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lavoro e come la multimedialità diventi una risorsa in più che consente di allargare il proprio bacino
d’utenza, quindi il target di pubblico potenziale, e anche di elevare la qualità finale del prodotto
grazie al surplus di collaborazioni di cui si può avvalere; il secondo incentrato sui rapporti personali
all’interno delle risorse umane dell’emittente, e di come questi ultimi influenzino in maniera
decisiva anche quelli professionali, scavalcando in parte anche i consueti criteri gerarchici interni ai
processi produttivi; infine il terzo obbiettivo, ultimo nell’elenco ma forse più importante, è stato
mettere in luce il più possibile tutti gli aspetti riguardanti il concetto di notizia per l'emittente
d'informazione Radio24. Ho cercato quindi di evidenziare il sistema delle fonti, la catena del
newsmaking, chi sono i gatekeeper, in quale punto stiano nel processo di costruzione della notizia e
come essi interagiscono con la dirigenza della radio; un ulteriore aspetto al centro del mio lavoro è
stata la determinazione dei criteri di notiziabilità, ovvero rilevare secondo quali parametri una
notizia diventa trasmettibile o meno, quindi i motivi per i quali viene giudicata interessante per il
pubblico. Rilevando i criteri di notiziabilità e il processo di newsmaking si può di conseguenza
determinare anche qual è la linea editoriale dell’emittente e quanto questa influenzi concretamente
le decisioni del gatekeeper, che potrebbe anche procedere alla selezioni dei fatti degni di nota da
rendere notizia basandosi maggiormente su valori e motivazioni personali che su norme
occupazionali, professionali e organizzative. Ho cercato quindi di determinare se e come la
piramide gerarchica inducesse delle influenze sulla valutazione individuale di notiziabilità del
giornalista selezionatore.
Il quadro teorico dentro il quale ho orientato la mia ricerca è stato quello dell'etnografia della
produzione, ovvero l'analisi della produzione dei media, quindi dei processi produttivi dell'industria
mediale. Si tratta dunque dello studio e dell'analisi dei processi di codifica (in inglese encoding) dei
prodotti dell'industria dei media, quella che generalmente viene indicata anche come “industria
culturale”, secondo Abruzzese (2003) definibile come: “l'insieme degli apparati di produzione,
distribuzione e consumo dei beni culturali che, per quanto diversi nella qualità dei mezzi impiegati e
dei pubblici a cui si rivolgono, funzionano in modi e forme integrate sino a comporre una sola
macchina, un solo sistema complesso”. Gli studi sulle emittenti e sui processi produttivi nelle
comunicazioni di massa sono diventati un vero e proprio filone d'indagine scientifica solamente a
partire dalla seconda metà degli anni '70: hanno però acquisito fin da subito una certa rilevanza
perché forniscono l'opportunità concreta di unire i due principali rami della ricerca, quello
sociologico e quello specificatamente comunicativo, rappresentando in questo senso un parziale
superamento disciplinare nella ricerca mediologica. Inoltre hanno contribuito notevolmente a de-
ideologizzare l'analisi e il dibattito sulle comunicazioni di massa in generale e sul settore
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dell'informazione in particolare. La fase della codifica infatti rappresenta un aspetto di notevole
importanza che aiuta a comprendere le specificità tecniche e culturali dei singoli mezzi, gli apparati
istituzionali e organizzativi a tutti i livelli ma anche i diversi contesti sociali e culturali in cui ha
luogo il processo di produzione.
Per parecchio tempo gli aspetti produttivi dei media sono stati piuttosto trascurati dagli studiosi, che
hanno preferito concentrare la loro attenzione sull'analisi dei prodotti. Nonostante queste difficoltà
iniziali l'etnografia della produzione riveste oggi un importanza centrale per la comprensione del
funzionamento dell'industria mediale e cerca di spiegare anche i suoi output, cioè i prodotti mediali
che vengono consumati quotidianamente. Secondo Boni (2004), fare ricerca etnografica della
codifica dei media significa: “studiare le pratiche professionali e le logiche dei processi produttivi
all'interno di un mondo complesso e composito, che comprende realtà diversificate come la
redazione di un giornale, gli studi di un emittente satellitare o l'ufficio di un produttore
Hollywodiano”. Gli studi effettuati in questo campo si sono tendenzialmente focalizzati nell'analisi
della produzione delle notizie, quindi non è errato affermare che la sociologia delle emittenti
riguarda essenzialmente i produttori di notizie. Al di là del particolare aspetto produttivo tutte le
ricerche etnografiche hanno in comune l'idea alla base, cioè considerare l'aspetto processuale delle
attività dei professionisti dei media, i rapporti tra loro e con i vari livelli dell'industria culturale,
senza tralasciare il contesto politico e quello giuridico.
Due sono stati gli approcci di studio che hanno caratterizzato lo sviluppo delle teorie di questa
disciplina scientifica: il primo ha studiato gli emittenti dal loro punto di vista sociologico, culturale,
degli standard di carriera che seguono, dei processi di socializzazione che subiscono, ecc. ecc.; il
secondo approccio invece è rappresentato dagli studi che hanno analizzato la logica dei processi
con cui è condotta la comunicazione di massa e il tipo di organizzazione del lavoro entro cui
avviene la costruzione dei messaggi. Quest'ultimo rappresenta l'approccio da me utilizzato
nell'affrontare l'indagine sul mondo dell'informazione radiofonica, in particolare su Radio24.
