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Con il passare del tempo e con l’evolversi delle tecnologie mediatiche, è
cambiato, senza alcun dubbio, anche il mestiere di giornalista.
Il media che ha rivoluzionato più di tutti questo mestiere è stato la
televisione. Sia il telegrafo che la radio, infatti, non hanno fatto altro che
dare strumenti nuovi, più potenti senza però cambiare la natura stessa
del cronista. Il giornalista, di qualsiasi campo fosse, doveva essere in
grado di suscitare emozioni e di far vivere la vicenda riportata nell’articolo
solo attraverso le parole. Queste dovevano essere ricercate e arrivare al
cuore e alla mente del lettore per poi poter essere causa di una
immedesimazione nella storia. Enfatizzare più del dovuto un evento,
facendolo diventare ciò che in realtà non era stato, è stato errore per
molti e causa di critiche per altri. Memorabili solo le radiocronache delle
partite del campionato di calcio di Niccolò Carosio in cui ogni partita
sembrava essere uno spettacolo, piena di grandi emozioni. Pochi erano i
giornalisti che erano in grado di fare tutto ciò. Il compito forse più arduo,
in questo senso, spettava alla figura dell’inviato speciale. Egli doveva fare
i conti oltre con la difficoltà delle parole, anche con il disagio di dover
narrare le vicende di culture diverse, con altri costumi e altri ideali rispetto
a quelli della propria patria di origine.
Il telegrafo ha portato al lavoro giornalistico la velocità di cui aveva
bisogno per arrivare nel minor tempo possibile (a quei tempi) da una
parte all’altra del mondo; la radio ha donato alle parole di un articolo un
po’ di vita grazie ad una voce che fosse in grado, attraverso il tono e le
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pause, di emozionare. Ma le difficoltà, come detto rimanevano sempre le
stesse.
Con l’arrivo della televisione, che univa oltre alla velocità del telegrafo e
la voce della radio, si garantiva al mestiere le immagini che avevano la
straordinaria potenzialità di eliminare del tutto l’uso delle parole. Nel
frattempo il giornale perdeva il suo ruolo storico di fonte principale di
notizie mutando la sua posizione all’interno dell’informazione: compito
suo divenne quello di approfondire ciò che già la televisione aveva
raccontato. Egli, infatti, non poteva essere in grado di combattere la
concorrenza della televisione per un fondamentale motivo tecnico: i tempi
di uscita del giornale sono nettamente più lenti di quelli della televisione
la quale ha a disposizione il <<tempo reale>>.
Da qui la necessità di reinventarsi e di cedere il passo alla televisione per
quanto riguarda la cronaca degli eventi. La conseguenza per l’inviato
speciale è facilmente intuibile. È noto, grazie a molti studi, che le
immagini arrivano più facilmente a sollecitare le emozioni delle persone.
Nei servizi giornalistici poteva ora essere narrato tutto anche solo
utilizzando filmati che mostrassero la verità.
Tutto questo cambiamento ha toccato, senza distinzione, tutti i colori
della cronaca compreso quello che si riferisce alle cronache di guerra.
In questo mio lavoro ho provato a raccontare l’inizio della seconda guerra
mondiale attraverso gli articoli di giornale, quando le parole erano l’unica
fonte di notizia. Per una ragazza come me, vissuta nell’era delle
immagini, dei suoni e dei volti, sembrava quasi impossibile credere di
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poter vivere una guerra, lontana nel tempo e nello spazio, solo attraverso
le parole di un cronista. Era difficile poter pensare che le parole potessero
essere in grado di far immaginare luoghi, personaggi, sentimenti e dolori
di una guerra. Mi sono dovuta ricredere.
Ho provato a fare tutto ciò servendomi del più grande giornalista italiano
ossia Indro Montanelli negli anni in cui era inviato del “Corriere della
Sera”. Ho analizzato il periodo che va dal settembre 1939, mese in cui la
Germania invade la Polonia dando avvio alla guerra, fino a giugno 1940
quando Mussolini decreta l’entrata dell’Italia nelle ostilità belliche al fianco
della Russia e della potenza nazista. In questi otto mesi, il giornalista
fiorentino segue da inviato tre guerre: la già citata invasione della
Germania ai danni della Polonia, la successiva guerra della Russia contro
la Finlandia ed infine l’attacco della Germania alla Norvegia. Furono
proprio le seconde corrispondenze a dare a Montanelli grande notorietà e
fama all’interno del giornalismo italiano. Furono molti gli italiani che si
affezionarono alle sorti del popolo finlandese grazie ai suoi racconti.
