3
La struttura.
La struttura è ben ricalcata sulla forma di un film. C’è un primo tempo
ed un secondo, che tendenzialmente non ha nulla a che fare con tutto
quello che è stato detto nel primo tempo. Ciò che è capitale è
l’intermezzo, inteso da me come momento di riflessione tra le due par-
ti del film. è lì che lo spettatore può pensare ciò che ha gia visto, e ciò
che andrà a vedere.
4
DADA
SURREALISMO
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Dada
Si sa, Dada nacque ufficialmente a Zurigo, al Cabaret Voltaire di Hu-
go Ball, attorno al 1916. Il vocabolo nacque probabilmente imitando
una di quelle parole caratteristiche del linguaggio infantile che, tra
l’altro, costituivano i poemi di Ball. O forse fu scelta aprendo a caso
una pagina del vocabolario? Poco importa; quel che conta non è tanto
come si arrivo a definire Dada in questo modo – Tzara stesso dirà che
“Dada non significa nulla”
1
–, bensì sapere e capire cosa fosse lo spiri-
to Dada. Dada, che come dice Tzara in più di un occasione
2
, è un mi-
crobo vergine, “che si insinua con l’insistenza dell’aria in tutti gli
spazi che la ragione non è riuscita a colmare di parole e di conven-
zioni ”.
Ora, pur nascendo a Zurigo, Dada in quel luogo era più teorico che
pratico; visivamente, era di gran lunga superiore il trio parigino-
newyorkese – Duchamp, Man Ray, Picabia. Ciò non toglie che nella
città elvetica vi fossero persone che avrebbero gettato le basi sul dive-
nire di Dada. Primo fra tutti Tzara, che con i suoi Manifesti – appunto
opere teoriche, in confronto all’estetica di Duchamp, ad esempio – ri-
trae il “progetto Dada”. Tzara predica la morte dell’arte a favore della
vita, che di certo è “più interessante”.
Le precedenti avanguardie – soprattutto il Futurismo – avevano visto
nelle macchine e nelle energie in generale, un futuro di tipo positivo.
Dada invece viveva di nichilismo: credeva nella tecnologia per carità,
soltanto che la guardava con sospetto, non gli dava piena fiducia.
Il Dadaismo, come farà poi un maniera diversa il Surrealismo, si era
posto come alternativa etica alla cultura predominante; il tutto in nome
di un nichilismo, appunto, di tipo assoluto e soprattutto iconoclasta:
bisognava distruggere l’arte insomma, era una necessità. Ma come di-
struggere l’arte se non creando opere d’arte? L’opera d’arte dadaista
ere resa possibile dal gesto, il gesto più spontaneo e provocatorio pos-
sibile. Dada si guardò bene da non divenire un dogma – anche perché
in quel caso sarebbe divenuto qualcosa di positivo –, mentre Breton, e
sarà forse questo il suo grande errore, applicò una sorta di dittatura
del surrealismo. Ma era un errore inevitabile.
Dada appunto si distingueva sia dal Futurismo che dal Surrealismo.
Dada non ha nessun tipo di ideologia, Dada non guardava né al passa-
to né al futuro, Dada guardava a se stesso, irritandosi anche se veniva
bollato di modernismo. Non ha nulla di che proporsi Dada, vive sem-
1
Tzara T., Manifesto dada 1918, pubblicato in “Dada 3”; adesso in Tzara T., Manifesti del Dadai-
smo e Lampisterie
2
Soprattutto in Conferenza su Dada(pubblicata in “Merz”, Hannover, 1924); adesso in Tzara T.,
Manifesti del Dadaismo e Lampisterie
6
plicemente la vita Dada, che è di certo più interessante. Dada era ri-
volta, menefreghismo, nichilismo; Dada aveva un solo “programma”:
non avere nessun programma. I “veri dada”, diceva Tzara, “sono con-
tro Dada”
3
.
Dada nel suo decretare la morte dell’arte, comunque, sapeva bene che
l’arte non era affatto morta, ma si era semplicemente trasformata, di-
venuta financo irriconoscibile da dover indicare che fosse arte tramite
cartellini accessori
4
. È il passaggio dall’artistico all’estetico. Du-
champ, a differenza dei cubo-futuristi che altro non facevano che ri-
plasmare la natura grazie a modelli delle macchine, non ha nessuna in-
tenzione di emulare le macchine. Sa benissimo che le macchine esi-
stono ready-made, quindi non gli resta che l’impasse della produttività
intrinseca in loro; rendere in un certo senso la macchina sterile, dargli
uno statuto puramente estetico, limitandosi a potenziare la rete senso-
riale. I ready-made non fanno altro poi che mostrare il già visto come
qualcosa di mai visto; qualcosa quindi che prima era stato visto ma,
ma non bene, su cui la sua decontestualizzazione porta adesso
l’attenzione.