In virtù del mio stage di tre mesi trascorso lavorando all'interno della Redazione Programmi di
Radio24 la metodologia utilizzata per realizzare questa tesi si è basata sulla tecnica comune a tutte
le ricerche sul newsmaking di tipo etnografico: l' “osservazione partecipativa”, grazie alla quale è
possibile raccogliere ed ottenere sistematicamente le informazioni. Schlesinger nel 1978 la
descriveva così: “L'approccio entografico, diversamente da altri approcci centrati sul mondo dei
media, consente l'osservazione teoreticamente orientata delle effettive pratiche sociali che danno
luogo alla produzione culturale.” In pratica i dati vengono raccolti dal ricercatore stando
direttamente nell'ambiente oggetto di studio, sia attraverso l'osservazione sistematica di quanto vi
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accade sia con conversazioni più o meno informali e occasionali, che all'occorrenza possono
diventare vere e proprie interviste condotte con coloro che svolgono i processi produttivi. Il rischio
che corre lo studioso in questi casi – com'è capitato parzialmente anche a me stando dentro Radio24
- è quello di essere coinvolto in prima persona coll'oggetto della ricerca, passando quindi dalla
situazione di soggetto passivo a soggetto attivo che possiede un atteggiamento più integrato, col
quale rischia di confondere il suo ruolo con quello di partecipante a pieno titolo all'attività
osservata, influenzando così i risultati della ricerca. E' lo stadio noto col termine inglese “going
native”, quando il ricercatore assimila il modo di procedere, di pensare e di valutare dei giornalisti e
diventa “uno di loro”, smettendo i panni dell'osservatore neutrale. Citando le parole di Eliot (1972)
si può dire che l'influenza negativa sulla ricerca è dovuta al fatto che: “si cominciano a riconoscere i
valori e le azioni in modo così chiaro che diventa difficile immaginare come potrebbero essere
diversi”. Per prevenire gli effetti fuorvianti di questa immedesimazione del ricercatore, di questa
particolare forma di “sindrome di Stoccolma” dello studioso nei confronti dell'oggetto studiato, è
necessario al termine del periodo di lavoro sul campo attuare quello che Schlensiger chiama
“disengagement”, disimpegno, quindi distacco completo dal gruppo e dal luogo studiati. In questa
fase si riorganizza e ristruttura il materiale raccolto, cominciando ad elaborare a mente “fredda” le
prime osservazioni sparse e frammentarie, che poi in seguito diventeranno interpretazioni più
generali di carattere sociologico sui caratteri fondamentali dei processi sociali studiati. Oltre al
“going native” appena evidenziato esistono altri due importanti aspetti problematici
dell'osservazione partecipante all'interno di un organizzazione mediale: in primis la mera
osservazione dei processi professionali non è sufficiente per avere accesso a tutte le forze esterne
all'organizzazione mediale, nonostante esse abbiano un forte impatto sulle logiche produttive e di
conseguenza anche sul loro output; l'altra difficoltà risiede nel fatto che non è semplice riuscire ad
individuare chiaramente le modalità con cui l'operato del media oggetto di studio subisca le
pressioni dei suoi vertici dirigenziali, i cosiddetti “piani alti”. Detto questo rimane il fatto
inconfutabile che l'osservazione partecipante consente di mettere in luce tutta una serie di aspetti
che non sarebbe possibile rilevare mediante una semplice analisi condotta a tavolino, perché non
esiste intervista, per quanto condotta in profondità, che riesca a far emergere tutte le caratteristiche
delle routine produttive; né tanto meno si può arrivare a conclusioni veritiere sul funzionamento del
sistema produttivo basandosi semplicemente sull'osservazione dei prodotti una volta che questi
hanno preso la strada della distribuzione e del consumo. Tramite l'osservazione partecipativa si
riesce a superare questi salti logici, integrando i dati ricavati dalla partecipazione alle routine
produttive con quelli ottenuti con altri metodi, tipo interviste individuali o di gruppo o analisi dei
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materiali giunti dalle fonti più svariate. Con le analisi sul campo viene messo in evidenza anche un
altro aspetto legato alla produzione mediali, mostrando come queste siano ben meno lineari e in
realtà più complesse di quanto assunto da certe posizioni spesso puramente ideologiche, basti
pensare a tutte le teorie più o meno cospirative sui mass-media quasi sempre sfatate nei loro assunti
prevenuti e pretestuosi dalle numerose ricerche etnografiche svolte in merito.
