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Da quel pomeriggio, in cui visionai le foto di Duchenne provando
stupore per l’interesse scientifico che mi provocava l’argomento e terrore per
l’evidente impianto razzistico e lombrosiano del corpus di Duchenne, sorta di
Victor Frankenstein delle emozioni del XIX secolo, le riflessioni si sono
succedute, le ipotesi sono cambiate diverse volte. Mi sono mosso su un terreno,
quello della interpretazione passionale delle espressioni facciali, poco battuto
dalla semiotica sia greimasiana, che della passione ha fatto intenso oggetto di
studio a partire dagli anni novanta, sia dalla scuola echiana che invece ha
focalizzato il suo sforzo teorico sul problema dell’interpretazione. Se si esclude
infatti il lavoro di Patrizia Magli Il volto e l’anima che tratta l’argomento con
un approccio di tipo archeologico, non esiste nel campo semiotico una
approfondita riflessione su come, all’interno dell’interazione quotidiana, i visi
facciano senso in particolare riguardo alle passioni.
Questo è uno dei motivi per i quali questa tesi riporta per quasi la metà
della trattazione, corrispondente al secondo capitolo, studi che non sono
semiotici ma che vengono dalla psicologia dello sviluppo, dalla psicologia
sperimentale, in parte dall’estetica, dalle neuroscienze e da una parte della
filosofia della mente. Questa prolungata incursione in ambiti non semiotici può
essere da più parti criticata. Ma come ho detto la natura stessa dell’argomento
mi ha costretto a far riferimento a teorie, dati e tecniche di sperimentazione che
ancora mancano all’interno della semiotica. A questa ragione pratica deve
essere aggiunta la mia convinzione personale più generale che la semiotica non
possa non guardare a ciò che accade nell’ambito delle scienze cognitive: si può
costruire, per esempio, una teoria del sentire corporeo ignorando
completamente le più recenti acquisizioni sul funzionamento fisico dei nostri
meccanismi sensoriali? Credo di no, pena il ridurre la teoria a un mero
esercizio di stile che come tale è facilmente smentibile.
Nonostante questo impianto fortemente extra disciplinare della
trattazione, questa tesi è retta sin dal suo titolo da una struttura teorica che è da
un lato quella della semiotica interpretativa e dall’altro è una applicazione
all’argomento in analisi delle più recenti proposte teoriche venute da Jacques
Fontanille e soprattutto da Eric Landowski. Per questo il secondo capitolo è
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stretto proprio fra due capitoli squisitamente semiotici: il primo ricostruisce il
dibattito che ha portato la semiotica attuale a mettere al centro dei suoi interessi
il sentire e il patire corporeo, il terzo è invece una traduzione e sistemazione
semiotica delle ipotesi avanzate nel primo e verificate su altri campi nel
secondo.
L’argomento qui affrontato è di una tale vastità che trattarlo
esaustivamente senza averlo prima inquadrato secondo un punto di vista
teorico e argomentativo preciso è di fatto impossibile o comunque richiede
decenni di lavoro. Il mio punto di presa teorico sull’argomento è quello della
più recente proposta avanzata da Landowski: il contagio.
Il contagio è una operazione di enunciazione in cui il soggetto sente
quello che sente l’altro come se fosse egli stesso a sentirlo: più comunemente
questa operazione di enunciazione è un “mettersi nei panni dell’altro”,
assumerne in via immaginativa il punto di vista (nel senso più generale del
sentire). Nei termini di Landowski un soggetto riproduce gli stati e le azioni di
un altro soggetto che fornisce il modello di concatenazione di questi stati e di
queste azioni, provando, a volte anche senza averne piena coscienza, quello che
sente l’altro. Vedendo l’espressione di una passione sul viso di un altro quindi
dovrei per contagio imitarla.
