4
la gente comune [non dipende] dai filosofi per dare un senso alla propria vita.
La costruzione del senso ha luogo sia nelle strade sia nei libri. L’opinione
pubblica si forma tanto nel mercato e nelle taverne, quanto nelle sociétés de
pensée
3
.
In entrambi i casi –sia che le idee calino dall’alto, sia che salgano dal basso-
ciò che conta è cercare di capire come esse interagiscano fra loro e con il mondo
circostante. Bisogna, perciò, volgere lo sguardo all’effettiva circolazione e diffusione
delle idee e comprendere attraverso quali mezzi siano potute diventare patrimonio di
un numero più o meno ampio di persone, fino al punto di spingerle a rischiare la vita
in loro nome. Il veicolo privilegiato per la trasmissione delle idee è la parola, sia
nella forma orale che in quella scritta: l’attenzione andrebbe dunque focalizzata, da
un lato, sui luoghi di sociabilità, in cui gli uomini hanno la possibilità di incontrarsi e
di discutere, dall’altro, sulla stampa. Solo così sarebbe possibile arrivare a cogliere i
processi alla base della moderna opinione pubblica.
A questo proposito occorre una precisazione. Quando parliamo di opinione
pubblica, utilizziamo una categoria creata da chi osserva gli eventi a posteriori; nella
realtà, però, è difficile riuscire ad identificare un quid agens che corrisponda
precisamente ad essa. Nella realtà esistono singole idee che possono interagire e
spingere verso la redazione di un programma politico; soprattutto, esistono élites e
gruppi sociali più sensibili di altri alle problematiche politiche, che cercano di
alimentare un movimento d’opinione a loro favorevole. Solo tenendo costantemente
presenti queste puntualizzazioni è possibile, a nostro avviso, usare proficuamente
questa categoria nell’indagine storica; ed esse saranno sempre sottintese tutte le volte
che ci capiterà di usare l’espressione ‘opinione pubblica’.
Questa ricerca, comunque, è ben lungi dall’avere l’ambizione di analizzare
l’evoluzione dell’opinione pubblica o l’effettiva diffusione delle idee nazionali e
unitarie nella Toscana della Restaurazione. A questi temi, tuttavia, è strettamente
legata, poiché essa focalizza la propria attenzione sul principale strumento a
2
A.M. BANTI, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita,
Einaudi, Torino, 2000.
3
R. DARNTON, Libri proibiti. Pornografia, satira e utopia all’origine della Rivoluzione francese,
Mondadori, Milano, 1997, p. 181.
5
disposizione delle autorità granducali per controllare, e all’occorrenza impedire, la
circolazione delle idee: la censura. È studiando questa –e in modo particolare quella
preventiva piuttosto che quella repressiva sui libri introdotti dall’estero- che è
possibile indagare quali e quanti spazi le autorità lasciassero aperti all’introduzione
di nuovi principi, idee e passioni.
Purtroppo, la censura toscana dell’età della Restaurazione non è mai stata
oggetto di studi organici e tanto meno esaustivi. L’unico che abbia provato a
cimentarsi in questa indagine è stato Achille De Rubertis, il quale, però, non ha mai
delineato un quadro completo né dell’organizzazione di questa istituzione né delle
varie istruzioni e circolari che ne regolavano la prassi, non illuminando a pieno
nemmeno l’aspetto ideologico che guidava la censura nella sua azione: egli si è
limitato a narrare singoli episodi riconducibili ad essa. Gli scritti di De Rubertis ,
tuttavia, sono importanti, poiché citano una grande quantità di documenti originali ed
inediti e, dunque, essi sono stati fondamentali per la presente ricerca. Ancora più
importante, però, è risultata la grande mole di appunti, che De Rubertis aveva
raccolto e solo in minima parte utilizzato per i suoi lavori e che ora sono conservati
presso la Biblioteca Archivio del Risorgimento di Firenze. Quasi tutti questi appunti
sono costituiti dalla pedissequa trascrizione di carte conservate all’Archivio di Stato
di Firenze e sono sempre state controllate confrontandole con gli originali: per questo
motivo, tutte le fonti inedite sono citate in base alla loro collocazione nell’Archivio
di Stato. Solo in un caso questa verifica non è stata possibile e ciò è stato segnalato in
nota.
La documentazione raccolta dal De Rubertis è stata, infine, integrata e ampliata
da un’attenta ricerca presso l’Archivio di Stato di Firenze, condotta più
specificamente nei fondi della Censura, della Segreteria di Stato e della Presidenza
del Buon Governo.
6
CAPITOLO I
L’ORGANIZZAZIONE DELLA CENSURA
1.La legge del 28 marzo 1743
Non è possibile affrontare lo studio della censura granducale nel periodo della
Restaurazione senza parlare, almeno brevemente, della legge sulla stampa
promulgata dal governo lorenese il 28 marzo 1743, che rimase ufficialmente in
vigore per più di cento anni. Automaticamente richiamata in vigore l’8 luglio 1814,
quando fu abolita la legislazione penale francese e restaurata quella ferdinandea, essa
fu confermata dai regolamenti per l’organizzazione della censura redatti dalla
Segreteria di Stato, rispettivamente nel 1826 e nel 1842; ancora nel 1846 il
presidente del Buon Governo ordinava ai suoi sottoposti di richiamare con forza al
rispetto di tale legge quei librai che avevano smerciato il libello azegliano su Gli
ultimi casi di Romagna, stampato alla macchia in Firenze con la falsa indicazione
Italia 1846
1
. Solo il 1º giugno 1847, quando entrò in vigore la nuova legge sulle
stampe del 6 maggio 1847, le vecchie norme stabilite nel 1743 vennero abrogate.
