Introduzione
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ridistribuzione del lavoro. In questo saggio ci si propone di dimostrare
che, negli anni novanta, vi era una necessita di ridurre il tempo di
lavoro a parità di salario; questo perché non esisteva altra via d’uscita
alla crisi che si stava attraversando.
La dimostrazione è condotta seguendo un percorso che
richiede quattro passaggi fondamentali.
ξ Il primo, una riflessione critica sulla natura della
disoccupazione e sul modo in cui il senso comune
normalmente la fraintende;
ξ Il secondo, un’analisi approfondita dei risvolti sociali dei
continui aumenti della produttività, e del modo in cui essi
hanno dapprima mediato un portentoso sviluppo attraverso
l’imporsi dei rapporti capitalistici;
ξ Il terzo, una ricostruzione storico-teorica di come lo Stato
sociale, dopo la Grande Crisi, sia subentrato al capitale nel
mediare l’ulteriore sviluppo sociale e l’arricchimento della
società;
ξ Il quarto, una spiegazione del perché l’ulteriore sviluppo delle
forze produttive sia sfociato di nuovo nella disoccupazione di
massa, e richieda un’appropriazione individuale dei frutti
derivanti dagli aumenti di produttività.
L’analisi delle diverse proposte che in quegli anni so contrappongono
alle strategie conservatrici – il reddito di cittadinanza, i lavori
socialmente utili, la riduzione del tempo di lavoro a parità di salario-
porta l’autore a concludere che l’ultima proposta racchiude in sé
coerentemente e unitariamente anche quelle articolazioni del
cambiamento richiesto che, in forma unilaterale, sono contenute nelle
altre due. Ma per comprendere ciò è necessario fare un passo indietro
e arrivare fino agli anni sessanta. Consultando libri, riviste e giornali si
trovano molti documenti politici e molti studi di economisti e sociologi
che cercavano di anticipare questa situazione. Tutti quei lavori
giungevano alla conclusione che:
Introduzione
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nei paesi avanzati avremmo goduto di un’abbondanza
materiale ben diversa dalla miseria che aveva
contraddistinto le epoche passate, e in molti paesi
sottosviluppati si sarebbe imboccata la via dello sviluppo:
per ottenere quella maggiore ricchezza avremmo dovuto
lavorare meno di quanto si stava facendo.
Per un po’ di tempo questi furono considerati obiettivi fondamentali, e
punti di riferimento della collettività. Alla fine degli anni cinquanta, in
Italia si lavorava normalmente 52 ore a settimana, e si godeva al
massimo di 15 giorni di ferie all’anno. Un italiano su tre era analfabeta;
la maggior parte delle abitazioni non aveva il bagno, il telefono,
l’ascensore, l’acqua corrente. I libri, i televisori, i frigoriferi, le automobili
ecc., erano considerati beni di lusso. Ma è solo con il cosiddetto
«miracolo economico» che si ha un po’ di sviluppo: la settimana
lavorativa è stata ridotta alle 40 ore e le ferie sono cresciute fino a
raggiungere il mese; inoltre sono migliorate le condizioni delle
abitazioni e si è allungata la vita.
Il secondo che apparirà con il titolo “Lavoro senza futuro”, in
settembre, prende in considerazione la fase attuale che stiamo
attraversando stabilendo che questa è percorsa da un fenomeno
inspiegabile. Le riflessioni esposte in questo saggio sono state
sollecitate da quei continui cedimenti e, soprattutto, dall’infelice stato in
cui versano coloro che si muovono nel mondo del lavoro. Un dramma
che investe sia le società economicamente sviluppate che i paesi
sottosviluppati. Se e quando riescono finalmente a superare le forche
cudine della disoccupazione, i giovani che cercano un impiego
diventano spesso oggetto di angherie, oltre ad essere normalmente
privati di una sostanziale fiducia nell’avvenire. Dal canto loro i lavoratori
avanti negli anni, se non sono ancora stati espulsi brutalmente dal
processo produttivo, sono sempre più additati come dei privilegiati da
sottoporre al pubblico ludibrio. Ma anche quella metà dei lavoratori che
ancora non è stata completamente travolta dal regresso intervenuto
negli ultimi venticinque anni, subisce sistematiche intensificazioni dei
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ritmi, continui prolungamenti delle retribuzioni reali e drammatici
peggioramenti delle condizioni nelle quali svolge la propria attività.