I Dadaisti in sostanza avevano livellato la macchina artistica alla mac-
china industriale, confondendo intenzionalmente i due campi. E lo fe-
cero, nel loro insieme, in tutte le fasi del ciclo industriale. A noi inte-
ressano soprattutto i Dadaisti che agiscono soprattutto sulla prima fase
–Duchamp, Picabia, Man Ray –, ovvero quella della produzione, ren-
dendo così l’arte pura idea
5
. Essi appunto si differenziano dal Dada
europeo – che intendeva l’arte come spettacolo – per il fatto di identi-
ficare l’arte con il concetto di macchina, una macchina continua, per-
petua, eterna, con un continuo fluire del suo moto.
Duchamp si differenzia quindi anche da altri Dadaisti che praticheran-
no la variante degli objet trouvés; mentre essi passano dall’artistico
all’antiartistico, l’intenzione di Duchamp è quella di mirare
all’anartistico, o anestetico che dir si voglia.
Come notano sia Barilli
6
che Alinovi
7
, non c’era poi così tanta diffe-
renza tra le serate futuriste e le serate del Cabaret Voltaire, sia per la
3
Tzara T., Manifesto sull’amore debole e l’amore amaro, pubblicato in “Vie de Lettres”, 1921;
adesso in Tzara T., Manifesti del Dadaismo e Lampisterie.
4
Dada infatti non era tanto contro l’arte in se stessa, ma contro ciò che la società intendeva per ar-
te; l’attacco all’arte era attacco alla società.
5
Anche se a ben vedere Duchamp, in certe suoi lavori mescola tutte le fasi del processo produtti-
vo. I ready-made in se stessi attraversano per intero tali fasi, confinanti tra loro: essi saranno sia
stimoli concettuali, nonché merci che vengono ricavati dal mondo dei consumi, come pure – come
poi sarà la fine che faranno alcuni, soprattutto quelli parigini – rifiuti.
6
Barilli, R., L’arte contemporanea, Milano, Feltrinelli, 1984
7
Alinovi; F., Dada anti-arte e post-arte, Messina, D'Anna, 1980
7
priorità della vita rispetto all’arte, sia nello specifico per le declama-
zioni verbali-poetiche. Ma è solo un’analogia apparente. Ball, in pieno
spirito Dada, piuttosto che simulare nei suoi poemetti il dinamismo
delle macchine, fa collassare le parole, riportandole ad un’infanzia o-
riginaria, balbettando e lasciando piena padronanza alle vocali. Dada
era contro l’arte, mentre i Futuristi guardavano all’arte, all’arte antica
e a quella moderna.
La parola viene considerata dai Dadaisti come puro oggetto da poter
utilizzare a proprio piacimento. Venendo equiparate appunto ad una
merce, la parola si trova a fare lo stesso tragitto della merce medesi-
ma: può essere considerata sia come oggetto ancora da consumare, sia
come oggetto ormai fuori dal circolo produttivo, venendo recuperata
così non nella sua interezza, quanto spezzettata(sillabe, prefissi, desi-
nenze, e anche singole lettere).
Ma non solo. La lingua può anche essere vista(e usata) come gesto, a-
zione, macchina in continuo movimento. Ciò è riconducibile ai ready-
made duchampiani e alle macchine inutili picabiane. Infatti, la lingua-
macchina resta immutata, apparentemente intatta, ma a questa reggen-
za vengono inseriti alcuni elementi di disturbo allo scopo di deviarne
il funzionamento; insomma, anche qui, come nei ready-made di Du-
champ, dall’artistico-produttivo si passa all’estetica.
Infatti, Duchamp, a differenza di Ball – che cercava neologismi per
poter creare una lingua nuova, e magica – o di Schwitters e Tzara –
che agivano per recupero –, mantiene intatta la veste grafica esteriore,
operando si degli spostamenti ma impercettibili, alterandone così il si-
gnificato della parola stessa. Duchamp si troverà a creare un nuovo
pensiero semplicemente decontestualizzando: servendosi di quel de-
posito verbale per eccellenza che è il dizionario, egli farà lievissime
modifiche – sostituendo una lettera, invertendo il senso di lettura, ecc.
