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inglese presso l'Alta Corte di Calcutta, Sir William Jones, il quale
magnificava durante la lettura di una relazione ufficiale la
straordinaria bellezza della lingua sanscrita, in quanto legata al
Latino ed al Greco in radici e forme.
Il XIX secolo d.C. testimoniò la comparsa di numerose
moderne discipline, scientificamente intese: tra queste la linguistica
comparativa ( ovvero la glottologia ).
Tramite l'analisi delle diverse forme linguistiche testimoniate
da tutte le lingue IE storicamente note, si procedette pertanto alla
"ricostruzione" di un'ipotetica lingua "madre": il PIE.
Ma il presupposto fondamentale per questa nuova branca del
sapere umano emerse quasi da subito e andò rafforzandosi col
tempo e col progredire delle conoscenze. Si tratta semplicemente
della "dimostranda" realtà o irrealtà del PIE. Una volta chiarita e
risolta tale questione, sulla quale mi soffermerò nel I capitolo di
questo lavoro, si inquadreranno opportunamente le ricerche svolte
da parte dell'archeologia preistorica intorno alla lingua PIE (
Ursprache ), alla Patria Originaria ( Urheimat ), all'unico popolo
originario ( Urvolk ).
Come vedremo, la stessa linguistica comparativa non potrà
ambire a descrivere – o, almeno, a tentare di descrivere – le
caratteristiche sostanziali, di tipo non solo linguistico, ma anche
geografico, antropologico, archeologico ( culturale in genere ) del
popolo PIE, priva di elementi derivanti direttamente dalla sfera del
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reale. Così, la scienza archeologica ( la quale si sviluppa più o meno
in contemporanea con la linguistica comparativa ) acquisterà sempre
maggiore importanza, in quanto imprescindibile elemento e dato di
riscontro per la metodologia lessicologica della cosiddetta
Paleontologia Linguistica ( = PL ), della quale parlerò più
approfonditamente nei capitoli iniziale e finale di questo lavoro.
Ma, se la collaborazione tra linguistica ed archeologia non è
rischiosa in ambito storico ( difficilmente possono essere negati i
reciproci contributi tra questi due importanti campi del sapere
umano: gli scavi archeologici hanno portato alla luce le tavolette di
Bogazköy, Uruk, Cnosso e Pilo. Tali scoperte ebbero profonde
ripercussioni nel mondo della linguistica: basti pensare che senza di
esse non avremmo potuto studiare l'Ittita e il Greco Miceneo. ), più
forti difficoltà all'interazione tra le due scienze si manifestano sul
piano della preistoria, nel quale è irrimediabilmente più complesso e
problematico aprire anche un solo spiraglio di assoluta certezza.
La soluzione del problema IE interessava singolarmente
anche l'archeologia preistorica, la quale, forte dei propri strumenti,
si orientò in special modo alla ricerca e individuazione
dell'Urheimat, talune volte accettando i presupposti della linguistica
comparativa, tal'altre rigettandoli.
Ora, nel corso del tempo le due discipline si sono andate
sempre più specializzando, in particolar modo nelle metodologie di
studio e nel linguaggio specifico. In tale maniera le diversità loro
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connaturali, più che appianarsi, talvolta si sono accentuate,
giungendo a volte a gradi di opposizione difficilmente conciliabili.
Ma ciò - sia chiaro - non è sempre valido ( pensiamo ancora alla PL
).
Il campo di studi sia linguistici che archeologici, come è
inevitabile d'altra parte per ogni disciplina scientifica, non conosce
tregua. Nuovi dati e nuove proposte metodologiche non mancano
mai d'essere avanzati, mantenendo così fertile questo difficile
terreno di studi. La pubblicazione nel 1987 di Archaeology and
Language. The Puzzle of Indo-European Origins di Colin Renfrew
ha difatti suscitato clamorose reazioni nel mondo della linguistica e
dell'archeologia interessate al problema IE. Le tesi "eretiche" di
Renfrew, sia che siano accettate sia che non lo siano, costituiscono
un imprescindibile punto di snodo nell'ambito degli studi di
Indoeuropeistica, quantomeno perchè hanno risollevato e riproposto
in primo piano l'attenzione sul problema IE: per intenderci, quello
relativo alla cronologia della supposta diaspora IE; quello relativo
alla ubicazione della Patria Originaria degli IE; quello relativo alla
modalità di diffusione delle lingue IE stesse.