Ho potuto studiare e utilizzare questo secondo saggio per
gentile concessione e sotto la guida dell’autore, il professore
Giovanni MAZZETTI.
Capitolo 1
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CAPITOLO I
QUEL PANE DA SPARTIRE
Spesso quando si evoca un cambiamento, ci si sta in realtà
adoperando, pur senza necessariamente volerlo o saperlo, a riprodurre
il mondo così com’è dato. Il primo ostacolo, che si frappone alla
comprensione della dinamica in atto, è quanto mai chiaro: non si riesce
ad accettare che la disoccupazione costituisca un paradosso. Gli
economisti classici che successivamente lavorarono sul problema delle
crisi giunsero ad ampliare il suo risultato, scoprendo il nesso che,
nell’ambito della società capitalistica, lega l’incremento di produttività
all’improvviso blocco generale dell’accumulazione, e con essa delle
produzione.
Nell’ambito dei rapporti capitalistici, la produzione per il
consumo, cioè una produzione che non si risolva in una ricchezza
oggettiva, e sfoci invece solo nel godimento del soggetto nella sua sola
riproduzione, è infatti concepita come l’antitesi distruttiva
dell’arricchimento, cioè come una dissipazione. Per questo la messa in
moto del lavoro viene coerentemente attuata dal capitale attraverso un
processo sociale che subordina il consumo stesso, non solo alla
riproduzione di un equivalente ci ciò che sarà consumato, ma anche
alla produzione di un’eccedente rispetto a quel valore. E la misura
dell’arricchimento è data proprio dalla crescita delle risorse che non si
dissolvono nel consumo, cioè dalla ricchezza accumulata. Fintanto che
lo scopo dell’accumulazione domina la produzione, il capitale viene
pertanto sperimentato come un’entità che sarebbe in grado di
autosostenere la sua stessa espansione, e che, sul piano sociale, non
sarebbe vincolata alla soluzione di altri problemi oltre a quello del
contenimento del consumo.
Capitolo 1
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1.1 LA DISOCCUPAZIONE COME CONTRADDIZIONE
Come ha giustamente osservato un noto economista
conservatore: “ognuno di noi si serve ogni giorno di innumerevoli merci
e servizi: per mangiare, per vestirsi, per ripararsi dalle intemperie o
semplicemente per provare piacere. E diamo per scontato che essi
siano disponibili tutte le volte che vogliamo comprarli. Non pensiamo
mai quanta gente ha contribuito, in un modo o nell’altro, a fornire quei
beni. Non ci chiediamo mai com’è che la drogheria all’angolo – o ai
giorni nostri il supermercato – ha sui suoi scaffali gli articoli che
vogliamo comprare.”