Su questo punto entrano nella mia trattazione le ricerche empiriche
psicologiche e neurologiche che verificano proprio questa ipotesi: sin dalla
nascita siamo biologicamente indotti a riprodurre le espressioni dei visi che
percepiamo, siamo cioè biologicamente predisposti a essere contagiati
dall’alterità e dalle passioni. La ragione è di natura evolutiva e biologica:
segnalare e trasmettere attraverso l’espressione del disgusto la presenza di un
elemento contaminante nell’ambiente, per esempio del cibo avariato,
salvaguarda la integrità fisica dell’individuo e del corpo sociale di cui esso fa
parte. O anche propagare la paura nel gruppo è fondamentale per predisporre le
difese dai pericoli, per esempio la presenza di nemici o di oggetti che
minacciano l’incolumità.
Questa è una ragione evolutiva e biologica alla base del diverso grado
di propagazione delle passioni, infatti esistono passioni che si propagano più
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facilmente, come per esempio appunto la paura o il disgusto, e passioni invece
meno contagiose. In genere le passioni più contagiose sono quelle naturali e
innate, legate alla sopravvivenza: la paura e il disgusto proteggono il bambino
dall’avvelenamento e permettono ai genitori di rimuovere ciò che minaccia
l’incolumità del figlio.
Le emozioni acquisite hanno però nel nocciolo del loro significato e nel
modo della loro propagazione proprio le emozioni naturali: il disprezzo, la
passione del razzismo, ha per esempio alla propria base il disgusto (come
vedremo questa modulazione dal naturale al culturale ha alle spalle una
ragionevole rilettura del pensiero peirceano a opera di Savan). Dunque lo
studio delle passioni dal punto di vista biologico ed evolutivo illumina i modi
socio-semiotici in cui le passioni, sia quelle naturali che quelle acquisite, si
propagano nel discorso sociale.
Dalle ricerche empiriche sull’effettivo movimento imitativo dei muscoli
facciali sino ai più recenti e sofisticati studi sui neuroni specchio, tutti i dati
concordano in questo senso a indicare nel contagio e nella imitazione che ne
consegue il mezzo stesso dell’interpretazione. L’operazione di enunciazione di
“mettersi al posto di” è produzione segnica che permette l’accesso al
significato.
La tesi che qui si sostiene è quindi che il contagio, operazione di
enunciazione del “mettersi nei panni altrui”, è il tramite dell’interpretazione:
attraverso l’imitazione facciale dell’espressione percepita nell’altro posso
accedere al significato passionale. La passione dell’altro per essere compresa
deve abitare il mio corpo, essere riportata dalla materia carnale del corpo altrui
a quella del corpo proprio. A partire da questo passaggio sarà possibile
accedere alla passione dell’altro, che nel mentre potrebbe anche diventare la
mia stessa passione (compassione).
Spero che questa mia breve esperienza di ricerca possa essere utile a
qualcuno. Quello che ho imparato io è che nella ricerca, forse non solo
accademica, ogni risposta possibile a cui siamo giunti ci permette solo di
spostare la linea dell’orizzonte un po’ più in là e di prendere il fiato necessario
a scandire un’altra domanda.
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1. Corpo, percezione e passione: un percorso semiotico.
Nel primo capitolo si ricostruirà l’orizzonte teorico e metodologico in
cui si inscrive questo lavoro. A partire dalla nozione di segno si evidenzieranno
le mosse teoriche fondamentali che da una semiologia linguisticocentrica ha
condotto oggi a una semiotica dell’estesia e delle passioni.
La problematica percettiva e passionale sta ridefinendo l’intero assetto
epistemologico del campo semiotico e ha posto il corpo al centro delle
attenzioni e degli studi degli ultimi anni. La semiotizzazione del corpo va a
colmare una mancanza che è sorta gradualmente con lo spostamento
dell’indagine semiotica dall’oggetto “segno”, riconducibile allo strutturalismo,
all’oggetto “semiosi”. In altri termini l’aspetto della significazione come
sistema, soprattutto nel corso degli anni ottanta, ha perso la sua pertinenza
epistemologica a favore dell’aspetto processuale.