La mia personale ricerca etnografica, che poi si è conclusa con la scrittura di questa tesi, dopo aver
individuato l'oggetto dello studio ha attraversato 6 fasi pratiche di osservazione prima e
elaborazione dei dati poi. La prima è stata definire il “disegno della ricerca”, ovvero l'arco
temporale all'interno del quale condurre l'indagine. Nel mio caso si è evidentemente trattato dei tre
mesi passati come stagista presso la redazione di Radio24, da febbraio a maggio 2005. La seconda
ha riguardato “l'accesso al campo”, una delle principali difficoltà dell'etnografia, ottenuto sempre
grazie al già citato lavoro come assistente alla produzione programmi in veste di stagista non
retribuito. Ovviamente questo tipo di accesso al campo da me ottenuto non ha significato accesso a
tutto il campo, ma solo alla porzione che riguardava più o meno direttamente la mia attività, per il
resto molti altri settori erano preclusi alla mia osservazione, e questo vale anche per quanto riguarda
l'accesso a determinate informazioni e materiali. Molto spesso le organizzazioni mediali tendono a
garantire la privacy su molte informazioni che potrebbero essere raccolte dal ricercatore e cercano
di mantenere il più possibile il controllo dei processi che si svolgono al loro interno: per questi
motivi durante il mio lavoro mi sono stati preclusi alcuni ambiti redazionali e negate alcune mie
richieste, ad esempio la possibilità di assistere in prima persona alle quotidiane riunioni di redazione
– nell'analizzare quest'aspetto della routine produttiva ho dovuto basarmi su ciò che mi aveva
riferito una persona che vi prende parte regolarmente – o di accedere a un certo tipo di
documentazione come l'organigramma dettagliato della radio. Il mio status di stagista, quindi di
parziale “insider” nel sistema, mi ha però sicuramente favorito nell'ottenimento di informazioni
spesso negate ad un completo “outsider”, cioè un ricercatore puro, ma d'altra parte mi ha esposto
maggiormente al rischio d'incappare nel pericolo rappresentato dal fenomeno di “going native”
sopracitato, al quale ho cercato di sottrarmi il più possibile attuando un mio personale
“desengagement” dall'emittente studiata, dunque cominciando la catalogazione e l'analisi dei dati
raccolti solamente al termine del periodo di osservazione partecipata sul campo, dopo qualche
settimana di riflessione sulla mia esperienza.
Una caratteristica dell'etnografia delle emittenti applicata allo studio del newsmaking è di
consentire l'osservazione dei momenti e delle fasi di crisi, quando per cause per lo più esterne (un
grosso fatto di cronaca ad esempio) ma anche interne (come quando avviene un cambio nella
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direzione editoriale) destabilizzano e destrutturano equilibri professionali e routine produttive
altrimenti stabili e ripetitive. Durante il mio trimestrale studio sul campo ho avuto la fortuna di
assistere dal vivo ad alcuni di questi momenti - in particolare in occasione della liberazione di
alcuni ostaggi italiani in Iraq - che hanno coinciso con un forte stress per tutta la redazione,
evidenziandone alcuni aspetti organizzativi e procedurali, oltreché umani ed emotivi, che altrimenti
con la normale attività quotidiana non sarebbero mai stati da me osservabili.
Dopo aver ottenuto “l'acceso al campo” la quarta fase dello studio etnografico è consistita nella
“raccolta e registrazione dei dati”. Nel mio caso ho voluto focalizzare l'attenzione principalmente
sulla struttura sociale di Radio24, quindi sui rituali dell'interazione fra le parti all'interno della
struttura produttiva, con i relativi scena e retroscena, concentrandomi in particolare sulle relazioni
gerarchiche fra i diversi livelli professionali. Nel fare ciò ho scelto di non utilizzare la particolare
tecnica di ricerca detta dello “shadowing”, che consiste nel: “seguire una persona passo dopo passo
nel corso della sua quotidianità organizzativa” (Bruni, 2003). Ho preferito piuttosto rivolgermi ad
una serie di personaggi chiave dell'ambito di Radio24, sia della dirigenza che della redazione,
lavorandoci insieme o intervistandoli successivamente.
La quinta e penultima fase della ricerca concerne “l'analisi dei dati”, che cronologicamente viene
immediatamente dopo il periodo di allontanamento (desengagement) dal mondo nel quale ero
immerso durante l'osservazione, è si è strutturata inizialmente con la selezione e sistemazione delle
osservazioni per arrivare infine all'elaborazione dei concetti.
Una volta terminato il lavoro interpretativo si arriva all'ultimo passaggio della ricerca, quello finale
e decisivo, che ha riguardato la “scrittura” di un resoconto - nel mio caso questa tesi di laurea - che
rendesse noti i risultati etnografici ottenuti. Vi sono tre diversi modi di presentare i risultati di una
ricerca empirica: la narrazione realista, processuale e riflessiva. La realista cerca di minimizzare il
ruolo di ricercatore e di renderlo il meno visibile possibile nell'esposizione dei dati. Nella scrittura
prevale quindi l'uso della terza persona, quella che rende al meglio l'idea dell'oggettività e del
distacco tra l'osservatore e l'oggetto osservato. Agli antipodi dello studioso realista c'è l'etnografo
consapevole del suo ruolo, che preferisce utilizzare lo stile processuale, il quale consiste nel fare in
modo che “la scienza risieda nei processi storici e linguistici e che il genere letterario e quello
accademico inevitabilmente si compenetrino” (Colombo, 1998). L'approccio alla stesura del
resoconto è quasi autobiografico, prevale l'uso della prima persona e il ricercatore ha un ruolo di
primo piano nella storia della ricerca, inserendovi al suo interno anche una forte componente di
introspezione. Per la mia ricerca etnografica di sociologia delle emittenti ho preferito invece
utilizzare il terzo stile narrativo, quello “riflessivo”, ovvero un mix dei primi due, nel quale il
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narratore sfrutta un tipo di scrittura in cui i discorsi in prima e terza persona si alternano l'uno
all'altro in modo da evidenziarsi vicendevolmente.