Dopo aver presentato la problematica metodologica della
“realtà” o “irrealtà” del PIE, in questo lavoro mi propongo di
passare in rassegna le più importanti e più recenti teorie
archeologiche e archeologico-linguistiche sulla questione IE,
cercando di fare il punto sulla eventuale produttività, o comunque
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della possibile interazione, tra i dati dell’archeologia e della
linguistica.
Ponendo la teoria di Renfrew come discrimen, mi soffermerò
dunque sulle posizioni "tradizional-migrazioniste" di M. Gimbutas e
di P. B. Gimpera, per poi passare alla scuola "moderno-
diffusionista" dello stesso C. Renfrew, di A. e S. Sherratt e di K. e
M. Zvelebil.
Una particolare attenzione mi pare doveroso dedicare
all'importante lavoro di sintesi di J. Mallory ( 1997; ed. orig. 1989 ).
Riferendomi ad esso, parlo di "re-visione": con questo intendo
evidenziare tre fatti principali. In primo luogo, si tratta di una
revisione perchè lo studio di Mallory, del 1989, è successivo a
Renfrew, Sherratt e Zvelebil: quindi, il possesso di tutti i dati, sia
quelli dell'impostazione classica che moderna, consente
un'eccellente e ampia sinossi della questione. In secondo luogo,
Mallory si rivela come l'archeologo più attento ai dati linguistici: la
sua impostazione del problema è sempre attenta a verificare o meno
la concordanza di dati linguistici da una parte e archeologici
dall'altra. In terzo luogo, la riflessione di Mallory mi pare essere
calibrata e affidabile: essa difatti ha il gran pregio di essere la più
problematica e la meno assiomatica fra quelle presentate.
Visto che il problema IE è un fatto eminentemente linguistico,
in seguito all'esposizione delle teorie archeologiche suddette,
svilupperò in un capitolo a parte un lavoro di "filtraggio" dei dati
archeologici, acquisiti secondo un'ottica esclusivamente linguistica,
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verificando o meno le tesi precedentemente esposte. Mi limiterò a
trattare quegli studi linguistici che si sono mostrati attenti ad un
confronto, talvolta anche serrato, con l'archeologia. Esulano dai
proponimenti di questo mio lavoro, il quale vuole appunto
sottolineare gli eventuali traits d'union tra linguistica e archeologia,
tutti gli studi sull'IE condotti con metodi e strumenti puramente
linguistici, i quali studi potrò semplicemente citare all'evenienza:
per tutti, mi limito qui a ricordare le pubblicazioni di T. V.
Gamkrelidze e V. V. Ivanov.
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PROTO-INDOEUROPEO: REALTÀ E RICOSTRUZIONE.
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Il problema e l'eventuale risoluzione dell'esistenza o meno del
PIE si pone a base di ogni successiva indagine in questo campo di
studi.
La questione potrebbe parere oziosa: così non è. Ogni analisi,
difatti, che voglia essere rigorosa, in ogni ambito del sapere umano,
necessita prima di tutto di definire sè stessa e la propria area
d'indagine ed esistenza.
Per quanto riguarda gli studi di Indoeuropeistica, non a caso, i
linguisti si sono concentrati su questo importantissimo aspetto del
problema. Così, nel tempo si sono delineate e variamente sviluppate
due posizioni di metodo, in sostanza: una che nega l'esistenza
effettiva di una lingua specifica chiamata, appunto, PIE; l'altra, che
invece che l'afferma.
Per sommi capi, esaminiamole entrambe; cominciando
proprio da quella di carattere negativo.
Si tratta sostanzialmente della lucidissima posizione di N. S.