Se lo studio della significazione nella sua dimensione sistemica ha
prodotto soprattutto uno studio dei segni come insieme socialmente e
culturalmente dato di cui la semiologia offriva categorie descrittive e
tassonomiche, nell’ottica processuale la significazione è soprattutto produzione
segnica e cioè descrizione dei modi di manipolazione del continuum e di
correlazione tra espressione e contenuto. Ciò vuol dire che se negli anni
settanta e ottanta il problema principale dei semiologi era quello di effettuare
una sorta di censimento e classificazione di segni già culturalmente e
socialmente dati, negli anni novanta il problema della semiotica è divenuto
soprattutto il modo della correlazione e della produzione, cioè ciò che permette
di unire un piano del contenuto a un piano dell’espressione. Questa
problematica è già presente e già trattata nella semiologia dei decenni passati,
ma essa è divenuta centrale solo negli ultimi quindici anni. È su questo nodo
teorico che entra il corpo, e l’enunciazione, come soggetto operatore capace di
correlare significato e significante.
Il ruolo del corpo trova nella percezione la sua piena realizzazione.
Proprio la tematica percettiva scuote i fondamenti della vecchia semiologia,
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con la valorizzazione di suggestioni provenienti dalla fenomenologia, già negli
anni settanta presente sia nella semiotica greimasiana sia in quella echiana.
L’effervescenza teorica degli ultimi anni mette in discussione postulati
semiotici risalenti al Corso di linguistica generale di Saussure. Uno per tutti il
tema dell’arbitrarietà del segno linguistico che è appunto messo in forte
discussione dagli studi sul rapporto tra percezione e linguaggio che hanno
acquisito salienza teorica in questi anni. Lì dove si pensava come arbitrario e
totalmente privo di qualsiasi “aggancio naturale” (CLG: 87) il segno
linguistico, ora lo si ridefinisce come motivato su base percettiva e somatica
(questo obbliga per esempio una riformulazione di quei limiti inferiori della
semiotica che venivano indicati da Eco negli anni settanta). La semiotica non è
riuscita a liberarsi di questo modello di segno linguistico se non in anni recenti,
nonostante già trent’anni fa si dichiarava che tale “nozione di segno risulta
inadoperabile” (Eco, 1975: 283).
Questo limite non è presente solo nella semiotica strutturale ma anche
in quella cognitiva di ispirazione peirceana. Nonostante Peirce non abbia
valorizzato il linguaggio come sistema modellizzante primario nel suo modello
implicativo e inferenziale, la forza normativa della lingua e la sua capacità di
tradurre il senso di ogni altro sistema semiotico utilizzante qualsiasi sostanza,
rientra nel modello della semiotica echiana tramite la porta di una
epistemologia relativista: la percezione è precostituita sulla base di schemi già
esistenti per cui “si percepirebbe solo quanto consentito da schemi prestabiliti”
(Bonfantini, 1980: LI), cioè solo quanto linguisticamente già espresso o
linguisticamente trasducibile.
Il risultato di questi assunti teorici sia sulla semiotica strutturalista che
su quella cognitiva è stata la totale evacuazione del reale, Oggetto Dinamico
peirceano o Materia hjelmsleviana, dal segno e dai processi di significazione e
l’appiattimento su un modello teorico di tipo lessicale. Nei recenti studi
semiotici si assiste a una svolta che non nasce improvvisamente negli anni
novanta ma che cova già nei settanta, risultando però come narcotizzata da quel
modello di segno appiattito sul linguistico che abbiamo evidenziato. Infatti già
nella seconda parte del Trattato di semiotica generale (Eco, 1975), dedicata ai
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modi di produzione segnica, si parla, in termini fenomenologici, di percezione
come funzione che paragona “due oggetti semiotici, vale a dire il contenuto di
una espressione linguistica con il contenuto di un atto percettivo” e come “atto
metalinguistico che associa un costrutto linguistico con un costrutto percettivo
semiotizzato” (ibid.: 227), ed Eco individua nel modello linguistico il disturbo
principale allo sviluppo della semiotica negli anni settanta (ibid.: 237). Il
problema è appunto che il “costrutto percettivo semiotizzato” è ancora per lo
stesso Eco, nel 1975 e anche in seguito, un costrutto semiotizzato dalla lingua
che trasforma “ogni altra semiotica nel piano del proprio contenuto” (Eco,
1984: 33).