Nel primo capitolo parlo dei polacchi, fratelli, per quanto riguarda la sorte,
del popolo finlandese. Se la Finlandia era stata in grado di resistere 100
giorni agli attacchi sovietici, la Polonia si arrese dopo poco meno di un
mese. I polacchi erano ormai una popolo senza più speranze, delirante
nel vedere la propria terra agonizzare sotto l’invasione nazista. L’unica
speranza era riposta nelle mani dei Russi considerati dei liberatori:
speranza che ben presto si rivelò illusione.
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Nel secondo capitolo racconto i finlandesi. È questa la parte più corposa
del lavoro poiché è stato il popolo con cui il giornalista è stato
maggiormente in contatto e quindi ha potuto conoscere meglio. Era un
popolo che Montanelli stimava davvero molto, pieno di ideali e di amore
di patria. La Finlandia aveva la grande capacità di combattere una
potenza molto più grande senza mai perdersi d’animo e agendo
sfruttando soprattutto la furbizia e l’intelligenza. Parla di un popolo e di un
esercito sicuramente povero sia di mezzi che di uomini rispetto al
gigante bolscevico. Nonostante l’alleanza dell’Italia al fianco della Russia,
Indro Montanelli mostrava senza paura di censura il proprio punto di vista
filo-finlandese e perfettamente contro tutto ciò che era il comunismo.
Il terzo capitolo è dedicato Norvegesi e agli alleati. La Norvegia appare
molto diversa sia dai polacchi che dai finlandesi per quanto riguarda il
modo di affrontare le difficoltà: non combattono, attendono gli aiuti e
quando questi li abbandonano cedono al nemico. Gli alleati escono da
queste corrispondenze in malo modo. Già non erano andati in soccorso
della Polonia e della Finlandia, e ora, quando era il momento del riscatto,
si tirano indietro lasciando i norvegesi soli e in prenda alla furia nazista.
Il quarto capitolo è rivolto ai giganti invasori: la Germania e la Russia.
Montanelli, da sempre considerato come uno degli uomini più
conservatori della destra italiana, non poteva non considerare assurdo
tutto il paradigma comunista. Non perde mai occasione, nei suoi articoli di
sottolineare che i sovietici erano capaci delle peggiori barbarie
coprendosi all’ombra degli ideali marxisti. Per Montanelli, infatti, non era
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disprezzabile il socialismo e il comunismo in sé ma l’uso che del pensiero
di Marx ed Engels veniva messo in pratica dai capi comunisti. Nel narrare
dell’esercito bolscevico, il giornalista toscano, sottolinea molto spesso la
grandiosità e la ponderosità che essi mettevano in pratica, contrapposta
all’ordinata e silenziosa avanzata finlandese. Dei tedeschi parla molto
poco e soprattutto non si sofferma quasi mai a narrare le loro
caratteristiche. Nella maggior parte degli articoli, il giornalista di
Fucecchio, accenna solamente al loro potenziale bellico.
Il quinto capitolo è intermante destinato al Montanelli “cantastorie”.
Racconto le storie che egli ha vissuto e ascoltato nei suoi mesi tra le
truppe e tra la popolazione. Sono storie piene di emozioni: alcune di
sofferenza, altre di coraggio, altre ancora di delusione e di rabbia, di
nostalgia per i tempi passati. Sono proprio storie come quelle raccontate
in questo capitolo che danno la possibilità al lettore di dare un volto
(anche se solo immaginato) e magari un nome ad eventi che altrimenti
sarebbero sembrati talmente astratti e lontani da lui da renderli irreali.
Personifica la Storia in tante piccole storie di gente comune o di grandi
ufficiali che vivono la guerra, anche se da diverse prospettive. La maggior
parte dei racconti riportati si riferiscono alla guerra in Finlandia perché,
come già detto, è stata la battaglia che Montanelli ha maggiormente
vissuto.
Negli articoli in cui narra delle storie e dei personaggi protagonisti,
ognuno a proprio modo, della guerra, Montanelli ci regala delle immagini
suggestive in grado di arrivare direttamente al cuore del lettore.
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Prima di entrare nel vivo dell’argomento della tesi, è giusto parlare sia di
Indro Montanelli sia degli antefatti storici che portarono alla situazione
descritta negli articoli.
I.I Indro Montanelli
“Poteva gareggiare con il Generale De Gaulle in altezza e carisma,
sovrastare Churchill per cultura e conoscenza della storia, è rimasto
lucidamente sulla breccia dell’onda più a lungo del Cancelliere
Adenauer. “
Indro Montanelli, toscano di nascita ma meneghino per scelta, nasce il 22
aprile 1909 a Fucecchio, un paesino del Valdarno, a metà strada tra Pisa
e Firenze. Gli abitanti di Fucecchio erano divisi in «insuesi» e in
«ingiuesi» (cioè di sopra e di sotto). La madre Maddalena era insuese, il
padre Sestilio, ingiuese. Si decise di far crescere il bambino in collina
(alle Vedute), e Sestilio, quasi per vendicarsi, cercò ostinatamente un
nome che non fosse né della famiglia né del calendario.