Trubetskoy, cioè quella di divergenza e convergenza linguistica,
enunciata ( in seguito, però, non sviluppata ) nel 1939 ( Trubetskoy
1939:82; da una conferenza tenuta al Cercle Linguistique de Prague
il 14 Dicembre 1936 ): "Es gibt also eigentlich gar keinen
zwingenden Grund zur Annahme einer einheitlichen
indogermanischen Ursprache, von der die einzelnen
indogermanischen Sprachzweige abstammen würden. Ebenso gut
denkbar ist, dass die Vorfahren der indogermanischen
Sprachzweige ursprünglich einander unähnlich waren, sich aber
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durch ständigen Kontakt, gegenseitige Beeinflussung und
Lehnverkehr allmählich einander bedeutend genähert haben, ohne
jedoch jemals mit einander ganz identisch zu werden.".
Nonostante che anche col modello ad onde ( Wellentheorie )
sia usuale assumere una lingua originaria per le lingue di un gruppo
linguistico, Trubetskoy porta invece alle estreme conseguenze la
nozione implicita che le somiglianze tra le lingue possano
svilupparsi nel tempo tramite un processo di convergenza per
contatto ( ständingen Kontakt, gegenseitige Beeinflussung und
Lehnverker ). Critica inoltre le pericolose posizioni assiomatiche
attraverso le quali si sono venute a creare, a tavolino - sembra dirci -
, le condizioni per definire una lingua come IE. Definisce difatti sei
criteri linguistici attraverso i quali una lingua viene riconosciuta
come IE ( Trubetskoy 1939:84-85 ): 1) Non esiste alcuna armonia
vocalica ( Es besteht keinerlei Vokalharmonie ); 2) Il consonantismo
del suono iniziale non è debole come quello del suono intermedio e
finale ( Der Konsonantismus des Anlauts ist nicht ärmer als der des
Inlauts und des Auslauts ); 3) La parola non deve necessariamente
cominciare per la radice ( Das Wort muss nicht unbedingt mit der
Wurzel beginnen ); 4) La costruzione di una certa forma (verbale)
non capita solo attraverso gli affissi, ma anche attraverso alternanze
vocaliche all'interno del morfema radicale ( Die Formbildung
geschieht nicht nur durch Affixe, sondern auch durch vokalische
Alternationen innerhalb der Stammmorpheme ); 5) Oltre (quelle)
vocaliche, anche le libere alternanze consonantiche giocano una
funzione morfologica ( Ausser den vokalischen spielen auch freie
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konsonantische Alternationen eine morphologische Rolle ); 6) Il
soggetto di un verbo transitivo riceve lo stesso trattamento del
soggetto di un verbo intransitivo ( Das Subjekt eines transitiven
Verbums erfährt dieselbe Behanlung wie das Subjekt eines
intransitiven Verbums ). Dunque, se una lingua soddisfa a questi sei
criteri, può esser definita IE; se no, non lo è. Ipotizza, poi, un
periodo antichissimo, durante il quale nessuna lingua soddisfacesse
a tali criteri, e suggerisce che contatti progressivi ed influenze
reciproche tra lingue vicine abbiano prodotto, in numerose tra esse,
tutta una serie di trasformazioni che di fatto hanno consentito di
soddisfare gli stessi criteri. In tale maniera, queste lingue d i v e n t-
a n o IE.
Magnifica posizione logica, la quale, tuttavia, è difficilmente
sostenuta dai linguisti. Va comunque presa in debita considerazione
sia per la sua lucidità di argomentazione, sia perchè è in ogni caso
una teoria scientifica alternativa, sia soprattutto perchè getta luce
sulle "insidie orizzontali" ( sorta di contaminatio ) che prestiti
lessicali e innovazione linguistica possono in ogni momento tramare
ai danni della "verticalità" del modello evoluzionista ad albero (
Stammbaum ).
Veniamo dunque alla seconda, di carattere positivo.
La maggioranza dei linguisti sostiene l'effettiva esistenza del
PIE, da presupporre sulla base della effettiva constatazione di
uniformità delle lingue IE ( e sulla base delle più o meno forti
diversità rispetto ad altre lingue, definite perciò "non-IE" ).