Sembra che negli anni settanta e ottanta pur vedendo il problema del
modello del segno linguistico non si riesca ad uscirne, e pur avvertendo la
necessità di una semiotica basata sul tensivo del continuum e non sul discreto
delle categorie linguistiche non si riesca a lanciarne il progetto. In un certo
senso, come in una ideale maratona, il campione di questa svolta semiotica
viene fatto continuamente scivolare dalla mano del maratoneta di turno,
aspettando qualcuno capace di coglierlo con mano più sicura.
Questi elementi saranno valorizzati da Eco soltanto dopo più di venti
anni con Kant e l’ornitorinco (1997) in cui si attua un ribaltamento della
prospettiva in cui l’Oggetto Dinamico, fino ad allora terminus ad quem della
semiosi, ne diviene il terminus a quo, individuato in ciò che “prendendoci a
calci” ci fa parlare. Eco parla così di una realtà che non è più costretta, come
nella semiologia strutturalista e nella semiotica degli anni settanta e ottanta,
nelle maglie segmentate e arbitrariamente formate delle griglia culturali
imposte dalla lingua, ma una realtà che ha le sue linee di resistenza e pone la
sua presenza in tutta la sua ingombranza materica e carnale. Presenza con cui
la semiotica deve fare i conti come un viaggiatore che arrivato a una montagna
non tracciata sulla propria mappa non può certo ignorarla. Così il reale e la
materia riprende il suo posto all’interno dello studio del senso sancendo il
superamento di un modello esclusivamente intralinguistico e ciecamente
antireferenziale.
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Dall’opposto campo della semiotica strutturale la valorizzazione della
fenomenologia già presente nei lavori di Greimas avviene con la pubblicazione
di De l’imperfection (1987) e poi con Semiotica delle passioni (1991) scritto a
quattro mani con Jacques Fontanille. Centrale nella semiotica greimasiana è
l’enunciazione, come casella vuota del testo che è possibile reperire, ma non
raggiungere, attraverso la logica delle coordinate di natura temporale, spaziale
e attoriale. Già l’enunciazione nel percorso generativo elaborato da Greimas
funge da soggetto operatore della significazione nel processo di convocazione
delle strutture discorsive dalle sottostanti strutture semio-narrative. Ma risulta
essere ancora emanazione di una semiotica che ragiona sul segno linguistico e
su un sistema logico binario e discreto. E anche in questo caso il sistema
linguistico oppone il proprio limite: ha un senso solo ciò che è discretizzato
sulle basi logico-semantiche del quadrato semiotico greimasiano.
Il superamento di questo quadro teorico conduce ad affiancare alla
dimensione categoriale quella del continuo, e quindi a ripensare la semiotica
anche in termini tensivi. In questo contesto diventano così centrali i concetti di
tensione, foria e timia e il recupero del concetto di icona applicato ai processi
percettivi. Proprio la percezione e il sentire passionale e affettivo del corpo
come momento dello stabilirsi della significazione è il nodo centrale della
semiotica odierna. Questo momento percettivo e affettivo costituisce la
precondizione della significazione. Pur rimanendo intatta l’importanza del
momento della discretizzazione del continuum e della successiva
categorizzazione, il momento precedente è fondativo e logicamente necessario
alla significazione pur agendo in uno spazio di senso che è ancora
precategoriale e dunque anche prelinguistico. Cogliere questo momento
primario è essenziale per comprendere il modo in cui noi diamo senso al
mondo, infatti di tale momento aurorale quello successivo di categorizzazione
conserva memoria e traccia e ne costituisce il momento necessario e motivante.
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1.1. Il Segno.