I pochi studi
2
che oggi possediamo sulla genesi della legge del 1743 e sulle
circostanze che portarono alla sua promulgazione partono tutti dalla linea
interpretativa tracciata da Niccolò Rodolico agli inizi del ’900. Nel suo libro del
1910 dedicato ai rapporti conflittuali fra Stato toscano e Chiesa nel periodo della
Reggenza, lo storico trapanese affrontava il nodo della legge sulla stampa alla luce
della politica giurisdizionalista intrapresa dal nuovo Granduca, Francesco Stefano di
Lorena, e dai suoi ministri a Firenze, principalmente Richecourt e Rucellai
3
. La
prassi, che si era venuta a determinare in Toscana in fatto di censura e di controllo
della circolazione libraria, vedeva la netta preminenza dell’autorità ecclesiastica: un
manoscritto, per essere approvato, doveva passare l’esame dell’inquisitore e
dell’ordinario della diocesi e, in seguito, del funzionario regio. In questo sistema, poi,
1
Cfr. A. DE RUBERTIS, Studi sulla censura in Toscana, Nistri-Lischi, Pisa, 1936, pp. 369-378.
2
Cfr. M. A. MORELLI TIMPANARO, Autori, stampatori, librai. Per una storia dell’editoria in
Firenze nel secolo XVIII, Olschki, Firenze, 1999; S. LANDI, Il governo delle opinioni. Censura e
formazione del consenso nella Toscana del settecento, Il Mulino, Bologna, 2000.
3
Cfr. N. RODOLICO, Stato e Chiesa in Toscana durante la Reggenza lorenese (1737-1765), Le
Monnier, Firenze, 1910.
7
chi realmente concedeva l’imprimatur ai manoscritti per i quali si chiedeva il
permesso di stampa era l’inquisitore
4
, mentre l’Arcivescovo e il funzionario regio si
limitavano ad apporre il loro visto. Questo stato di cose apparve al nuovo governo
come una palese usurpazione dei propri diritti, che andava ad aggiungersi ad altre
prerogative e privilegi che nel corso del tempo il tribunale del Sant’Uffizio aveva
accumulato, e che costituivano il segno inequivocabile dell’eccessiva posizione di
forza che esso aveva raggiunto in Toscana. Il nuovo corso politico, dunque, mirò a
ridimensionare il potere dell’Inquisizione e la legge del 1743 rientrò proprio in
questa linea di condotta, poiché segnò il ripristino della potestà dello Stato
nell’attività censoria. Anzi, quella della stampa probabilmente fu, fra le questioni
riguardanti i rapporti tra Stato e Chiesa, quella che rivelò «una maggiore intenzione
innovatrice nel governo lorenese»
5
e quella più spinosa da affrontare, tanto che i
contrasti tra Firenze e Roma seguiti alla pubblicazione della legge durarono più di
dieci anni
6
.
Ad accrescere maggiormente i dissensi fra la gerarchia ecclesiastica e il
governo lorenese, e in diretto rapporto con la questione della stampa, c’era poi il
problema della massoneria. La creazione della loggia hannoveriana di Firenze
risaliva ai primissimi anni ’30 del secolo XVIII
7
, ma la preoccupazione di Roma
crebbe dopo che il cambio di dinastia aveva portato sul trono granducale un
frammassone, la cui politica giurisdizionalista venne vista anche nell’ottica di un
effettivo vantaggio per le ‘conventicole’ deistiche, in quanto mirante a limitare
l’influenza in Toscana di quell’istituto che nella Chiesa post-tridentina era chiamato
a fare da argine al diffondersi di dottrine eterodosse. Difatti, la bolla papale In
eminenti, con la quale Clemente XII nel 1738 condannò la massoneria, potrebbe
4
Questa prassi andava ad incrementare il potere esercitato dal Sant’Uffizio in materia di stampe: esso,
infatti, aveva fra le proprie funzioni anche quella di vigilare sull’introduzione di libri dall’estero; cfr.
S. LANDI, Il governo delle opinioni, op. cit.
5
F. DIAZ, I Lorena in Toscana. La Reggenza, Utet, Torino, 1988, p. 128.
6
Il 17 aprile 1743 la Congregazione del Sant’Uffizio condannò come eretica la nuova legge sulla
stampa e minacciò di scomunica tutti quegli autori, stampatori e librai che si fossero adeguati ad essa.
Fu solo nell’aprile del 1754 che si giunse ad una conciliazione e al ritiro della condanna: «non mai
nella storia della Toscana controversie tra Stato e Chiesa ebbero maggiore durata» (N. RODOLICO,
Stato e Chiesa in Toscana, op. cit., p. 225); vedi anche F. DIAZ, I Lorena in Toscana, op. cit.