«La mia vita professionale è la mia vita, tout court», disse il giorno del
suo ottantesimo compleanno. Ed è stato proprio così. Dopo aver
conseguito due lauree, in giurisprudenza e scienze politiche (anche se
ripeteva che dell'università non gli importava granché), emigra in Francia,
dove frequenta la Sorbona e viene assunto a «Paris Soir».
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Cresciuto in epoca fascista decide di indossare la camicia nera e,
credendo fermamente nel fascio, non esita a svolgere ruoli attivi nelle
azioni littorie. Nel 1935, poco più che ventenne, decide di arruolarsi nel
ventesimo battaglione eritreo. Montanelli è affascinato dalla possibilità,
per l’Italia, di avere un posto libero senza le beghe della burocrazia che
ormai rendevano la penisola quasi invivibile.
Racconta questa esperienza nel diario «XX battaglione eritreo», che
viene stampato in Italia e recensito sul «Corriere della Sera» da Ugo
Ojetti. «Per noi -dichiarò Montanelli 50 anni dopo in un'intervista ad Arrigo
Petacco- l'Abissinia era come il West per gli americani: la nuova frontiera,
un paese nuovo dove costruirci un'esistenza diversa. Andammo laggiù
anche per sfuggire alle liturgie del regime. Ma anche lì arrivarono i
gerarchi tronfi e buffoni. Per giunta, Mussolini finì per perdere la testa. E
fu il trionfo delle bischerate di Starace. Ci sentimmo traditi. E, per me, fu il
divorzio».
Grazie al suo diario di guerra, ottiene dal direttore del Corriere, Aldo
Borelli, la promessa di un contratto. Intanto, nel 1937, va in Spagna per il
«Messaggero». È proprio in questa esperienza che egli si scopre non
adatto ad essere un giornalista di regime non riuscendo a nascondere
quello che succede realmente durante la guerra. Il fascismo romano ne
ordina il rimpatrio e lo espelle dal partito e dall'albo professionale.
Deluso dal regime e dal giornalismo, viene mandato da Bottai a dirigere
l'Istituto italiano di cultura in Estonia per un anno. Tornato in Italia, riceve
la tessera di giornalista, ma rifiuta di richiedere quella del Partito fascista.
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Nel 1938, Borelli, mantenendo la sua promessa, lo fa entrare al
«Corriere», dove resterà per 40 anni. Il servizio di esordio lo fa in Albania.
Poi in Germania, dove assiste all'avanzata del Terzo Reich verso
Danzica e parla con Hitler in persona. Poi va in Finlandia e Norvegia e
proprio le corrispondenze sul conflitto russo-finlandese lo impongono
definitivamente come grande inviato. Il suo fiuto da grande inviato, che lo
accompagnerà per tutta la vita, lo fa essere sempre nel posto giusto al
momento giusto. Anche durante queste corrispondenze, il giornalista
toscano non perde il suo amore per la verità e per i propri ideali: non può
passare inosservata, nei suoi articoli, la grande simpatia che egli riserva
ai finlandesi e ai polacchi. Fu proprio per questo motivo che viene
richiamato più volte dal Minculpop. Egli, difensore degli ideali di destra,
non può accettare né le idee comuniste né gli abusi nazisti.
Nel 1944 finisce in prigione a San Vittore per antifascismo e viene
condannato a morte dai nazisti, ma scampa miracolosamente alla
fucilazione per intervento dell'allora arcivescovo di Milano, il cardinale
Ildefonso Schuster. La prigionia gli suggerisce uno dei suoi libri più belli,
«Il generale Della Rovere», che tradotto in film da Rossellini riceve il
Leone d'oro a Venezia.
Si rifugia in Svizzera. Finita la guerra, torna al «Corriere» come inviato.
Tra i primi a giungere nella Budapest insorta, Montanelli scrive che non si
trattava di ribelli borghesi, ma di «comunisti antistalinisti». Dalle sue
corrispondenze ricava anche una piece teatrale, «I sogni muoiono
all'alba».
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Nel 1973, quando alla guida del Corriere viene chiamato Ottone,
Montanelli lascia la testata. Vede maltrattata la tradizione dello storico
giornale milanese sia dal nuovo direttore sia dalla proprietà Crespi: la
linea editoriale che stava acquisendo la testata prevedeva una svolta a
sinistra che egli non poteva accettare. Nel 1974 (anno in cui sposa
Colette Rosselli, nota come «Donna Letizia», morta l'8 marzo 1996),
fonda il «Giornale nuovo» poi divenuto il «Giornale». E' la sua prima
grande scommessa. Affiancato da tanti suoi amici, l’avventura
dell’”anticorriere” prende inizio il 24 giugno 1974. Tante furono le battaglie
che porta avanti come direttore del <<Giornale>> tra cui quel famoso
“Turatevi il naso” a sostegno della DC come male minore nelle elezioni
del 1976. Arriva la stagione del terrorismo, delle BR e anche Montanelli,
tacciato di fascismo, non poteva passarne indenne. Gli sparano alle
gambe il 2 giugno del 1977, accanto ai giardini di via Palestro, a Milano.