Per comprendere le ragioni del progetto di una semiotica estesica e
passionale e della spinta verso un suo sviluppo così forte nel corso degli anni
novanta, occorre fare un passo indietro, verso i padri fondatori che circa un
secolo fa ne hanno gettato le basi: Ferdinand de Saussure e Charles Sanders
Peirce. Da questi due modelli di segno elaborati dal linguista ginevrino e dal
filosofo americano è obbligatorio partire per un’articolata riflessione sulle
ragioni dell’attuale svolta semiotica.
1.1.1. Il segno nel paradigma strutturalista.
Lo strutturalismo ha i suoi momenti fondativi nelle lezioni che Saussure
tenne tra il 1906 e il 1909 a Ginevra e dalle quali i suoi allievi hanno ricavato il
Corso di linguistica generale. Punto centrale degli studi linguistici di Saussure
e della sua visione del segno è l’antireferenzialismo. Il linguista ginevrino
confuta l’idea comune e ricorrente della corrispondenza tra parole e cose.
Intento che accomuna Saussure a Frege che già nel decennio precedente aveva
formulato una distinzione tra Sinn, senso che poi diverrà intensione nella
semantica filosofica di Carnap, e Bedeutung, riferimento extralinguistico. A
Frege Saussure è accomunato da una certa tendenza linguistico-centrica in cui
la parola diviene il segno per eccellenza. Da Frege Saussure si differenzia per
una radicalizzazione dell’anti-referenzialismo. Se infatti in Frege il referente
extralinguistico rimane presente nei processi di significazione in una
triangolazione con l’unità linguistica e il senso, in Saussure il referente
extralinguistico è totalmente fuori dal segno, dotato di una struttura biplanare e
il cui senso si riduce a fatto intralinguistico.
Il segno linguistico in Saussure “non unisce una cosa e un nome, ma un
concetto e un’immagine acustica” (CLG: 83) cioè è combinazione di un
significato e di un significante. Questo modello correlativo mette due masse
amorfe, una del pensiero e l’altra dei suoni, l’una di fronte all’altra.
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Figura 2. Il modello di segno in Saussure, come combinazione tra concetto e immagine acustica.
La lingua ne attua un sezionamento, segmenta e taglia pensiero e suoni
e li correla secondo un processo “en quelque sorte mystérieux” in cui la “scelta
che elegge questa porzione acustica per questa idea è perfettamente arbitraria”
(ibid.: 138).
Figura 3. Le linee verticali rappresentano l’azione di sezionamento della lingua e la conseguente
correlazione tra A, massa amorfa del pensiero (idee confuse), e B, massa amorfa dei suoni.
Il senso di ogni unità linguistica, il suo valore, scaturisce dalle
differenze foniche e concettuali, cioè dalla relazione che ogni elemento
intrattiene con gli altri all’interno del sistema in una serie di rapporti oppositivi:
“un sistema linguistico è una serie di differenze di suoni combinate con una
serie di differenze di idee; ma questo mettere di faccia un certo numero di segni
acustici con altrettante sezioni fatte nella massa del pensiero genera un sistema
di valori” (ibid.: 146). Così il significato è esclusivamente un valore
posizionale all’interno del sistema, senza alcun riferimento alla realtà
extralinguistica (e tantomeno a una dimensione psicologica a cui Saussure si
oppone fermamente) , facendo scaturire da ciò che “il modo di produzione del
segno è totalmente indifferente perché non interno al sistema” (ibid.: 145).
Così lo studio del significato è uno studio del sistema come insieme di segni
formati in un quadro di vita sociale da un significato e da un significante uniti
in un rapporto solidale.
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Tale rapporto è espunto dall’oggetto della linguistica saussuriana, in
quanto arbitrario e la cui modalità di produzione, essendo esterna al sistema,
non è teoricamente pertinente. Sul processo di cui questo rapporto è il risultato
Saussure si limita a parlare di processo misterioso di cui la sua linguistica non
risponde.