7
Cfr. C. FRANCOVICH, Storia della massoneria in Italia. Dalle origini alla Rivoluzione francese,
La Nuova Italia, Firenze, 1974. Secondo Francovich la loggia di Firenze sorse fra il 1731 e il 1732;
comunque non oltre il 4 agosto del 1732.
8
anche essere interpretata come una risposta di papa Corsini alle crescenti tensioni
dovute a scontri giurisdizionali con il governo granducale, che, sebbene già presenti
durante il regno di Gian Gastone, si infittirono con l’avvento della nuova dinastia
8
. In
ogni modo, è chiaro che la politica di Francesco Stefano, portata avanti a Firenze da
Richecourt e Rucellai, non poteva che aumentare la preoccupazione della Chiesa nei
confronti di una forma di sociabilità che, sottraendosi al suo controllo, diffondeva,
anche attraverso la stampa, un pensiero deistico contrario all’ortodossia. È qui che il
problema della massoneria e quello della censura si incontravano: secondo le
gerarchie ecclesiastiche occorreva vigilare attentamente per impedire la diffusione di
quei libri proibiti con i quali queste ‘conventicole’ spargevano il seme delle loro
‘eresie’
9
. La difesa del dogma, dunque, era per la Chiesa necessariamente collegata
alla possibilità di vigilare sulle stampe e sulla circolazione libraria: solo un’efficace
sistema di censura preventiva e repressiva poteva permettere un valido controllo
delle opinioni mirante ad evitare la diffusione di idee eterodosse.
In realtà, quella del controllo delle opinioni era una necessità anche per
Francesco Stefano di Lorena. Le complesse vicende della successione ai Medici
avevano visto l’emergere di un fronte antilorenese, che comprendeva sia quei
membri del patriziato che sognavano la rinascita della Repubblica, sia un gruppo
filoborbonico. Se il pericolo repubblicano era alquanto velleitario, quello spagnolo
era più preoccupante: la designazione di Francesco Stefano a successore di Gian
Gastone avvenne, infatti, solo col trattato di Vienna del 3 ottobre 1735, mentre fino
ad allora era stato don Carlos di Borbone a comparire come futuro Granduca. Le
mire spagnole sulla Toscana, comunque, non cessarono e la situazione si fece più
complessa con la guerra di successione austriaca: fin dal gennaio 1741 il Granduca
8
Cfr. G. GIARRIZZO, Massoneria e illuminismo nell’Europa del Settecento, Marsilio, Venezia,
1994.
9
È da notare come neanche durante il processo intentato a Tommaso Crudeli l’inquisitore fiorentino
fosse particolarmente interessato alla conoscenza dei riti e dei simboli massonici: «non è il “segreto”
né il terribile giuramento, su cui tanto insiste la bolla papale, ad attrarre l’…attenzione. Sono le letture
“libertine”, le opinioni ardite…le quali troverebbero alimento nelle “conversazioni” frequenti, nei
caffè, nelle biblioteche ricche di letteratura proibita…: l’involucro massonico le protegge, le accredita
favorendo contatti con ebrei ed “eretici” forestieri, mentre sfugge al cordone sanitario apprestato per
arginare il diffondersi del contagio» (G. GIARRIZZO, Massoneria e illuminismo nel Settecento, op.
cit., pp. 81-82).
9
temette un attacco ispano-napoletano
10
. La posizione dell’ex duca di Lorena non era
certo facile, dovendo fare i conti con un’opposizione di cui facevano parte membri
influenti del patriziato toscano e che poteva contare sull’appoggio della Curia
romana
11
, ostile al nuovo sovrano giurisdizionalista e massone. Era proprio in una
situazione tanto confusa e incerta che occorreva «tenere in pugno le stampe e le
opinioni»
12
.
Sono queste le circostanze in cui vide la luce la legge del 28 marzo 1743; ad
esse vanno aggiunte alcune motivazioni economiche, che, pur essendo secondarie
rispetto all’intreccio dei fattori fin qui descritto, tuttavia non sono da trascurare,
anche perché costituiscono la causa contingente che spinse il governo lorenese ad
emanare la legge. L’occasione fu offerta, infatti, dalla richiesta avanzata dagli
stampatori fiorentini al fine di ottenere la riduzione del numero delle così dette
“copie d’obbligo”, cioè di quelle otto copie che, per ogni opera stampata, dovevano
essere consegnate a chi aveva svolto la revisione dei manoscritti –due copie ciascuno
all’inquisitore, all’ordinario della diocesi e al funzionario regio-, alla biblioteca
Magliabechiana e alla biblioteca Palatina
13
. Il numero delle copie d’obbligo era
effettivamente eccessivo e costituiva un onere gravoso, anche perché la situazione
del settore tipografico toscano non era certo florida
14
. Rucellai, incaricato dal
Consiglio di Reggenza di occuparsi della questione, collegò il problema delle copie
d’obbligo alla prassi instauratasi nella censura granducale, secondo la quale sia
l’inquisitore sia l’ordinario diocesano esaminavano tutte le opere di cui si chiedeva il
permesso di stampa, insinuando così che il solo modo per risolverlo sarebbe stato
limitare il ruolo dei revisori ecclesiastici
15
.