Nel primo capitolo, intitolato “la radio e l'informazione: un rapporto indissolubile”, ho voluto
innanzitutto contestualizzare l'ambito della tesi, prima definendo il quadro storico della radiofonia,
spiegandone brevemente la nascita e lo sviluppo in Italia e nel mondo; poi rivolgendo l'attenzione
direttamente al rapporto tra radiofonia e informazione, introducendo quindi l'argomento oggetto di
studio dei capitoli seguenti tramite un'analisi ancora di tipo storico, che partendo dalla descrizione
dello sviluppo dell'offerta informativa nella radio di Stato prima e dopo la seconda guerra mondiale
arriva fino al cambiamento copernicano avvenuto nel '76, grazie alla storica sentenza della
Cassazione che ha permesso anche legalmente la nascita in Italia della radiofonia privata. Ho citato
la controinformazione fatta dalle “radio libere” in alternativa al servizio pubblico negli anni '70, i
primi timidi tentativi di fare informazione delle grosse emittenti commerciali negli anni '80 e il
seguente boom dell'informazione alla radio, finalmente affrontata in maniera più compiuta anche
nella radiofonia privata, sfociato al termine degli anni '90 con l'inserimento nel mondo della radio di
alcune importanti realtà editoriali nazionali come il gruppo L'Espresso, Rcs, Sper o lo stesso
Sole24Ore, che hanno dato vita ad alcune emittenti a vocazione totalmente o parzialmente
informativa, in particolare proprio il caso oggetto di studio in questa tesi, Radio24. Il capitolo
prosegue addentrandosi in maniera più particolareggiata nel campo delle radio d'informazione,
dividendole in macrogruppi sulla base delle somiglianze nell'offerta editoriale, descrivendone le
caratteristiche e analizzando gli sviluppi del settore negli ultimi anni. In conclusione ho voluto dare
anche un rapido sguardo a due modi di fare informazione alla radio abbastanza alternativi rispetto
alle altre emittenti nazionali: Radio Popolare in quanto principale rappresentante delle radio libere
sopravvissute fino ai nostri giorni; Radio Radicale a causa del suo carattere informativo prettamente
incentrato sulla politica. L'ultimo paragrafo è dedicato alla situazione dell'informazione radiofonica
in quattro fra i paesi occidentali giornalisticamente più avanzati: USA, Gran Bretagna, Spagna e
Francia.
Nel secondo capitolo ho introdotto il caso di studio della tesi, l'emittente radiofonica d'informazione
Radio24, analizzandola prima dal punto di vista del progetto editoriale e quindi della sua concreta
realizzazione, chiudendo poi con i risultati ottenuti dall'emittente in questi anni e l'identikit
dell'ascoltatore medio. Il focus del capitolo si è rivolto principalmente verso il processo di
formazione che è sfociato nella nascita della radio - come e perché si è svolto – e a quale fosse la
missione informativa che il Gruppo editoriale IlSole24Ore si è proposto di portare avanti grazie a
Radio24, passaggio analitico fondamentale prima di iniziare la parte etnografica vera e propria
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basata sulla mia esperienza “sul campo”. Nel terzo, quarto e quinto capitolo ho dunque estesamente
descritto l'essenza di Radio24 suddividendola secondo i tre elementi fondamentali nella vita di una
radio d'informazione, uno per capitolo: la diretta, la redazione News e la redazione Programmi. Se il
momento della diretta, con tutto quello che le sta dietro, rappresenta il fulcro nonché l'apice
dell'attività dell'emittente e dunque meritava un ampio e particolareggiato spazio d'analisi all'interno
di una tesi dedicata a Radio24, altrettanto importante è stata l'analisi delle routine produttive e dei
rapporti professionali che da essa derivano, svolta sia dal punto di vista più prettamente
informativo, quello della Redazione News, che da quello riferito alla programmazione di più ampio
respiro, seppur sempre ad alto contenuto giornalistico, della Redazione Programmi. Nel capitolo
dedicato a quest'ultima, il quinto, non ho dimenticato di riservare un lungo paragrafo anche al
processo di costruzione del palinsesto, che - frutto ogni volta di diversi mesi di riunioni e di lavoro
- nella sua miscela di programmi, rubriche di servizio, promo, elementi sonori e notiziari,
rappresenta la concretizzazione dei due concetti “astratti” che assicurano l'esistenza stessa di
Radio24, ovvero il format “Talk&News” e la linea editoriale voluta dalla dirigenza.
A conclusione del quinto capitolo ho inserito anche un estesa analisi di due programmi cardine della
programmazione, A Tempo di Sport e Salvadanaio, sicuramente inseribili fra le colonne portanti
della programmazione dell'Orecchio Verde. Sono trasmissioni che vanno in onda da quando esiste
la radio stessa, quindi dal '99, perchè trattano tematiche, lo sport e l'economia, che secondo i
rilevamenti quantitativi di Audiradio riscuotono il maggior successo tra il pubblico dell'emittente. In
questi paragrafi conclusivi del capitolo ho voluto soffermarmi molto anche sulle dinamiche
redazionali che stanno dietro queste trasmissioni.
La scrittura di questa tesi, che consta in totale 257 pagine, è stata il frutto di una fase di ricerca
personale durata 5 mesi e costituita da oltre 250 ore di osservazione partecipativa svolta presso la
redazione di Radio24, diverso materiale originale raccolto in loco e 12 interviste da me realizzate al
vicedirettore, al caporedattore, alla responsabile degli assistenti, al direttore marketing, alla
responsabile web, ad un redattore delle News, a 5 conduttori di programmi (uno per area tematica),
ed infine anche ad un assistente alla produzione, in modo da avere una panoramica il più possibile
completa dei profili professionali e delle figure dirigenziali presenti nell'emittente del Sole24Ore.