1.1.1.1 La rielaborazione di Louis Hjelmslev.
Il lavoro di Saussure viene ripreso qualche decennio dopo dal linguista
danese Louis Hjelmslev che elabora una propria teoria linguistica, chiamata
“glossematica”, muovendo appunto dagli assunti teorici presenti nel Corso di
linguistica generale, in particolare dall’antireferenzialismo saussuriano. Il
termine di “glossematica” evidenzia già il fine che Hjelmslev fissa per il suo
programma linguistico e cioè la ricerca delle invarianti ultime dei sistemi
linguistici, di quel numero limitato di elementi sottostanti a qualsiasi lingua che
combinati insieme permettono appunto il funzionamento della significazione di
qualsiasi sistema linguistico. Secondo Hjelmslev questo modello a forte
vocazione scientifica sarà possibile applicarlo “a qualunque struttura la cui
forma sia analoga a quella di una lingua naturale” (Hjelmslev, 1943: 109 della
trad. it.).
Hjelmslev riprende la nozione di segno saussuriana e la rielabora
evitando però il termine stesso di segno sostituendolo con il concetto di
funzione segnica, i cui funtivi sono due piani, reciprocamente solidali tra loro:
un piano dell’espressione e un piano del contenuto.
Questa mossa teorica è particolarmente importante: il segno, qui
concepito come unità lessicale, è la punta emersa e per questo tangibile di
un’intersezione di due sistemi soggiacenti invisibili e intangibili. Il fine che si
pone Hjelmslev con la sua glossematica, è quello di reperire le figure che
compongono separatamente il piano del contenuto e il piano dell’espressione, e
che poi unendosi solidalmente come funtivi di una funzione segnica
permettono alla lingua di significare.
Hjelmslev critica invece la teoria delle masse amorfe di Saussure. Egli
sostiene infatti l’impossibilità di concepire qualcosa di preesistente all’attività
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formatrice della lingua. Dunque le sostanze amorfe di cui parla Saussure sono
dipendenti per la loro esistenza dalla forma e concepibili solo in seguito
all’intervento delle strutture linguistiche. A questo proposito Hjelmslev parla di
Materia come fattore comune a tutte le lingue a cui è possibile pervenire
attraverso un processo di astrazione dal confronto tra lingue diverse. Lo studio
della materia esula comunque dal compito della linguistica e pertiene piuttosto
alle scienze naturali. Alla materia la lingua impone una forma. L’inattingibilità
della materia, come realtà e continuum inanalizzato, espunge totalmente tale
elemento dalla teoria linguistica, in quanto la realtà come elemento
extralinguistico è raggiungibile solo attraverso l’azione formativa della lingua
che trasforma il mondo in sostanza.
Il mondo, come insieme di suoni, immagini, configurazioni spaziali non
ancora semiotizzate, viene segmentato e formato secondo pertinenze diverse
(forma dell’espressione), producendo la sostanza dell’espressione. Il mondo,
come materia di pensieri, oggetti ed esperienze, costituisce il piano del
contenuto generato secondo punti di vista e pertinenze diverse (forma del
contenuto), producendo diverse sostanze del contenuto così come giù
schematizzato.
Sostanza dell’espressione Espressione
-------------------------------
Forma dell’espressione
Forma del contenuto
------------------------------- Contenuto
Sostanza del contenuto
La forma dell’espressione è, per esempio, il modo in cui una lingua
pertinentizza l’insieme dei suoni dell’apparato vocale. I suoni pertinenti, detti
fonemi, sono quelli che alla prova di commutazione, cioè scambiando due
suoni, producono un cambiamento di significato formando una coppia di parole
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diverse. Così un cambiamento sul piano dell’espressione produce un
cambiamento di ordine diverso sul piano del contenuto. La sostanza
dell’espressione è dunque ogni singola esecuzione linguistica. La forma del
contenuto è invece il modo in cui una lingua segmenta il mondo come materia
pertinentizzandolo e così trasformandolo in una sostanza del contenuto. Dice
Hjelmslev: “Il segno è dunque, per quanto possa sembrare paradossale, segno
di una sostanza del contenuto e segno di una sostanza dell’espressione. È in
questo senso che si può dire che il segno è segno di qualcosa. […] Ma pare più
appropriato usare il termine segno come nome dell’unità che consiste di forma
del contenuto e di forma dell’espressione, ed è stabilita dalla solidarietà che
abbiamo chiamato funzione segnica” (1943: 63 della trad. it.).
