾ dell’industria pesante europea era situato nelle zone
costiere per la convenienza di far viaggiare via mare le materie prime. Lo sviluppo delle
aree costiere si innesca negli anni Sessanta con la crescita dell’industria pesante
(siderurgia, petrolchimica, metallurgia), nella fase successiva convive con lo sviluppo
dell’industria manifatturiera, mentre la trasformazione definitoria del periodo dalla fine
degli anni Settanta fino ai Novanta è senza dubbio la deindustrializzazione.
La globalizzazione economica ha comportato un graduale trasferimento delle
attività nei Paesi in via di sviluppo (per il basso costo della manodopera, la carenza di
leggi sulla tutela del lavoro e dell’ambiente, i pochi oneri fiscali…) con una
conseguente nascita dell’industria pesante in questi siti favorevoli. Nei paesi africani ed
asiatici sorgevano complessi industriali che lavoravano le materie prime sul posto o
facevano le prime fasi della lavorazione. Sono emerse quindi nel mercato globale le
economie di paesi come la Cina, il Brasile, Taiwan o la Corea del sud.
La ridistribuzione delle attività produttive ha messo in crisi l’industria pesante nei
paesi di vecchia industrializzazione e in particolare sono state colpite le aree portuali
caratterizzate per quelle produzioni che erano ormai diventate il punto di forza di alcuni
dei Paesi in via di sviluppo (Musso, 1996, p. 142-145). Si è avuto così un netto calo
negli anni Ottanta del trasporto delle materie prime che ha svantaggiato i porti
industriali e nel bacino del Mediterraneo ne hanno particolarmente sofferto i porti di
Marsiglia e Genova.
La fuga delle imprese al di fuori della regione portuale comporta una caduta dei
livelli occupazionali e porta ad un depauperamento del tessuto economico, nonché la
perdita di alcune funzioni di leadership quando l’incapacità del porto a riconvertirsi
frena la capacità di crescita e la diffusione del benessere sull’area circostante, con
evidenti ricadute sociali.
Di contro, quello che bisogna notare è che il trasporto via terra è migliorato per
economicità e per la maggiore diffusione delle reti di trasporto grazie agli importanti
investimenti che i paesi europei avevano fatto in questa direzione. La “rivoluzione
informatica” e il progresso tecnologico in generale, oltre a favorire la comunicazione,
hanno permesso di migliorare la produttività e le operazioni quando applicate alle
strutture portuali,
1
infine il processo di globalizzazione dei mercati ha cambiato le
funzioni di molti porti ed ha favorito il boom del trasporto con i container.
1
Sono stati creati anche speciali software per la gestione e la coordinazione delle operazioni nel porto.
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Fino agli anni Settanta i porti non avevano ancora effettuato grossi investimenti
tecnologici e la quota di fattore lavoro era rilevante, c’era bassa produttività per la
lentezza delle operazioni di trasbordo e questo comportava lunghe soste delle navi nei
porti con alti costi per gli armatori (Musso, 1996, p. 72-95).
L’affermarsi dell’ “unitizzazione”, cioè la standardizzazione delle operazioni
grazie ai container, ha permesso trasporti senza interventi sull’unità di carico: si parla di
trasporto intermodale dove il trasbordo da nave ad altro mezzo di trasporto avviene
tramite i bracci meccanici, quando prima erano necessarie numerose squadre di portuali
che scaricavano la merce e la riponevano negli appositi magazzini in attesa di una
ulteriore destinazione.
Ora è chiaro che questa standardizzazione delle operazioni permette un taglio alla
manodopera e un ulteriore minor costo dovuto alla riduzione dei tempi di sosta delle
navi che hanno fatto scalo. Non solo, a sua volta l’economicità del trasporto consente
l’utilizzo di navi cargo più grandi rispetto al passato per il vantaggio di poter trasportare
un volume maggiore di merci (ib., p. 72-95). Questo comporta la necessità di disporre
di bacini profondi e banchine più grandi, cosa che non tutti i porti erano in grado di
garantire o comunque di dotarsene nel breve periodo. Per reggere il passo con i tempi e
cavalcare l’onda del boom del trasporto containerizzato si rendevano necessari grandi
investimenti nelle infrastrutture portuali (ib., p. 72-95).
Un importante conseguenza che si è avuta è stata la progressiva sostituzione di
fattore lavoro con fattore capitale. La manodopera richiesta è diventata minore e molti
porti sono stati costretti a lunghi processi di ristrutturazione con un conflitto sindacale
sempre più aspro tanto che in molti porti si sono avuti lunghi scioperi o addirittura
occupazione delle banchine come è accaduto a Marsiglia negli anni’90.