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I, LA RADIO E L’INFORMAZIONE: ANALISI DI UN RAPPORTO
INDISSOLUBILE
I.1 Alcuni cenni di storia della radio
Radio e informazione. Due parole pressoché inscindibili l'una dall'altra. Fin dagli albori
dell'avventura radiofonica, più di 80 anni fa, era apparso evidente anche ai pionieri della radio il
fortissimo legame tra il nuovissimo e rivoluzionario mezzo di comunicazione immateriale e la
possibilità d'informare in tempo reale sugli avvenimenti del mondo una moltitudine di persone
prima assolutamente irraggiungibile.
All'epoca il mezzo di comunicazione più rapido era il telegrafo, creato nel 1837 da Samuel Morse,
che però consentiva solamente il trasferimento di messaggi in codice Morse da un apparecchio
emittente a uno ricevente. Era un mezzo che non serviva per informare, ma solo per comunicare. In
più la comunicazione era puntuale, cioè avveniva in maniera simmetrica da un punto all'altro e
soprattutto era ancora classificata come “materiale” : per fare in modo che il messaggio arrivasse a
destinazione richiedeva per forza il supporto fisico dei fili. Era un modo di comunicare ancora
arcaico, molto dispendioso e limitato nelle possibilità, seppur già rivoluzionario rispetto ai pony
express ed alle diligenze che l'avevano preceduto perché per la prima volta nella storia l'uomo era in
grado di far viaggiare informazioni in maniera precisa e sicura senza dover utilizzare se stesso come
messaggero.
Uno dei limiti più grandi, che all'epoca sembrava quasi insuperabile, era rappresentato dalle grosse
superfici d'acqua, gli oceani e i mari. Se infatti era teoricamente possibile, ancorché complicato e
molto dispendioso, piantare i pali ed installare delle linee del telegrafo ovunque sulla terraferma,
con maggiori o minori difficoltà a seconda dell'ambiente circostante (molto meglio una città di un
deserto ovviamente), non era nemmeno pensabile con la tecnologia del XIX secolo poter superare
gli ostacoli marini, se non a costi e sforzi esagerati
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che rendevano l'impresa poco conveniente.
Inoltre erano assolutamente irraggiungibili da qualsiasi comunicazione tutte le imbarcazioni che si
trovavano in mare aperto, il che significava che in caso di difficoltà era impossibile lanciare un
segnale di SOS ed essere soccorsi tempestivamente. I salvataggi dei naufraghi avvenivano in
1 In realtà già dal 1865 era in funzione un cavo sottomarino posato sul fondo dell'Atlantico che collegava Nuovo e
Vecchio Mondo, ma era soggetto ad una rapida usura e a continui guasti che spesso rendevano le comunicazioni molto
complicate, lente e frammentarie.
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maniera sporadica e del tutto casuale quando un altra nave transitava nei paraggi di quella in fase di
affondamento. Quest'ultimo era considerato il maggior limite e difetto del telegrafo.
Fu proprio per cercare di superare questo limite fisico che rendeva difficoltose le comunicazioni
intercontinentali e impediva il salvataggio di molti equipaggi di navi altrimenti salvabili, che
Guglielmo Marconi nel 1895 inventò la radio. La data ufficiale di nascita del mezzo radiofonico
corrisponde alla primo messaggio in codice Morse inviato e ricevuto con successo da Marconi nel
cortile della sua casa di campagna. In realtà la radio dei primissimi inizi era molto diversa da come
la conosciamo noi oggi: in origine era semplicemente l'applicazione pratica di un principio di fisica.
L'inventore emiliano non aveva fatto altro che ingegnerizzare un'altra scoperta fatta pochi anni
prima dal fisico tedesco Heinrich Hertz sulla possibilità di generare nell'etere (l'atmosfera) onde
elettromagnetiche artificiali. La radio di Marconi era il primo mezzo di comunicazione che non
richiedeva alcun tipo di supporto materiale come i fili per il vecchio telegrafo o la carta per i
giornali: si fondava esclusivamente sulla trasmissione d' informazioni, di natura immateriale, data
dalla generazione da parte di un apparecchio-fonte di onde elettromagnetiche ricevute e decodificate
da un apparecchio ricevente.
La comunicazione di massa non era però certo l'obbiettivo finale degli studi marconiani, anzi. Non
per niente Guglielmo decise di chiamare la nuova invenzione “telegrafo senza fili” (wireless in
inglese), rifacendosi direttamente all'utilizzo concreto che si proponeva per quella scoperta:
superare l'ostacolo rappresentato dal supporto materiale della comunicazione, rendendola più
rapida, più efficace ma soprattutto globale perché finalmente sarebbe stato possibile sormontare
l'ostacolo acquatico. Addirittura la possibilità che il messaggio inviato da un telegrafo all'altro
potesse essere intercettato e quindi interpretato anche da eventuali terzi sembra infastidisse
parecchio il giovane Marconi, che al contrario aveva pensato il suo telegrafo senza fili ad uso
esclusivo di una comunicazione puntuale tra un emittente e un ricevente, senza ulteriori destinatari.
Nel 1895 quindi l'inventore italiano non avrebbe neanche potuto lontanamente immaginare che
incredibile sviluppo avrebbe avuto e che rivoluzione avrebbe rappresentato a livello mondiale di lì a
pochi anni la sua neonata creatura.