Per comprendere la semiotica attuale è importante anche un’altra
distinzione effettuata dallo stesso Hjelmslev e cioè la differenza tra processo
semiotico e sistema semiotico derivante dai concetti di sintagmatico e
paradigmatico. Il sintagmatico concerne il processo nel senso che in una
semiotica in cui il modello di segno è biplanare e appiattito sulla lingua, il
senso si caratterizza per la sua linearità spaziale e temporale. Le parole, scritte
o parlate, si susseguono in un processo lineare in cui l’una segue l’altra senza
sovrapposizioni. Il processo è dunque la dimensione del discorso, o meglio del
testo (questo concetto di testo è stato esteso oltre nella semiotica successiva a
Hjelmslev, ai testi visivi o sincretici in cui invece si opera nella co-presenza
spaziale e temporale di segni e anche al semi-simbolico governato da una
corrispondenza tra categorie, e non tra singole unità, dell’espressione e del
contenuto, detta anche ratio difficilis).
Il paradigma concerne il sistema in quanto, come nell’accezione
saussuriana, ogni segno linguistico acquisisce un valore posizionale in ragione
delle correlazioni oppositive che viene a stabilire con gli altri elementi. In
questo senso “l’esistenza di un sistema è presupposta necessariamente
dall’esistenza di un processo” e un “sistema non è inimmaginabile senza un
processo” (ibid.: 44). Tale distinzione sarà mantenuta da Eco (1975: 20) con la
dicotomia tra una semiotica della comunicazione e una semiotica della
significazione, in cui la seconda è possibile a prescindere dalla prima ma la
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prima non è possibile senza prima definire la seconda. Questa dicotomia ha poi
conseguenze notevoli anche rispetto al rapporto tra segno e contesto per cui
“non si può pensare al segno senza vederlo in qualche modo caratterizzato dal
proprio destino contestuale” (Eco, 1984: 16), cioè in quanto parte di un
processo in una semiotica della comunicazione.
La differenza però tra unità lessicale come sistema e testo come
processo in Hjelmslev diviene una differenza teoricamente trascurabile in base
al principio di condensazione ed espansione che regolerebbero le lingue. Ogni
testo può essere condensato in un semema o visivamente rappresentato come
articolazione logica di una categoria semantica (Greimas & Courtès, 1979: 275
tr. it.) così come, utilizzando un esempio di Eco nel Lector in fabula (1979), la
parola “bambino” è un testo virtuale che contiene in sé anche il testo del
racconto della strage degli innocenti e in quel senso espandibile, nella
prospettiva di un modello semantico enciclopedico. Tale espansione trova nel
modello peirceano le briglie regolatrici della semiosi, sorta di barra di grafite
che blocca la reazione a catena della fuga degli interpretanti. Questa barra di
grafite che taglia il segno, testo o unità lessicale, dipende dal grado di
pertinenza che viene stabilito da chi si trova a confronto con il testo stesso.
Il progetto di Hjelmslev è incentrato sul sistema alla cui esauriente,
coerente e semplice descrizione vuole pervenire attraverso l’analisi di catene
linguistiche a livello di processo. Per questo occorre inventariare e analizzare
ricorsivamente gli elementi di tali inventari in modo da giungere attraverso un
processo deduttivo, inventario dopo inventario, a una decrescita continua degli
elementi fino al livello ultimo di analisi in cui starebbero le unità minime,
numericamente limitate e non ulteriormente analizzabili, sia del piano
dell’espressione che del piano del contenuto. Tali elementi non sono segni,
avendo solo funzioni omoplane (riguardanti solo un piano), esse sono figure
minime la cui combinazione produce segni (Hjelmslev, 1943: 46-51 della trad.
it.). Tale modello è ispirato alla fonologia: attraverso una serie di inventari si
può giungere a un elenco limitato di fonemi, che non sono segni non essendo
correlati ad alcun piano del contenuto, la cui combinazione produce suoni
significanti e cioè parole.