– con lo scopo di poter fare sprigionare un vertice di energia, sia con-
cettuale che libidica. È un risparmio di energia, al fine da superare il
dispendio derivante dal “gap”, quell’intervallo di tempo, che intercor-
re tra l’ideazione e la materiale esecuzione, in cui si concretizza
l’inevitabile perdita di energia, dovuta alla non simultaneità tra pensie-
ro e azione. Aderendo alle tecniche del comico Duchamp unisce i di-
stanti, riuscendo in tal modo anche ad attribuire alle macchine, di per
sé inorganiche, dei valori sessuali. Le macchine diventano dunque
pregne di allusioni sessuali, rendendole ad esempio analoghe ad ona-
nistici gesti; e da qui nasce il concetto di macchine celibi, improdutti-
ve. La contestazione della macchina avviene cosi in due livelli: “in
primo luogo per l’abbassarle al livello della vita sessuale, e quindi
8
impedendo loro di funzionare anche secondo questa logica, così da
riaffermare una loro inutilità e gratuità ”
8
.
Esemplare in tal senso L,H,C,O,Q, dove la Gioconda viene “profana-
ta” con l’aggiunta di baffi e barbetta. Qui, oltre ad allargare il campo
dei ready-mades dagli utensili agli oggetti culturali – rendendo così
anche le opere d’arte allo statuto di merce –, si trova un motto di spiri-
to contenuto nel titolo: “elle a chaud au cul”, che può voler dire anche
“si concede facilmente”, spiegando così ironicamente il segreto del
misterioso sorriso. Facendo ciò viene attribuito alla Gioconda, creatu-
ra sublimata per eccellenza, un’evidente componente libidico sessuale.
La Gioconda era già di per sé “celibe” nelle intenzioni di Leonardo,
ma l’aggiunta di attributi maschili non è altro che un voler cancellare
– definitivamente! – il sex-appeal della Gioconda.
Picabia concepisce anch’esso una macchina, Fille née sans mère, ma
anziché costruirla materialmente, la concettualizza soltanto sulla pagi-
na. Dopotutto egli con Duchamp condivide l’interesse non per la mac-
china in quanto tale, ma per la macchina che emana ed espande pura
energia. Infatti, mentre i cubo-futuristi concepivano delle macchine
mimetiche, i dadaisti generavano delle macchine antropomorfe, con
un corpo – rudimentale quanto si voglia, ma sempre di corpo si tratta-
va – e con un pensiero; indipendenti quindi da qualsiasi programma-
zione umana, in modo tale da potersi perfino sostituire all’uomo.
Macchine come si è detto, che non producono nulla, essendo “pro-
grammate” per produrre un flusso di energia – energia non più termo-
dinamica ma elettrica, vista come prolungamento psichico – continua
ed autoalimentata in eterno.
Già, in eterno. Ma tutti gli oggetti materiali prima o poi son destinati,
mettendo da parte il loro divenire obsoleti, comunque a deperire;
quindi l’unica soluzione è quella di annullare la consistenza fisica
dell’opera. E quindi all’oggetto in quanto tale deve essere sostituita
l’idea, anche nel caso che si voglia realizzare un oggetto materiale.
I Dadaisti inoltre, esaminando i meccanismi di funzionamento delle
società di massa, avevano già capito ciò che sarebbe accaduto dopo
grazie allo sviluppo sempre più continuo della tecnologia: ovvero, una
conoscenza delle immagini che sarebbe proliferata sempre più; siam
ormai pieni e strapieni di immagini, di qualsiasi tipo, immagini che
diventano già rifiuto nel momento in cui vengono concepite in così
larga scala.
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Barilli, R., L’arte contemporanea, op. cit.
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Duchamp, il Grand Verre e le macchine celibi
Le Grand Verre: La mariée mise à nu par ses célibataires, même
Cominciamo dal gioco di parole insito nel titolo. Même( = anche) ri-
chiamando foneticamente m’aime mette subito in gioco la chiave ero-
tica dell’opera. Ma même, nel suo significare “anche”, dice “lo stes-
so”, come a voler indicare che sia Sposa che Scapoli non siano altro
che volti dello stesso principio. Ma “mis à nu” può anche significare
una messa a morte della Sposa. Così come “anche” può amplificare il
valore celibe della parte inferiore, nel senso che comunque, vestita o a
nudo, la Sposa resta sempre inaccessibile dagli Scapoli. Essi scapoli
sono e scapoli resteranno, comunque.