10
Sulla successione a Gian Gastone de’ Medici cfr. A. ZOBI, Storia civile della Toscana dal 1737 al
1848, Molini, Firenze, 1852, vol. I; P. ALATRI, L’Europa delle successioni 1731-1748, Sellerio,
Palermo, 1989.
11
Non bisogna dimenticare che sul soglio pontificio sedeva un papa appartenente alla famiglia
Corsini, una delle più importanti del patriziato fiorentino.
12
S. LANDI, Il governo delle opinioni, op. cit., p. 76.
13
Cfr. M. A. MORELLI TIMPANARO, Autori, stampatori, librai, op. cit.
14
Cfr. R. PASTA, Editoria e cultura nel settecento, Olschki, Firenze, 1997.
15
L’idea di Rucellai e di Richecourt a questo proposito fu quella di affermare il principio per cui
soltanto uno fra vescovo e inquisitore –possibilmente il primo- effettuasse l’esame dell’opera, e di
circoscrivere l’intervento ecclesiastico alle sole opere che trattassero di religione e di teologia. Nella
legge del 28 marzo, però, fu accolta solo la proposta dell’eliminazione della doppia revisione
ecclesiastica. Cfr. S. LANDI, Il governo delle opinioni, op. cit.
10
La legge del 28 marzo 1743
16
, difatti, agì in questa direzione. La riduzione
delle copie d’obbligo da otto a quattro - da consegnarsi al censore regio, al revisore
ecclesiastico, alla biblioteca Magliabechiana e alla biblioteca Palatina- stabilita
dall’articolo XVI si collegava al ridimensionamento dell’autorità, in materia di
stampe, di inquisitore e vescovo: solo uno di questi doveva intervenire nella
procedura censoria e il suo esame doveva avvenire solo dopo quello del funzionario
regio e limitarsi a verificare se nell’opera in questione vi fosse qualcosa di contrario
alla religione (art. IV). L’articolo I vietava di stampare o imprimere qualunque opera
di stampa o intaglio senza autorizzazione del Consiglio di Reggenza
17
, posto a capo
dell’intero sistema censorio, mentre l’articolo III stabiliva che tutte le opere
presentate per la revisione dovessero essere firmate e i manoscritti ben leggibili,
senza cancellature e senza postille. Gli articoli V-XV vietavano le stamperie private,
prescrivendo che chiunque volesse esercitare tale “arte” dovesse esibire il proprio
nome e l’insegna; presentare la nota dei torchi e il campione dei caratteri in suo
possesso e comunicare eventuali cambiamenti; avere un “negozio pubblico”, cioè
con l’ingresso principale su una strada pubblica. L’articolo XVII ordinava agli
stampatori di consegnare, entro tre giorni dalla stampa di ogni libro, l’originale
all’Archivio dell’Arte dei Medici e Speziali
18
, «o in quello che per questo effetto
[sarebbe stato] destinato dal Commissario, o Governatore, ne’ luoghi ove ella non
[fosse]», affinché fosse possibile ogni eventuale confronto con la copia pubblicata.
Infine, gli articoli XVIII-XXVIII stabilivano le pene per i trasgressori: il proprietario
di stamperia che avesse impresso o stampato una qualsiasi opera senza preventiva
autorizzazione, avrebbe subito il sequestro di tutti gli esemplari dell’opera stessa, la
proibizione di continuare ad esercitare l’arte e la multa di 500 scudi; il compositore
dei caratteri, che scientemente avesse eseguito la stampa, sarebbe stato invece
condannato a 3 tratti di corda in pubblico. Se poi il libro stampato senza
autorizzazione fosse risultato offensivo nei confronti della religione o dei buoni
costumi, esso sarebbe stato pubblicamente bruciato, l’autore multato di 1000 scudi e
16
Il testo della legge è riprodotto in Appendice a S. LANDI, Il governo delle opinioni, op. cit., pp.
345-350.
17
In provincia, l’approvazione delle opere presentate per la revisione venne delegata ai Governatori e
ai Commissari Regi, cfr. M.A. MORELLI TIMPANARO, Autori, stampatori, librai, op. cit., p. 53.
11
privato dell’eventuale pubblico impiego, mentre il compositore rischiava fino a
cinque anni di galera; sarebbero stati considerati come offensivi dei buoni costumi
anche opuscoli e pamphlet ingiuriosi nei confronti di singoli (art. XX). Se, invece,
tali libri contrari alla religione e ai buoni costumi fossero risultati introdotti
dall’estero, i venditori sarebbero stati considerati come autori (XXI). Infine l’articolo
XXVIII stabiliva che a comminare le pene sarebbero stati il Tribunale degli Otto a
Firenze e i Governatori e Commissari nel resto del Granducato.