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L'impostazione metodologica viene qui rovesciata: se nella prima
ipotesi ( cioè quella di Trubetskoy ) l'uniformità linguistica
scaturisce dalla iniziale diversità, nella seconda ogni possibile o
presumibile difetto di uniformità deve semplicemente riferirsi al
grado di diversità e al numero e alla profondità di divisioni dialettali
all'interno del PIE, in quel suo livello linguistico detto
"prediasporico". Va tuttavia aggiunto che non è da escludersi la
possibilità che un certo numero di caratteristiche "comuni" alle
lingue IE siano dovute a successivi contatti linguistici.
Pertanto, stabilire la uniformità del PIE, o di qualsiasi altra
lingua, diventa una questione che interessa il g r a d o di uniformità
all'interno della lingua stessa. Ernst Pulgram ha scritto pagine
illuminanti al riguardo ( cf. Pulgram 1959 ): tutti i parlanti "Inglese"
possono tranquillamente comunicare tra di loro tramite un dato
codice linguistico ( "la lingua inglese", appunto ), lungo un dato
arco di tempo e di spazio. Ma le varianti dialettali sono presenti ed
innegabili; e, in linea di massima, non impediscono la
comunicazione tra "Inglesi". Per restare più vicini a noi possiamo
pensare all'evidente capillarizzazione della lingua sarda, la quale fa
coincidere una variante dialettale specifica quasi per ogni singolo
paese ( penso in particolar modo alle zone interne ). D'altra parte, la
comunicazione tra un orgolese e un sarulese - ad esempio - è
assolutamente fattibile; ma anche, in linea di massima, tra un
barbaricino e un campidanese.
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Quindi, ciò che chiamiamo "Inglese" o "Sardo" o "PIE"
dipende semplicemente "on how strict we are in our requirements
or criteria for uniformity" ( Pulgram 1959:422 ).
Ritornando dunque al PIE, l'allestimento di un apparato di
forme radicali, sostantivali, etc., asteriscate e definite PIE, implica
che si tratti di una ricostruzione linguistica uniforme. Difatti, si sta
semplicemente procedendo alla creazione di un idioletto - come
sostiene Pulgram - non del parlante, ma del linguista, del metodo. Si
tratta pertanto di una ricostruzione fatta "a tavolino"; ma, d'altra
parte, è l'unica possibile: non disponiamo di certo dei parlanti PIE (
e neppure di loro eventuali testimonianze scritte dirette ) in modo da
tracciare le linee di diversificazione dialettale, le quali sono
inevitabili in ogni lingua parlata in un certo tempo e in un certo
luogo! Così, "the terms Proto-, Ur-, Primitive are firmly attached to
formulae which are timeless, non-dialectal, and non-phonetic"1.
Così, il problema del PIE si sposta dal piano della sua
esistenza o inesistenza, al piano, puramente linguistico, della sua
esistenza come lingua f i t t i z i a ( o, meglio, "ricostruita":
Reconstructed Proto-Indo-European ) o r e a l e ( Real Proto-
Indo-European ).
Le caratteristiche della lingua f i t t i z i a sono date proprio
dagli elementi di "non-tempo, non-dialetto e non-fonetica". Quindi,
1
( W. F. Twaddell "The prehistoric Germanic short syllabics", cit. in Pulgram 1959:422 )
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l'alto grado di uniformità che ci consente di ottenere la
comparazione linguistica non è specchio fedele di una realtà
effettiva. E lo stesso modello dell'albero genealogico ( Stammbaum
), che a prima vista parrebbe esser di totale garanzia ed affidabilità
per il linguista, si rivela inadatto a descrivere la molteplice
complessità di una realtà linguistica effettiva, munito semplicemente
delle sue "ramificazioni binarie". Pretendere, cioè, di poter risalire
con assoluta certezza all'unicità del PIE ( a-storico ) a partire dalla
molteplicità delle lingue IE ( storiche ) equivale a pretendere
l'impossibile dalla comparazione linguistica, la quale si rivelerà, più
avanti, utile e lecita.