Il senso di questa descrizione è chiaro: il mondo nel quale viviamo, che
è il risultato di una continua attività produttiva, viene percepito come un
qualcosa di spontaneo, che sta lì per opera propria. Esso non ci appare
per quello che è, vale a dire un prodotto. Di conseguenza si ritiene che
qualcosa di simile accada per quello che è uno dei momenti della vita
di questo organismo: il lavoro. Fintanto che il lavoro c’è, non ci si
interroga sul come o sul perché ci sia; e ancora meno si affronta il
problema di come esso sia venuto alla luce; infatti si considera
scontato che, una volta dato, il lavoro debba inerzialmente continuare
ad esserci. Ma anche quando il lavoro non c’è, e non c’è da lungo
tempo, come accade in molte aree economicamente arretrate dei paesi
sviluppati, si tende a considerare questa situazione come un semplice
dato di fatto. Fintanto che il rapporto con il modo in cui il lavoro viene di
giorno in giorno riprodotto è questo, e si trasforma l’occupazione in
qualcosa di naturale, si finisce inevitabilmente con il considerare il
sopravvenire della disoccupazione come una sorta dia calamità, dovuta
a eventi straordinari, che la società, o una sua parte, non può far altro
che subire. E’ evidente che , se è voluta da qualcuno, la
disoccupazione si presenta come un evento positivo. Così, la teoria
economica dominante fino agli anni trenta, imputava agli stessi
lavoratori la volontà del loro stato di disoccupati, per il fatto che essi
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non sarebbero stati disposti ad accettare la diminuzione del salario che
avrebbe assicurato la loro occupazione. Questa teoria è stata
rispolverata negli ultimi anni dalle organizzazioni degli imprenditori a da
alcuni governi conservatori, che si affannano a ripetere in
continuazione che una maggiore flessibilità nella remunerazione e
nell’uso del fattore lavoro permetterebbe alle imprese di dare
un’occupazione a tutti e che quindi i veri responsabili della
disoccupazione sarebbero i lavoratori stessi con la loro insistenza sul
posto fisso e con il loro egoismo salariale; però bisogna vedere se la
disoccupazione sia un risultato positivamente voluto oppure una
contraddizione subita.
Nel primo caso tutto si riduce ad una questione di lotta; e
quest’ultima può essere coerentemente limitata all’opposizione a una
volontà che appare tesa a creare disoccupazione. Il risultato sarà poi
determinato esclusivamente dal prevalere dell’una o dell’altra forza in
campo. I licenziamenti potrebbero cioè essere impediti con una pura e
semplice azione di contrasto da parte dei lavoratori, senza che da
questa opposizione scaturisca un caos sociale.
Nel secondo caso tutto si complica. E se l’opposizione non si
accompagna ad una chiara individuazione delle vie eventualmente
aperte per la soluzione della contraddizione, rimane sterile. La
disoccupazione testimonia, infatti, una vera e propria incapacità da
parte di coloro che determinano il volume dell’attività produttiva, e con
essa il livello di vita, di far fronte ai problemi emersi. Sfortunatamente
solo di rado il movimento dei lavoratori è realmente riuscito a
riconoscere, nel dilagare della disoccupazione, l’emergere di una
contraddizione. Più spesso ha prevalso una rappresentazione della
disoccupazione come calamità o come effetto della cattiva volontà
degli imprenditori e del governo. Per non parlare di una terza lettura,
attraverso la quale la stessa classe dei salariati, o una sua parte, ha
talvolta fatto proprie le rappresentazioni della classe dominante,
giungendo alla conclusione che la disoccupazione era l’effetto di una
dissipazione di risorse, di un comportamento sociale teso a vivere al di
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sopra delle possibilità date. Se si esamina la serie storica delle
statistiche dell’andamento della disoccupazione nel secolo XIX nei
paesi economicamente avanzati troviamo un susseguirsi di periodi di
piena occupazione e dei periodi nei quali una parte più o meno elevata
della forza-lavoro risulta disoccupata. Ma il punto che deve essere
tenuto fermo è che: l’impresa non produce e non può produrre lavoro a
piacimento, bensì produce lavoro mentre riproduce se stessa. La
forza-lavoro viene acquistata dal capitalista, e diventa così parte
integrante del suo capitale, come capitale variabile, solo se può essere
impiegata nella produzione di merci che, vendute, assicureranno un
accrescimento del capitale anticipato, cioè una reintegrazione di ciò
che è stato speso, più un profitto. Come precisa MARX “capitale e
lavoro salariato esprimono soltanto due fattori dello stesso rapporto. Il
denaro non può diventare capitale senza scambiarsi con la capacità di
lavoro come merce venduta dal lavoratore stesso”. Dunque, quello che
per la forza-lavoro è il lavoro, per il capitale è il processo di
valorizzazione, il movimento attraverso il quale interviene il suo
accrescimento.