Queste, dunque, le disposizioni stabilite dalla legge del 1743. Occorre tuttavia
sottolineare come alcune di esse venissero di fatto ad alterarsi nell’applicazione
concreta, ad iniziare proprio dal ruolo giocato nell’attività censoria dall’autorità
ecclesiastica, l’intervento della quale, nel corso degli anni ’60 del ’700, venne a
ridursi al solo campo delle opere di contenuto religioso e teologico
19
. Tale prassi fu
ufficializzata da una Notificazione del 4 febbraio 1793, che affermava che «la licenza
da ottenersi dai Vescovi…riguarda[va] unicamente la pubblicazione d’opere, fogli
manoscritti, o stampati, che si ravvolg[essero] sopra materie di teologia, e
interess[assero] i dogmi della Santa Nostra Cattolica Religione, e non gli altri di
argomento diverso da questo»
20
.
Un altro punto della legge, che venne necessariamente a modificarsi nel corso
del tempo, fu quello che affidava al Consiglio di Reggenza la sovrintendenza alla
revisione delle stampe: una volta sciolto tale consiglio nel 1765, questo incarico
venne affidato a un funzionario facente parte, di norma, della Segreteria di Stato, fino
18
A partire dal 1771, i manoscritti originali furono depositati presso la Segreteria di Stato, cfr. ivi, p.
104.
19
Cfr. S. LANDI, Il governo delle opinioni, op. cit.
20
La Notificazione è citata in M. A. MORELLI TIMPANARO, Autori, stampatori, librai, op. cit., p.
114. L’autrice, alle pagine 112-114, delinea in maniera sintetica ma precisa le vicende che portarono a
questa Notificazione. Il 14 agosto 1791, gli Arcivescovi di Firenze, Pisa e Siena inviarono al
Granduca una Rappresentanza per implorare «un libero esercizio dell’apostolico loro ministero». In
questo testo si criticava l’eccessiva libertà in materia libraria, perniciosa per la religione e lo stato, e si
chiedeva di permettere a tutti i Vescovi di «invigilare sopra l’impressione, e introduzione dei libri
nelle respettive loro diocesi…e di rimettere in vigore la legge imperiale del 1743». Effettivamente,
coll’articolo V della Notificazione del 13 ottobre 1792, si richiamava alla stretta osservanza di questa
legge, stabilendo che occorreva informarsi del «sentimento dei Vescovi prima di permettere la
pubblicazione di alcun’opera in stampa». Anche la successiva Notificazione del 30 gennaio 1793
sottolineava l’obbligo di sottoporre tutto ciò che si voleva stampare al rispettivo Vescovo (articolo
VI). Tuttavia, ciò dovette apparire come una concessione eccessiva, poiché la citata Notificazione del
4 febbraio 1793 veniva emanata per «dileguare i dubbi insorti sull’interpretazione dell’articolo VI
della Notificazione de’ 30 gennaio 1793».
12
a quando, il 1º giugno 1791, non venne incluso fra le competenze del direttore della
Segreteria stessa
21
.
Neanche la parte penale della legge venne applicata con precisione e
puntualità: in linea di massima le autorità granducali furono abbastanza clementi nei
confronti dei trasgressori e, comunque, non comminarono quasi mai in tutto rigore le
pene previste
22
; tuttavia, nonostante si guardasse a questa parte della legge come a
«un avanzo dell’antica barbarie»
23
, essa fu modificata solo con l’articolo II della
Notificazione del 30 maggio 1814.
Infine, anche gli articoli, che stabilivano i requisiti delle stamperie ed
obbligavano i tipografi alla consegna di un campione di tutti i caratteri posseduti,
caddero probabilmente in disuso: tra il 1814 e il 1847, ci è stato possibile rintracciare
un unico caso in cui l’autorizzazione ad intraprendere l’attività di stampatore venne
subordinata al rispetto di queste disposizioni della legge del 1743
24
Insomma, pur rimanendo in vigore fino al maggio del 1847, la legge sulle
stampe del 1743 venne modificata in parti essenziali dal legislatore. L’appello al suo
rispetto, che più volte venne avanzato nel corso della Restaurazione, era una generica
affermazione dell’obbligo di sottoporre alla censura preventiva qualsiasi scritto si
volesse dare alle stampe, piuttosto che l’espressione della volontà di una precisa
attuazione di ogni sua parte
25
. Questa generica imposizione e la responsabilità degli
stampatori di fronte alla legge per qualsiasi trasgressione in materia di stampe erano,
in pratica, gli unici retaggi di queste disposizioni ancora vigenti nel XIX secolo.
Bisogna, infine, porre attenzione ad un ultimo aspetto. Nel 1743, quando venne
promulgata, la legge sulla stampa era improntata ad una indubbia ‘modernità’, poiché
21
Cfr. ivi, pp. 69-70.
22
Cfr. ivi, pp. 86-110; vedi anche S. LANDI, Il governo delle opinioni, op. cit.
23
M. A. MORELLI TIMPANARO, Autori, stampatori, librai, op. cit., p. 107.
24
Si tratta di Pietro Torrini di Volterra, autorizzato, nel luglio 1831, ad aprire una stamperia in un
locale «avente i requisiti voluti dalla legge», cfr. lettera del Presidente del Buon Governo a Neri
Corsini, in Archivio di Stato di Firenze (A.S.F.), Segreteria di Stato (1814-1849), busta 972, prot. dir.
7, n. 4.