Le applicazioni pratiche navali della nuova invenzione furono immediate e vastissime, tanto che
ancora oggi il telegrafista si chiama marconista. La prima dimostrazione dell'utilità della radio, che
ne consacrò la popolarità a livello planetario, avvenne nel 1912 durante il tragico e famosissimo
naufragio del Titanic, quando venne lanciato e fu ricevuto il primo SOS della storia, purtroppo
quasi del tutto inutile ai fini del salvataggio dei naufraghi.
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Nel 1906 l'americano Lee De Forest inventò una valvola elettronica, da lui chiamata audion, che
consentiva di trasmettere la voce umana invece dell'alfabeto telegrafico Morse usato da Marconi. Fu
la svolta tecnologica che portò allo sviluppo della radio moderna nella forma ancora oggi a noi
famigliare. Infatti gli Stati Uniti nel primo dopoguerra ritennero conveniente lanciarsi nella
produzione seriale di apparecchi radio solo riceventi per uso domestico. Si pensò di rifornire questi
apparecchi con musica e parole, trasmessi da una potente stazione e ricevuti da tutti gli apparecchi
sparsi nell'area di ricezione. L'apparecchio radiotelegrafico perdeva la sua simmetria e si scindeva
in due corpi asimmetrici; la trasmissione del messaggio non era più puntuale ma era universale,
diretta da una fonte trasmittente a tutte le fonti riceventi in grado di captare il segnale: era nata la
comunicazione di massa, che verrà definita dai suoi padri, gli americani, “broadcasting”, che
letteralmente significa “semina larga”, termine usato inizialmente per la radio e più tardi anche per
la televisione.
Negli Stati Uniti la radio utilizzata nella modalità broadcasting conobbe fin da subito un enorme
successo, che, dopo un primo tentativo fallito durante la prima guerra mondiale da parte della
Marina Militare di farne un monopolio statale, si tramutò fin da subito in attività commerciale
privata, svolta a partire dal 1919 dalla RCA (Radio Corporation of America), società costituita da
tanti privati di piccole e medie dimensioni. La radio negli Stati Uniti venne intesa come possibile
fonte d'affari e quindi di guadagni: una nuova attività a scopo di lucro con un enorme potenziale
commerciale. All'inizio i profitti derivavano direttamente dalla vendita degli apparecchi - all'epoca
chiamati “Music Box” - fabbricati dalle stesse società che poi producevano anche i programmi che
venivano trasmessi. Poi in un secondo tempo, quando il mercato degli apparecchi fu saturo, il ruolo
di fonte primaria di guadagni venne preso dalla pubblicità. Per la prima volta questa rappresentava
l'unica fonte di entrata di un mezzo di comunicazione. Nel 1927 per cercare di regolamentare un
mercato radiofonico in continua e sempre crescente espansione venne emanato da Washington il
secondo Radio Act
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, che sostanzialmente diceva: chiunque può effettuare trasmissioni radiofoniche
purché in possesso di una regolare licenza rilasciata da un particolare ente federale creato
appositamente, l'FRC (Federal Radio Commission, dal 1934 FCC, Federal Communications
Commission), che indicava anche su quali frequenze era possibile trasmettere. Lo stato federale,
all'epoca gestito dai repubblicani dell'amministrazione Coolidge, preso atto del contesto di un
mercato in pieno fermento e proseguendo sulle orme di una tradizione liberista da decenni ben
consolidata negli USA, abdicava definitivamente nei suoi propositi di imporsi come erogatore
2 Il primo risaliva al 1912 quando ancora non si era diffuso il broadcasting e le comunicazioni radiofoniche erano di
natura esclusivamente puntuale.
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monopolista del servizio radiofonico e si limitava al ruolo di regolatore del sistema, che in quel
periodo, come conseguenza dell'improvviso boom della radio avvenuto in assenza di una
legislazione regolatrice, si presentava ancora molto caotico ed anarchico.
Se il mondo della radio americana si avviava così ad assumere definitivamente una struttura privata,
che a tutt'oggi mantiene ben salda nonostante dalla fine degli anni '60 esista un canale radiofonico
pubblico – la NPR, National Public Radio – in Europa al contrario veniva intrapresa la strada
opposta ed in quasi tutti i paesi le trasmissioni nell'etere vennero date in gestione dai governi a
delle società a maggioranza di capitale pubblico, facilmente controllabili ed influenzabili dal potere
politico.
La storia della radio pubblica comincia nel 1922 in Gran Bretagna con la nascita della British
Broadcasting Corporation, ente statale che ottiene il monopolio delle trasmissioni radiofoniche
grazie ad una licenza rilasciata dal Postmaster General, il corrispettivo inglese del nostro ministero
delle Poste. Ad influire su questa scelta statalista ci fu sicuramente anche una valutazione negativa
del caos di antenne presente nel modello americano che si stava orientando verso una radio
esclusivamente commerciale. La mission della BBC divenne fin da subito quella di : “Istruire,
informare e intrattenere”, riprendendo le parole del suo primo direttore, John Reith, rimasto in
carica fino agli anni '30. La radio era vista come un servizio culturale che lo Stato erogava
potenzialmente a tutti i cittadini e per questo in quanto servizio pubblico doveva per forza di cose
assumere un'impostazione “pedagogica”. Secondo Reith bisognava educare il pubblico utilizzando
la forza data dalla posizione monopolista per indirizzarne i gusti, senza tenere conto delle esigenze
degli ascoltatori che richiedevano alla radio di essere intrattenuti e divertiti più che acculturati.