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1.2 MOMENTI DEL PROCESSO DI RIPRODUZIONE
DEL LAVORO
Se si considera la disoccupazione come una patologia sociale
alla quale occorre porre rimedio, e si vuole scoprire perché un uomo
che cerca lavoro non lo trova, restando così disoccupato, si deve
innanzitutto analizzare che cosa avviene se, quando lo cerca, lo trova.
Si tratta di esaminare quello che, nell’ambito della società data,
possiamo definire come il normale processo di riproduzione del lavoro,
cioè quell’insieme di eventi che conducono al presentarsi e al
ripresentarsi di questa attività. Nello svolgimento del processo di
riproduzione del lavoro hanno luogo un susseguirsi di momenti tra loro
concatenati, che appaiono tutti indispensabili affinché il lavoro possa
venire alla luce ed essere di volta in volta ripetuto.
1.2.1 IL MOMENTO DEI BISOGNI
Il primo momento del processo di riproduzione del lavoro è quello dei
bisogni. Se i bisogni non si espandessero non si potrebbe
immaginare una crescita del lavoro. Ciò significa che l’espansione dei
bisogni è una condizione necessaria per la crescita del lavoro cioè un
suo presupposto. Ma non significa affatto che essa sia anche una
condizione sufficiente. Se quindi è vero che il bisogno costituisce il
primo momento di qualsiasi processo di produzione e di riproduzione
del lavoro, occorre anche vedere se esso riesce a entrare
effettivamente in relazione con gli altri momenti, in modo che il
problematico cammino che conduce all’emergere di un lavoro possa
essere realmente compiuto. D’altronde se non ci fossero i bisogni da
soddisfare, e cioè i cittadini fossero una massa di appagati della
situazione, non si potrebbe nemmeno parlare di disoccupazione;
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proprio perché la disoccupazione appare come difficoltà a creare
lavoro, perché corrisponde alla difficoltà di soddisfare i bisogni. Quindi
la pura e semplice crescita dei bisogni non offre di per sé alcuna
garanzia dell’espandersi del lavoro, perché questa espansione può
intervenire solo se si acquisisce la capacità di far fronte a quella
difficoltà e di mettere così effettivamente in moto l’attività che
corrisponde alla soddisfazione di quei bisogni. Nel prendere in
considerazione questo primo momento si presenta un problema. La
maggior parte delle persone è convinta che un bisogno sia di per sé
sempre e comunque un elemento energetico contraddistinto da una
immediatezza operativa positiva nella realtà sociale. I bisogni devono
essere formulati- cioè trasformati in una realtà oggettiva, socialmente
valida- e la loro stessa percezione dipende interamente dall’efficacia e
dalla carica energetica contenuta in questa formulazione. L’esperienza
quotidiana ci fornisce anche in altri campi una moltitudine di esempi di
bisogni che, pur esistendo come esigenza soggettiva, rimangono
insoddisfatti proprio a causa del modo in cui vengono formulati, o
addirittura perché non riescono neppure a essere formulati. Me il
bisogno in sé non è ancora un vero momento del processo di
produzione del lavoro, ma solo una sua condizione. Affinché esso
divenga una forma reale deve essere in grado di assumere una veste
sociale, cioè una forma, corrispondente a quelli che sono gli altri
momenti del processo che conduce eventualmente alla sua
soddisfazione.
1.2.2 IL MOMENTO DELL’OGGETTO DEL LAVORO
Il secondo momento del processo di riproduzione del lavoro è
l’oggetto del lavoro. Il bisogno è sempre espressione di una relazione.
Esso si riferisce sempre e necessariamente a un oggetto – sia esso
una cosa, sia esso un’attività, e vi si deve riferire in un modo
determinato; ma anche questo non basta. Fintanto che l’oggetto è e