25
Il 20 novembre 1840 il Presidente del Buon Governo scriverà alla Segreteria di Stato che «sebbene
spesso si citi la legge del 28 marzo 1743 è chiaro che la medesima vi si richiama in modo dimostrativo
e non tassativamente come regola a cui ricorrersi nelle singole trasgressioni», cfr. Biblioteca Archivio
del Risorgimento di Firenze, Carte De Rubertis, b. 1, inserto A. Il De Rubertis afferma che l’originale
di questo documento si trova in A.S.F., Presidenza del Buon Governo 1814-1848. Affari comuni.
Parte prima, f. 1583, neg. 444. Non è stato, tuttavia, possibile controllare la veridicità di tale
13
sanciva la laicizzazione di quell’organo di controllo preposto alla sorveglianza della
produzione del principale mezzo di diffusione delle idee: il libro. In questo modo, il
sovrano si poneva come l’unica autorità capace di giudicare quali principii fosse
lecito che circolassero nei suoi dominii attraverso la stampa, senza subire il vincolo
del Sant’Uffizio e dell’Indice dei Libri Proibiti. Il principe poteva, dunque, regolarsi
in tale materia pragmaticamente, a seconda delle circostanze: almeno fino a buona
parte degli anni ’70 del settecento, il Granduca cercò di sfruttare questa possibilità di
pieno controllo delle stampe per favorire la produzione e circolazione di libri,
opuscoli e pamphlet miranti a creare, nei ceti colti, una “opinione” favorevole alla
politica delle riforme. In questo modo, il monopolio della censura si stagliava come
premessa indispensabile per la creazione di uno spazio di discussione laico, in cui
intellettuali e funzionari favorevoli alla politica riformista potessero agire per
suscitarne il consenso
26
.
Tutto ciò nell’800 non poteva più essere possibile. Le battaglie
giurisdizionaliste erano ormai terminate e, del resto, non sarebbero più state possibili
in un clima di alleanza fra trono e altare: dunque, la carica positiva della legge del
1743 connessa a questo aspetto era esaurita. Il tentativo, poi, di sfruttare il controllo
dell’attività tipografico-editoriale, per cercare di creare un consenso nei confronti
della monarchia attraverso l’azione dei ‘letterati’, non fu nemmeno accennato;
probabilmente, anzi, non sarebbe stato neanche un tentativo fattibile, perché, come
ha magistralmente mostrato Marino Berengo, gli intellettuali della Restaurazione si
mossero antagonisticamente e in opposizione rispetto a governi assolutisti, i quali, in
linea di massima, furono incapaci di riallacciarsi alle esperienze politiche
settecentesche
27
. Nel secolo XIX, dunque, nel nuovo clima venutosi a creare dopo un
avvenimento epocale come la Rivoluzione francese, il mantenimento di una censura
preventiva non poteva che caratterizzarsi come strumento di una politica meramente
conservatrice.
affermazione, poiché la filza in questione non è consultabile, in quanto danneggiata dall’alluvione del
1966.
26
Cfr. S. LANDI, Il governo delle opinioni, op. cit.
27
Cfr. M. BERENGO, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Einaudi, Torino, 1980.
14
2.La censura dal 1814 al 1826
Il 1º di maggio del 1814, nelle sale di Palazzo Vecchio, il duca di Rocca
Romana, a nome del re di Napoli Gioacchino Murat, consegnava la Toscana al
principe Rospigliosi, ministro plenipotenziario di Ferdinando III. In questo modo si
poneva termine ad una situazione che si protraeva dalla fine di gennaio, quando le
truppe napoletane, che dall’11 di quello stesso mese avevano combattuto a fianco
dell’Austria, avevano occupato la regione, ormai abbandonata dai francesi, e si dava
inizio alla politica di restaurazione, alla cui attuazione attese, per circa quattro mesi e
mezzo, proprio il Rospigliosi. L’opera del plenipotenziario del Granduca è stata
giudicata, in linea di massima, come meramente reazionaria, soprattutto dagli storici
ottocenteschi: secondo il filolorenese Zobi, ad esempio, Rospigliosi era animato da
un «furore reazionario» e da un «bigottismo fanatico e ridicolo»
28
, tanto che solo la
presenza al suo fianco del più moderato Frullani poté evitare che egli portasse
all’estremo la sua politica.
Questo giudizio, che, nel suo tendere ad addossare a Rospigliosi tutto il
negativo e a Frullani tutto ciò che di positivo ci fu nella Restaurazione granducale,
andrebbe probabilmente sfumato e reso meno manicheo
29
, è dovuto innanzi tutto ai
primissimi atti compiuti dal Rospigliosi. Questi lo stesso 1º maggio emanò tre
proclami
30
: col primo confermava temporaneamente gli ordinamenti in vigore e
manteneva ai loro posti tutti i pubblici funzionari; col secondo escludeva da tale
conferma quella parte della legislazione francese contraria ai principi della religione
cattolica
31
; col terzo ripristinava la presidenza del Buon Governo ponendovi a capo
Aurelio Puccini, un ex giacobino convertitosi al partito dell’ordine. Istituita nel 1784,
la presidenza del Buon Governo ebbe fin dall’inizio competenze e poteri molto vasti,
quali la direzione degli affari di polizia per l’intero Granducato; il controllo
28
A. ZOBI, Storia civile della Toscana, op. cit., vol. IV, p. 27.
29
Cfr. A. AQUARONE, Aspetti legislativi della Restaurazione in Toscana, in «Rassegna Storica del
Risorgimento», anno XLIII (1956), fasc. 1, pp. 3-35; R. P. COPPINI, Il Granducato di Toscana.