2
Inoltre la “containerizzazione” dei trasporti modifica profondamente
l’organizzazione dello spazio portuale perché è land intensive. Tale riconversione è stata
difficile per porti tradizionali come Genova e Marsiglia che si sono trovati all’inizio
impreparati. Quest’ultimo in particolare è collocato in un sito dove tutti gli investimenti
erano stati fatti per le attività “classiche” del trasporto delle materie prime. Pure le
strutture di Fos erano state concepite per il “boom dei prodotti petroliferi”, finché la
crisi del 1973 rese chiaro che lo sviluppo non sarebbe stato indefinito.
2
L’evento è pure raccontato nel film “La ville est tranquille” di Robert Guédiguian.
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Molti porti inoltre non avevano lo spazio per le nuove infrastrutture e
l’ammodernamento è stato fatto con un consumo di suolo del retroterra, togliendolo
quindi ad altri usi e destinazioni.
Questo problema è stato particolarmente avvertito dai porti tradizionali, quelli che
avevano alle spalle un retroterra densamente urbanizzato, venendosi a creare così un
conflitto tra porto e città. Per attuare una riconversione rispondente alle richieste del
trasporto containerizzato il porto aveva bisogno di ampie superficie, per lo stoccaggio e
il deposito, non sempre disponibili. Tre sono quindi le aree problematiche nelle quali la
città portuale, in quanto sistema urbano specifico, richiede oggi uno sforzo ulteriore di
descrizione improntata ai modelli e ai metodi della sociologia:
1. Il mercato del lavoro locale: le innovazioni introdotte, tecnologiche e nelle
modalità di trasporto, hanno affievolito la capacità dei porti di creare
occupazione e di distribuire ricchezza.
2. Il conflitto tra la città e il porto sull’uso del territorio riguardo alla difficoltà di
espandersi del sistema portuale, la congestione del sistema urbano e la
sostenibilità ambientale.
3. Il recupero del waterfront cittadino nei porti storici dopo la
deindustrializzazione.
La trasformazione funzionale complessiva dalla quale discende l’intera
fenomenologia del mutamento avvenuta negli ultimi decenni in questo tipo di sistema
urbano è quella dal porto come luogo dove avveniva la rottura di carico a punto
intermedio nel ciclo del trasporto, cioè anello di congiunzione tra modalità diverse.
Questo rende estremamente vulnerabili i sistemi portuali in generale di fronte alle
strategie di riorganizzazione dei traffici via mare da parte delle linee di navigazione.
Così se prima avevano voce in capitolo riguardo all’elaborazione di una strategia
interna per essere più competitivi in termini di strutture portuali ed infrastrutture
retroportuali nella città, oggi le autorità portuali non sono più in grado di essere arbitri
del proprio destino: è il mercato della “containerizzazione” che ha deciso per loro.
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Se da una parte gli ingenti investimenti sono necessari per poter reggere il passo,
non sono una condizione anche sufficiente, dato che saranno le compagnie di
navigazione che sceglieranno su quali porti concentrare le attività. Alcune città portuali
così decadono, altre fioriscono.
Riguardo agli effetti della globalizzazione, citata prima riguardo ai fenomeni di
deindustrializzazione e ricollocazione dell’industria portuale con l’emergere dei paesi
asiatici, bisogna aggiungere che ha approfondito gli effetti della “containerizzazione”.
Le grandi compagnie di navigazione sentono l’esigenza di essere presenti su tutti i
mercati del mondo e decidono di concentrare la propria attività in pochi grandi porti in
posizioni ritenute strategiche. Nel Mediterraneo ad esempio Gioia Tauro ed Algeciras
sono preferite ad alcuni porti di tradizione consolidata ma destinazione intermedia (o
con tariffe più alte…). Infatti Algeciras, presso lo stretto di Gibilterra, costituisce una
sorta di porta del Mediterraneo per quanto riguarda le rotte atlantiche, mentre Gioia
Tauro sfrutta la sua vicinanza con il canale di Suez. Chi viene tagliato fuori dal grande
affare del traffico dei container vede ridursi il suo peso e la sua capacità di produrre
ricchezza.
La containerizzazione ha diminuito l’occupazione e quindi viene da chiedersi
come si giustifichino gli investimenti se la ricaduta è incerta e i benefici sono per pochi:
equipaggi e squadre di lavorazione sono tutti ridotti. Questo accade in un contesto di
privatizzazione progressiva dei porti, con gli Stati nazionali e l’Unione Europea
intenzionati ad eliminare progressivamente le sovvenzioni a loro favore. Prende invece
campo l’idea che debbono essere coloro che utilizzano il porto a sborsare per i
miglioramenti delle infrastrutture (Slack, in Soriani, 2002, p.74).