Prima di tutto istruire e informare, dopo intrattenere. Come una madre severa che cerca di crescere
i suoi indisciplinati figli - tutti i sudditi di Sua Maestà - con la presunzione di fare il loro bene anche
andando contro la loro volontà. Per questo la BBC non teneva assolutamente conto delle richieste
avanzate per lettera dagli ascoltatori e delle indicazioni fornite dai primi sondaggi condotti sui gusti
del pubblico. Per dimostrare la totale estraneità della radio pubblica inglese ai criteri di profitto del
broadcasting americano la BBC fin da subito non ammise alcuna forma di pubblicità privata e si
finanziò esclusivamente attraverso fondi pubblici.
Questo modello britannico venne largamente imitato in tutti gli altri paesi europei, dove la radio si
consolidò come monopolio diretto o indiretto dello Stato, sovvenzionato attraverso una tassa o un
canone di abbonamento e senza l'ausilio, se non limitatissimo, degli annunci commerciali. Era una
visione del ruolo statale agli antipodi di quella in auge all'epoca negli USA, dove il miglior governo
possibile era quello che non ostacolava in nessun modo la libera iniziativa privata, anche nel mondo
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della comunicazioni di massa. Un altro importante fattore che favorì il dominio pubblico nell'etere
del Vecchio Continente fu il fatto che a causa della forte depressione economica dei primi anni '20
sparsa un po' ovunque in Europa e dovuta alle devastazioni lasciate dalla guerra appena conclusa,
nessuna industria radioelettrica privata (e ancor meno la pubblicità) aveva le dimensioni necessarie
a finanziare i programmi radiofonici, come invece avvenne in America.
Anche l'Italia si adattò fin da subito a questo trend europeo promosso dall'esempio inglese. La data
di nascita ufficiale della radio italiana è il 6 ottobre 1924. Lo stato, ancora rappresentato dalla
monarchia, concesse una licenza monopolistica di trasmissione all'URI (Unione Radiofonica
Italiana) che inizialmente sperimentò la potenza del nuovo mezzo mandando in onda bollettini di
notizie, programmi musicali e di attualità, informazioni di borsa ed una trasmissione per bambini. Il
regime fascista però non si lasciò sfuggire le possibilità propagandistiche della radio e già nel 1927
Mussolini ordinava la creazione di una commissione speciale per studiare il nuovo medium: il
risultato fu la nascita dell'EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche), ente statale controllato da
un apposito comitato di vigilanza che prese il posto dell'URI nel possesso della licenza
monopolistica di trasmissione. Era nato un nuovo potentissimo metodo di controllo dell'opinione
pubblica, la politica si era accorta della radio e da allora non l'avrebbe più dimenticata.
L'impostazione pedagogica Reitheriana divenne parte di un meccanismo di propaganda che
trasformò tutta la programmazione attraverso i discorsi dei leader, le radiocronache delle cerimonie
pubbliche e i bollettini d'informazione. L'esaltazione dei valori nazionalistici e fascisti raggiunse un
audience allargata a cui in precedenza il regime non poteva neanche lontanamente ambire. La radio
divenne la voce ufficiale del Duce. Durante la seconda guerra mondiale questo controllo ferreo del
mezzo radiofonico venne inasprito ancor di più facendo assurgere la propaganda ad unica ragione di
esistenza della radio: a partire dal luglio 1940 le trasmissioni vennero unificate in un solo canale
nazionale con programmazione ridotta, esclusivamente di stampo propagandistico.
Nel 1944, poco dopo la caduta di Mussolini, un decreto per la riorganizzazione della radiodiffusione
istitui una nuova società per la gestione del servizio radiofonico pubblico: era nata la Radio
Audizioni Italiane, dicitura da subito abbreviata nella popolarissima sigla RAI. La scelta di creare
un nuovo ente pubblico che si occupasse delle comunicazioni di massa era dettata dalla necessità di
adattare il servizio radiofonico pubblico al nuovo contesto politico che andava delineandosi in quel
periodo storico, quello di una democrazia parlamentare multipartitica.
Il monopolio statale sulla radio (e anche sulla più giovane televisione) durerà ufficialmente fino al
1976, quando una sentenza della Corte di Cassazione, arrivata in seguito a forti pressioni
provenienti da quasi tutte le componenti della società civile, legittimò le trasmissioni radiotelevisive
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private via etere “purchè di portata non eccedente l'ambito locale”. Immediatamente ci fu un
esplosione di nuove emittenti, che a centinaia spuntarono come funghi in maniera più o meno
organizzata lungo tutta la penisola. In soli due anni RadioRai perse metà dell'ascolto a favore di
queste nuove antenne private, le cosiddette “radio libere”
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, che spesso avevano una fortissima
connotazione politica ed erano figlie di movimenti, sindacati o partiti: come la famosa Radio Alice
di Bologna, creata da un gruppo di giovani appartenenti al movimento studentesco, oppure Radio
Popolare, l'unica emittente di questo tipo riuscita a sopravvivere fino ai nostri giorni, creata alla
vigilia di Natale del 1975, quindi ancor prima della sentenza della Cassazione, e diretta espressione
della sinistra extraparlamentare milanese.