Dagli anni francesi all’Unità, in Storia d’Italia diretta da Giuseppe Galasso, Utet, Torino, 1993.
30
Cfr. ivi; vedi anche P. PIERI, La Restaurazione in Toscana (1814-1821), Mariotti, Pisa, 1922; A.
ZOBI, Storia civile delle Toscana, op. cit., vol. IV.
31
Si trattava delle «norme del codice civile regolanti la formazione degli atti dello stato civile, nonché
quelle riguardanti il divorzio e la separazione personale dei coniugi» (A. AQUARONE, Aspetti
legislativi della Restaurazione in Toscana, op. cit., p. 4).
15
dell’efficienza e correttezza dei giusdicenti provinciali; la sorveglianza su stranieri,
mendicanti e questuanti; la sovrintendenza di tutti gli stabilimenti di pena; la
direzione del regio fisco; la sorveglianza sugli spettacoli teatrali e sui libri
provenienti dall’estero. Inoltre la presidenza del Buon Governo svolgeva anche
funzioni giudiziarie, poiché aveva la facoltà di comminare pene tramite la così detta
“potestà economica”, un tipo di processo assolutamente privo di garanzie per
l’imputato
32
. Con la Restaurazione queste prerogative vennero rafforzate dalla
maggiore centralizzazione dell’amministrazione granducale, eredità del sistema
prefettizio francese, tanto che il presidente del Buon Governo si trovò ad intervenire
«con notevole invadenza un po’ in tutti i settori della vita pubblica, esercitando un
assiduo controllo su tutti i rami dell’amministrazione dello stato»
33
. Inoltre ci fu
anche un effettivo aumento delle funzioni della presidenza del Buon Governo,
dipendente dal fatto che essa fu il primo “dicastero” ad essere ripristinato e quindi
anche «il più destro ed a portata nel raccogliere le facoltà che andarono a perire»
34
.
Questo accadde, in primis, per tutte quelle prerogative che nel sistema napoleonico
erano state proprie dei prefetti e dei sottoprefetti, e fra le quali figurava anche il
controllo dell’intero settore tipografico-editoriale, censura delle stampe inclusa
35
. Nel
momento di incertezza e confusione legislativa e burocratica, dovute al decadimento
degli ordinamenti imperiali e al non ancora effettuato ripristino di quelli granducali,
per continuare ad assolvere tali compiti e per cercare di garantire unicità d’intenti e
d’azione alle autorità prefettizie, prive ormai del punto di riferimento costituito
precedentemente da Parigi, ci si affidò alla sola istituzione toscana già rientrata in
funzione.
Come si è detto, questo accadde anche per la censura. Infatti, fin dal 2 maggio
1814 il sottoprefetto del circondario di Arezzo aveva scritto al Puccini chiedendo
32
«La potestà economica conosce…dei fatti non definiti dalla legge, ma indicati per modo generico,
anche di mero sospetto, o di mera intenzione;…segue una procedura che rimane egualmente ignota al
pubblico e all’accusato;…applica pene incerte e dipendenti dall’arbitrio»; inoltre nei processi
economici gli imputati sono privi di avvocati difensori, cfr. L. GALEOTTI, Delle leggi e
dell’amministrazione della Toscana, tipografia Galileiana, Firenze, 1847, pp. 29-31. Sulla presidenza
del Buon Governo nel ’700 vedi C. MANGIO, La polizia toscana. Organizzazione e criteri
d’intervento (1765-1808), Giuffrè, Milano, 1988.
33
A. AQUARONE, Aspetti legislativi della Restaurazione in Toscana, op. cit., pp. 12-13.
34
A. ZOBI, Storia civile della Toscana, op. cit., vol. IV, p. 32.
35
Cfr. Décret Impérial contenant Règlement sur l’Impremerie et la Librairie del 5 febbraio 1810, in
«Bulletin des lois de l’Empire Français», Impremerie Impériale, Paris.
16
istruzioni riguardo ad una «canzonetta» che si voleva stampare in quella città. Il
sottoprefetto ricordava innanzi tutto che il Commissario Generale della Polizia in
Toscana lo aveva delegato per la revisione delle stampe e chiedeva il permesso per
continuare ad esercitare questi poteri; in secondo luogo, descriveva la “canzonetta”
in questione «come propria a fomentare dei disordini» e accennava infine alla
situazione del proprio circondario, nel quale asseriva esservi «diverse istorielle, che
sebbene non stampate, e dai ragazzi, e dai canta storie si [andavano] pubblicamente
contando, e che [erano] piene di sarcasmi e di non decenti espressioni, contro il già
Imperatore, e le persone, che l’[avevano] servito»
36
. L’8 maggio, il presidente del
Buon Governo, in linea con le disposizioni del 1º maggio con le quali Rospigliosi
aveva confermato gli ordinamenti vigenti, rispondeva al sottoprefetto di poter
continuare ad esercitare questa sua funzione e di decidere sulla “canzonetta” in
questione come meglio credeva, ricordandogli solo che era «intenzione dell’I. e R.