Sarà sempre benevolo nei confronti dei suoi attentatori tanto che Bonisoli
(colui che probabilmente sparò) è a ringraziarlo nel giorno della sua
morte. Ma le pallottole non lo fermano: riprende la sua battaglia alla guida
del suo quotidiano, dal quale lancia strali anche con la rubrica
«Controcorrente» che diventa un simbolo della linea montanelliana. Nel
1978 la Fininvest acquista circa il 30% delle quote del «Giornale». Di
Berlusconi, proprietario della società, ne parla un gran bene. Fu davvero
una lunga traversata quella che Montanelli e Berlusconi fecero assieme
fino al 1994, attraverso gli anni di piombo e gli anni Ottanta in cui l’Italia
era ancora in un <<sistema bloccato>> dal bipolarismo imperfetto.
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La situazione precipita con la «discesa in campo» di Berlusconi. L'11
gennaio 1994, dopo 20 anni, lascia il suo «Giornale». Montanelli non può
sentire soffocata la sua libertà di schierarsi e di combattere le cause che
egli riteneva più opportune. Si sente privato di una sua creatura tanto che
nutrirà sempre rancore ed astio nei confronti di Berlusconi. Gli andrà
perennemente contro tanto che, nel finire della sua vita, Montanelli sarà
chiamato addirittura comunista quando affermerà, nelle elezioni del 2001,
che avrebbe votato Rutelli. Instancabile, si butta in una nuova avventura,
siglando l'accordo per la direzione di un nuovo quotidiano, «La Voce».
L'obiettivo è ambizioso: «Fare un quotidiano di una destra veramente
liberale, ancorata ai suoi storici valori: lo spirito di servizio, il senso dello
Stato e il rigoroso codice di comportamento». «La Voce» chiude il 12
aprile 1995 per mancanza di fondi. Di queste due esperienze dirà: «Sono
state due battaglie e due sconfitte di cui vado fiero, ma che mi hanno
lasciato addosso anche nel morale e nel fisico, troppe cicatrici».
Alla chiusura de «La Voce», nel 1996 accetta l'invito dell'allora direttore
del Corriere della Sera, Paolo Mieli, di tornare in via Solferino come
editorialista. Il «Corriere» gli riserva anche una «Stanza» dalla quale
dialogare con i lettori. Muore il 22 luglio 2001.
La sua è stata sempre una voce fuori dal coro, controcorrente. Sempre
pronta a combattere per le uniche cose in cui credeva: la propria libertà di
espressione e la fedeltà verso il lettore. Credeva in un giornalismo libero
da interessi politici tanto da rifiutare la nomina a senatore a vita
propostagli dall’allora Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga.
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I.II Antefatti storici
Il 1939 è stato sicuramente l’anno della svolta in Europa. Proprio nel
settembre di quest’anno prende il via la guerra che porterà al totale
sconvolgimento dell’Occidente. Nel periodo da me considerato
(settembre 1939 – giugno 1940), tre sono le guerre che tengono banco
nella cronaca mondiale: la Germania contro la Polonia; la Finlandia
contro la Russia ed infine la Norvegia invasa dalle forze di Hitler.
Germania - Polonia: I tedeschi, sconfitti malamente durante la prima
guerra mondiale, non accettano molte delle condizioni impostegli dalla
pace, soprattutto quelle che prevedono la questione dei confini polacchi
(in particolar modo il territorio di Danzica). L’avvento al potere di Hitler,
seguito subito dopo dalle sue rivendicazioni su tutto ciò che era stato tolto
alla Germania, creano in Polonia un clima di guerra alimentando la
preoccupazione sulla stabilità del governo Repubblicano. Il 23 agosto
1939 viene stipulato, tra Russia e Germania, il patto Ribbentrop –
Molotov, che sancisce di fatto, in un allegato segreto, la divisione
dell’Europa in due zone di influenza. La Germania ha ora mano libera di
aggredire la Polonia, senza rischiare un conflitto con l’Unione Sovietica. Il
1º settembre Hitler inizia la guerra che stava preparando dal 1934 con un
armamento ad alto livello e con la militarizzazione di tutta la società.
L’attacco alla Polonia è il primo passo per la conquista dello “spazio
vitale” nell’est europeo, al quale seguirà, appena due anni dopo, il
secondo decisivo con l’aggressione contro l’Unione Sovietica. La guerra