La radiofonia privata quindi nacque e si sviluppò in maniera del tutto spontanea e caotica in un
contesto di assoluta mancanza di una regolamentazione specifica che mettesse ordine negli spazi
dell'etere aperti anche ai privati dalla storica sentenza della Corte di Cassazione. In realtà i giudici
avevano deciso di offrire un possibilità concreta di aumentare il pluralismo dei mass-media,
prendendo atto di una situazione in cui già ben prima della sentenza trasmettevano su frequenze
pirata ed in regime di clandestinità ben 150 radio locali, senza contare tutte quelle emittenti private
che avendo base sul territorio straniero, quindi immune dalla giurisdizione italiana, irradiavano il
loro segnale su ampie porzioni del territorio nazionale. Ad esempio Radio Montecarlo, con sede
nell'omonimo principato e ascoltabile nel Nord-Centro Italia, attiva fin dal 1966, oppure ancora
prima Radio Luxembourg, emittente musicale e di intrattenimento sorta sulla scia dei grandi
network commerciali americani (NBC, ABC, ecc.) che trasmettendo dalla postazione privilegiata
del Gran Ducato di Lussemburgo, nel cuore dell'Europa occidentale, già dagli anni '30 era ricevibile
in quasi tutti i paesi del continente, Italia compresa.
Nel 1974 la Cassazione si era pronunciata in termini molto critici, ravvisando che la RAI non
forniva in maniera sufficiente garanzie d'imparzialità, obbiettività e pluralismo tali da giustificare il
monopolio radiotelevisivo. La situazione però era diventata ben presto insostenibile, nonostante la
riforma dei canali pubblici attuata nel 1975 per garantire la pari dignità delle tre reti e delle
rispettive testate giornalistiche. Un modello pensato però esclusivamente per la televisione e
replicato senza variazioni e modifiche per la radio, quindi non tenendo conto delle caratteristiche
specifiche del mezzo radiofonico. Per questo l'intervento della Cassazione del 28 luglio 1975 fu una
vera e propria rivoluzione, ma anche una liberazione per un sistema che non avrebbe più potuto
esistere sulla base monopolistica istituita dal fascismo 50 anni prima.
3 Con “libere” si intendeva appunto la recente libertà di trasmettere guadagnata nei confronti del vecchio monopolio
pubblico.
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La sentenza n°282, che di fatto segnava la nascita della radiofonia privata in Italia, presupponeva
però un seguito legislativo che ne regolasse i termini per la concessione e lo sfruttamento delle
licenze, oltre che la tipologia e i contenuti delle trasmissioni. L'intervento del Parlamento per
fornire tramite una legge ad hoc un contesto istituzionale a tutte le trasmissioni via etere, che in
realtà sarebbe dovuto arrivare immediatamente dopo la sentenza della Cassazione, si farà però
attendere per altri 15 anni, durante i quali il mondo della radiofonia privata crebbe lo stesso a
dismisura. Questo frenetico sviluppo causato dal silenzio della legge avvenne dunque in maniera
del tutto spontanea e disordinata. Le radio private crebbero commercializzandosi e
professionalizzandosi notevolmente durante una fase di transizione che portò dalle prime radio
libere, spontanee e dilettantesche, ad un sistema di radio musicali d'intrattenimento che nel
frattempo avevano abbandonato le tematiche fortemente politicizzate e ideologizzate dei primi
tempi, attive a livello nazionale grazie all'affiliazione con network di piccole emittenti locali, visto
che la Cassazione aveva esplicitamente limitato le trasmissioni private all'ambito locale. Radio 105,
Radio 101 (ex Radio Milano International), Radio Deejay e RTL 102.5, tutte sorte tra la fine degli
anni '70 e i primi anni '80, sono gli esempi più famosi tutt'oggi esistenti di quel periodo di
privatizzazione selvaggia della radiofonia nazionale.
Nel 1990 finalmente arrivò la tanto sospirata legge statale che mise fine al cosiddetto Far West delle
antenne in vigore fino a quel momento, determinando una volta per tutte i parametri e le regole da
rispettare per poter trasmettere in maniera regolare, soprattutto per quello che riguardava
l'occupazione delle frequenze, fino a quel momento lasciate facile preda di chi aveva i ripetitori di
segnale più potenti e che quindi poteva occupare abusivamente una o più lunghezze d'onda a suo
piacimento oscurando tutti gli altri competitori. Questa legge era la n°223/1990, più conosciuta
come legge Mammì, dal nome del suo primo firmatario nonché principale promotore in Parlamento.
Secondo l'idea del legislatore il nuovo quadro normativo avrebbe dovuto disciplinare in un unico
contesto sia l'attività televisiva che quella radiofonica, subordinandole entrambe al previo rilascio di
una concessione amministrativa. Si tratta di un sistema “misto”, nel quale l'attività di
radiodiffusione può essere esercitata, oltre che “...dalla concessionaria pubblica (la RAI), anche da
concessionari privati”, come recita il testo della norma. La Mammì riconobbe la radiofonia
commerciale nazionale stabilendo al 60% il limite massimo di copertura del territorio, l'obbligo di
programmare notiziari quotidiani e il vincolo a trasmettere soltanto pubblicità nazionale. In modo
graduale, dati i massicci investimenti necessari, i network più forti completarono la costruzione
delle reti di proprietà e la trasformazione in emittenti nazionali vere e proprie.