Governo di impedire la pubblicazione di tutto ciò che [poteva] in qualche modo
alterare la quiete pubblica, e fomentare lo spirito di partito tra i suoi amministrati»
37
.
Negli stessi giorni, anche la Segreteria di Stato dovette iniziare a prendere in
considerazione il problema della revisione delle stampe: il 7 maggio inviava alla
presidenza del Buon Governo il Resoconto della ritirata da Mosca, che il libraio
Riccardo Tondini aveva presentato alla Segreteria di Stato per ottenere il permesso di
pubblicarlo. Il biglietto che accompagnava il manoscritto specificava, inoltre, che,
«non avendo ancora il Ministro Plenipotenziario del Granduca…destinato i soggetti
che [avrebbero dovuto]…rivedere le stampe che si domanda[va]no di pubblicare», si
incaricava il presidente Puccini di provvedere «momentaneamente» alla revisione,
«per non ritardare di troppo agli stampatori quell’utile, che si propon[evano] di
cavare dalle diverse produzioni che desidera[va]no di dare alla luce»
38
. Questa
trasmissione di materiale non fu un fatto estemporaneo, poiché si ripeté nei giorni
successivi: il 9 la Segreteria di Stato consegnò le carte dello stampatore Cambiagi
36
Lettera del Sottoprefetto di Arezzo al Puccini, 2 maggio 1814, in A.S.F., Presidenza del Buon
Governo 1814-1848. Affari comuni. Parte prima, f. 25, negozio 981.
37
Lettera del Puccini al Sottoprefetto di Arezzo, 8 maggio 1814, ibidem. Insieme alla precedente, essa
è citata anche in A. DE RUBERTIS, Nuovi studi sulla censura in Toscana, La Nuova Italia, Firenze,
1951, p. 36; il De Rubertis, però, indica erroneamente il 10 maggio come data della risposta del
Puccini.
17
relative alla ritirata dei francesi, mentre l’11 era la volta di un manoscritto presentato
dallo stampatore Fondacci dal titolo Esposizione dei fatti e delle trame che hanno
preparata l’usurpazione della corona di Spagna, e dei mezzi di cui l’Imperatore dei
francesi si è servito per realizzarla. Il 17 maggio queste opere vennero rispedite dal
Puccini alla Segreteria di Stato munite del visto di approvazione e del parere di Padre
Mauro Bernardini
39
, il quale, dunque, fin dall’inizio assolse le incombenze di
consultore della censura
40
.
L’episodio che, però, portò il presidente del Buon Governo a prestare maggiore
attenzione alla censura e a cercare di darne un’organizzazione più definita, avvenne a
Livorno. Il 15 maggio 1814, il governatore della città labronica, Spannocchi, spedì al
Puccini due decreti «del Signore dell’isola d’Elba», stampati a Livorno senza alcuna
autorizzazione. Spannocchi affermava che «l’irregolarità…di stampare dei
fogli…senza avergli prima sottoposti all’ispezione ed approvazione del Governo» era
cosa comune, nonostante che il già citato proclama del 1º maggio confermasse le
disposizioni vigenti sotto il regime francese
41
. Il governatore concludeva dicendo di
aver ordinato agli stampatori di non imprimere niente senza la sua autorizzazione, ma
che tuttavia l’unica soluzione sarebbe stata quella di promulgare una notificazione
che richiamasse in vigore in tutto il Granducato gli antichi regolamenti toscani
42
. La
risposta del Puccini si fece attendere appena due giorni
43
: egli ordinava a Spannocchi
di «pubblicare immediatamente …un regolamento sino ad ulteriori provvedimenti
più generali e definitivi, proibitivo a qualunque persona di pubblicare colla stampa
qualunque foglio, come di far circolare qualunque altro foglio stampato fuori di stato,
senza la preventiva licenza» del Governatore medesimo; inoltre, Puccini autorizzava
Spannocchi a valersi dell’eventuale aiuto di revisori da lui nominati e a punire i
trasgressori con una multa di 50 scudi, che in caso di recidiva poteva trasformarsi in
38
Lettera della Segreteria di Stato al Puccini, in A.S.F., Presidenza del Buon Governo 1814-1848.
Affari comuni. Parte prima, f. 25, neg. 1023.
39
Lettera del Puccini alla Segreteria di Stato, ibidem.
40
Cfr. A. DE RUBERTIS, Padre Mauro Bernardini, in «Bullettino Storico Pistoiese», 1951-’53.
41
«Dopo il 1° di maggio si è creduto che queste disposizioni [quelle francesi] non avessero più vigore,
benché confermate con il Proclama di S. E. il Principe Rospigliosi del 1° di maggio», lettera del
Governatore di Livorno al Puccini, 15 maggio 1814, in A.S.F., Presidenza del Buon Governo 1814-
1848. Affari comuni. Parte prima, f. 34, neg. 1410.
42
Ibidem.
43
Lettera del Puccini al Governatore di Livorno, 17, maggio 1814, in A.S.F., Segreteria di Stato
(1814-1849), b. 1, protocollo 8, n. 4.