L’opera si presenta, appunto, come un grande vetro formato da due
pannelli disposti uno sopra l’altro di sagoma rettangolare. Come si ve-
de viene rispettato il formato proprio di un quadro, ma a differenza di
un quadro che normalmente viene appeso ad una parete, il Grande Ve-
tro si situa in mezzo alla stanza. Le due parti si dividono nel regno
della Sposa, nella parte superiore, e in quello dei Celibi. Sia la Sposa
che i Celibi son dipinti in stile cubo-futurista: l’una è la trasposizione
di un motore a cilindro, con tanto di pistoni e stantuffi: gli altri come
sagome meccanomorfa. Durante il trasporto, a causa di un incidente,
venne provocata un’incrinatura nel vetro, cosa che per Duchamp pote-
va solo essere positiva: il caso dava il suo prezioso contributo
all’opera. Infatti son le venature casuali che collegano i due regni. I-
noltre, oltre che le venature ondulate e casuali, ci sono dei fori di Spa-
ri e dei Testimoni oculisti, sotto forma di cerchi, spirali e segmenti a
raggiera.
Dalla Sposa parte una nube di vapore – la Via Lattea – come se fosse
il velo nuziale. I Celibi – Nove stampi maschi(o matrici di Eros che
formano il Cimitero delle uniformi e delle livree) – sono disposti
simmetricamente sotto alludono ad un amore impossibile, o che viene
simulato soltanto in maniera ludica. Essi funzionano per avviare la
scintilla del motore, dando vita al movimento; movimento circolare,
quindi elettrico invece che meccanico. Oltre ai Celibi, nella parte infe-
riore si trovano delle macchine illusionistiche, realizzate in trompe-
l’oeil nella parte interna del vetro, ed esprimenti tutte dinamismo po-
tenziale. Esse sono la Slitta, incorporata alla quale si trova la ruota di
un Mulino ad acqua, e a fianco la Macinatrice di cioccolata, sulla
quale è ingranata un’asta che viene usata come elemento di sostegno a
quattro braccia ruotanti, le Forbici.
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Sarebbe lecito partire dagli studi preliminari che porteranno alla con-
cretizzazione del Grande Vetro. Si potrebbe partire dalla serie di di-
pinti realizzati a Monaco nell’estate del 1912 che conducono dalla
Vergine alla Sposa; son appunto lì che sembrino nascere le prime idee
fondanti del Grande Vetro. Ma anche opere precedenti il soggiorno a
Monaco, come Giovanotto e ragazza in primavera del 1911 Ma la po-
etica del Grand Verre è anche potenziata da opere successive, quali
Étant donnés.
Il Grande Vetro è storicamente l’ultima macchina celibe propriamente
detta. Le macchine celibi, come nota Carrouges
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, trasformano
“l’amore in meccanica di morte”. Alinovi, da parte sua definisce la
macchina celibe come “macchina utopica, impossibile, incapace di
incepparsi o di logorarsi, agitata da un motore invisibile dalla poten-
za illuminata. Una macchina estranea al rigido apparato delle mac-
chine a conduzione termodinamica (…), ma simile piuttosto alla nuo-
va idea di macchina, pulita e impeccabile, di natura elettronica ”
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Caurroges inoltre definisce macchine celibi anche alcuni prototipi let-
terari, quali l’immagine lautréamontiana della bellezza convulsa.
“Egli è bello (…) come l’incontro fortuito, su un tavolo anatomico, di
una macchina da cucire e un ombrello”.
In questi versi – che poi diverranno l’emblema della bellezza convulsa
surrealista – l’ombrello rappresenta il maschile – Maldoror –, mentre
la macchina da cucire rappresenta il femminile, e rende quindi femmi-
neo Mervyn – che già lo era nella prima sillaba del suo nome: “Mer”
richiama la madre(mère).
Il tavolo – che non ha attributi sessuali, né meccanici – ha qui la fun-
zione di unire i due insiemi, una funzione che è specifica di qualsivo-
glia macchina celibe: non unione e vita, bensì solitudine e morte. Es-
sendo appunto un tavolo anatomico, esso annuncia le torture che Mal-
doror – “Mal d’or or”, direbbe Tzara – farà subire a Mervyn.
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Szeemann H. (a cura di), Le macchine celibi; Milano, Electa, 1989
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Alinovi F., Dada anti-arte e post-arte, Messina, D'Anna, 1980