Ancora Ernst Pulgram ( Pulgram 1958:146-147 ) propone una
spassosa quanto rigorosa reductio ad absurdum, caricaturando tale
tendenza: ignorando Greco, Celtico, Germanico e altri antichi
dialetti IE, potremmo ricostruire la lingua e la cultura degli antichi
Romani, a partire dal lessico romanzo ( una sorta di ipotetico Proto-
Romanzo, dunque ), trascurando del tutto il Latino. Così, solo per
citare alcuni casi, i Romani erano cristiani, dal momento che
compaiono parole in comune col Francese évêque e prêtre; anche
parole in comune col Francese bière, tabac, café evocano
l'immagine dei soldati di Cesare "guzzling beer and smoking cigars
in sidewalks cafés"...
Inoltre, l'ipotetica ricostruzione del Proto-Romanzo
fornirebbe l'immagine di un sistema flessionale dotato di non più di
due casi per il nome e quattro per il pronome ( di contro ai sei casi
del Latino classico - sette, se vogliamo considerare qualche evidente
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resto del locativo - ): così, "how can one be sure that the Proto-
Indo-European actually spoken in the authentic Urheimat had, not
the eight cases which reconstruction provides, but rather nine, or
fifteen?" ( Pulgram 1959:423, nota ). Dello stesso tenore anche le
osservazioni di V. Pisani, già nel 1939: "Ma, se si astragga dal
Latino dell'amministrazione, della letteratura, dell'esercito - tutte
cose naturalmente inesistenti nell'Indeuropa del IV millennio a.C. -,
il territorio latinizzato dell'Impero Romano ha s e m p r e constato
linguisticamente di tanti dialetti tenuti assieme da un sistema di
isoglosse le quali risalivano bensì in buona parte al Latino, ma in
parte anche alle lingue prelatine delle diverse regioni e in parte
erano posteriori alla introduzione del Latino..." ( Pisani 1939:36 ).
Stesso discorso va fatto per l'apparato fonologico PIE. Esso è
difatti ricostruito a posteriori , in modo da giustificare la casistica
fonetica delle lingue IE conosciute. Ed esso non può pretendere di
riflettere perfettamente la situazione fonologica PIE: basti pensare
che necessita di una revisione e reinterpretazione ogni qual volta si
venga a conoscenza di una nuova lingua della famiglia IE ( così
avvenne, ad esempio, dopo la scoperta del Tocario e dell'Ittita ).
La lingua, invece, r e a l e , è calata nella oggettività del
mutare storico. Pertanto, se la lingua PIE ricostruita è, per
definizione e per metodo, uniforme al massimo livello, quella
effettivamente parlata ( "reale", appunto ) presenta un grado di
uniformità decisamente più basso e variabile. Data la mancanza di
testimonianze dirette, lo studio del PIE reale "deve" necessariamente
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avvalersi anche di un approccio non-linguistico per cercare di
colmare le sue evidenti lacune. L'aiuto tra i più importanti è
senz'altro quello fornito dall'archeologia preistorica, ma è anche
quello tra i più insidiosi e difficili, come vedremo meglio nei
capitoli successivi, conducendo esso il più delle volte a scoperte
illusorie o a viziose tautologie.
La totale uniformità e cristallina compattezza del PIE
ricostruito potrebbe trovare una effettiva corrispondenza
archeologica ( e quindi configurarsi in buona parte come "reale" )
solo all'interno di una società piccola, priva di stratificazioni sociali,
endogamica, isolata sia geograficamente che culturalmente. Tali
condizioni, fino ad ora, non sono mai state soddisfatte.
Così, dobbiamo ammettere la nostra effettiva ignoranza non
solo riguardo al PIE reale in sè stesso, ma anche riguardo al tempo e
alla cultura e al luogo dei suoi parlanti.
Ci troviamo pertanto ad un punto di stallo. E, curiosamente,
già i Neogrammatici stessi evidenziarono tale stato di cose: difatti,
in polemica contro la metodologia ricostruttiva schleicheriana (
Stammbaum ), sostennero che le realtà ricostruite su dati linguistici
altro non fossero che "indogermanischer Nebel" e che il quadro
finale fosse semplicemente "Nebelbild" ( Osthoff-Brugmann 1878:
X ). Anche Antoine Meillet si esprimerà in termini simili, dicendo
dell'IE come di una lingua di cui "on ne sait rigoureusement rien...,
une langue parlée par des hommes x en un lieu x, en un temps x" (
Meillet 1926:124 ).