2
atti di convegni e saggi dedicati alla nascita del linguaggio neoclassico, fino a testi più specifici sulla pittura
di ambito romano nella seconda metà del XVIII secolo
8
.
Dopo aver constatato la totale mancanza di riferimenti che consentissero di collocare cronologicamente e
geograficamente il pittore, mi sono impegnata in una capillare ricerca nei fondi documentari dell’Archivio
Storico del Vicariato di Roma
9
. La difficoltà maggiore, all’inizio della ricerca, è stata di individuare a quale
parrocchia facesse capo l’abitazione dell’artista, in modo da poter risalire ai dati anagrafici fondamentali
quali l’anno di nascita e di morte, lo stato civile e la professione. Lo spiraglio che mi ha spinto a continuare
l’indagine archivistica si è aperto dopo una serie di sfortunati tentativi di rintracciare l’abitazione del pittore
negli “stati delle anime” delle cinque o sei parrocchie più vicine alla zona di Palazzo Barberini; consultando
invece l’elenco delle Licenze Matrimoniali della Parrocchia dei XII Apostoli, tra il 1570 e il 1906, ho trovato
la licenza a lui corrispondente
10
. Conoscendo la data del matrimonio - 30 novembre 1782 - sono risalita al
notaio che aveva redatto la pratica matrimoniale, ottenendo così le notizie sulla famiglia di Balboni e su
quella di sua moglie, Maria Cantarelli
11
. Nel fascicolo erano inseriti però anche una serie di fogli riguardanti
un precedente matrimonio da lui contratto: il pittore infatti rimase vedovo, nel giugno 1780, della prima
moglie Felice Bay, che aveva sposato il 19 gennaio 1755 nella chiesa dei SS. Celso e Giuliano.
Di conseguenza ho dovuto consultare gli incartamenti del notaio Bernardino Monti, attivo in quella data, e
tutti i documenti del fascicolo di quel primo matrimonio; finalmente ho potuto così rintracciare la fede di
battesimo del pittore e la parrocchia di appartenenza al momento della nascita
12
.
Felice Balboni nasce dunque il 18 maggio 1734 a Roma
13
, è figlio di Gaetano Balboni, anch’egli pittore, e di
Caterina Buselli. Felice trascorre i primi vent’anni di vita nella casa paterna situata nel Vicolo dei Cartari,
nella parrocchia di S. Stefano in Piscinula; dopo il matrimonio con Felice Bay, più anziana di lui di circa sei
anni, si trasferisce in una casa in via S. Romualdo, presso la Parrocchia dei XII Apostoli, dove resta fino al
8
Sarebbe inopportuno elencare in questa sede i numerosi studi, quindi rimando il lettore alla sezione D2 della
bibliografia: “Arte a Roma nella seconda metà del Settecento”.
9
Tali fondi comprendono gli atti di battesimo, le licenze matrimoniali, gli atti di morte della popolazione di Roma tra
Cinquecento e Ottocento, suddivisi in base alle parrocchie di appartenenza. Non conoscendo, di Balboni, altro che gli
anni in cui è nota la sua attività di pittore, ho impostato la ricerca, a partire dal 1763, sfogliando, anno per anno, gli
“stati delle anime” delle parrocchie della zona di Palazzo Barberini, immaginando che egli abitasse nelle vicinanze
dell’edificio, vista la sua costante presenza presso la famiglia.
10
Archivio Storico del Vicariato di Roma, XII Apostoli, Licenze Matrimoniali, 1570-1906, n. 2698.
11
Doc. XXVII, 1782, 11 novembre, fasc. Balboni Felice e Cantarelli Maria, ff. 319-20.
12
Doc. XXVI, 1755, 19 gennaio, fasc. Balboni Felice e Bay Felice, ff. 684-85.
13
Doc. XV, f. 222.
3
1782
14
, anno del suo secondo matrimonio; all’inizio del 1783 si trasferisce con la famiglia in Campo Marzio,
nella zona della Parrocchia di S. Salvatore delle Coppelle
15
, dove rimarrà fino alla fine della sua vita. Infatti,
per rintracciare l’atto di morte dell’artista, ho consultato gli elenchi dei defunti di quest’ultima parrocchia:
Felice Balboni muore il 7 marzo 1808, nella casa in via degli Uffici del Vicario 21, dove abitava da oltre 25
anni.
Sfogliando gli stessi elenchi, sono rimasta più che sorpresa nel trovare, negli anni precedenti al 1808, le
dichiarazioni di morte di ben sei figli dell’artista, quattro dei quali spentisi in tenerissima età
16
.
Avvalendomi di questi elementi sinora ignoti, cercherò di ricostruire l’itinerario artistico del pittore presso la
famiglia Barberini nell’arco del quindicennio 1763-1778; per linearità d’esposizione, per la maggiore
quantità di notizie e per esigenza di continuità con la trattazione svolta nei paragrafi precedenti, affronterò in
primo luogo l’analisi delle decorazioni dell’Appartamento del Giardino e solo successivamente quelle
dell’Appartamento rococò di Cornelia Costanza, anche se queste furono realizzate in precedenza.
L’Appartamento del Giardino, senza soluzione di continuità rispetto al secolo precedente, mantenne nel
Settecento il carattere di spazio dedicato allo svago dei suoi occupanti, come una sorta di dépendance estiva
dell’Appartamento della Divina .Sapienza
17
. L’aver mantenuto questa destinazione comportava che le
eventuali nuove decorazioni al suo interno rispettassero la tipologia delle sale o delle logge affacciate sul
giardino, proprio come aveva voluto Anna Colonna al momento della decorazione seicentesca; questa
attenzione al legame tra ambiente esterno e interno, era più che mai aggiornata in un clima artistico come
quello creatosi negli anni settanta del Settecento a Roma, in seguito alla scoperta di importanti testimonianze
archeologiche di ville e case di età romana, rimaste ignote per secoli, con le loro tipiche e affascinanti
decorazioni a grottesche che ne abbellivano le volte e le pareti
18
.
14
Doc. XXV, 1782, f. 6v.
15
Doc. XX, 1783, f. 16.
16
Docc. XVIII-XIX. L’atto di morte di Balboni è riportato al f. 82 del volume comprendente gli anni 1795-1824.
17
Sottolineo questa dipendenza tra i due luoghi perché nei mandati di pagamento non sono pochi i casi in cui il
riferimento all’Appartamento della Divina Sapienza riguardi in realtà gli ambienti dell’appartamento estivo.
18
Iniziarono nel 1738 le campagne di scavo che riguardavano le zone di Ercolano, Pompei e Stabia, distrutte dalla
violentissima eruzione del Vesuvio nel 79 d.C.: esse riportarono alla luce una quantità sorprendente di edifici le cui
decorazioni pittoriche si erano mantenute in maniera straordinaria grazie allo spessore di cenere, lapilli e fango da cui
erano state ricoperte. E. La Rocca, M. e A. De Vos, Pompei, Milano, Mondadori, 1976, ediz. cons., 1994. pp. 7-9.
4
Gli scavi condotti nel territorio di Ercolano e Pompei dal 1738 e quelli ordinati da Papa Pio VI Braschi
(1775-1799) in Roma a partire dal 1775, per riportare alla luce le pitture murali della Domus Aurea
19
, furono
di stimolo e ispirazione per i pittori e i decoratori dell’epoca. Furono soprattutto le pitture della domus
neroniana, rispetto a quelle ercolanensi, a fornire un repertorio ricchissimo di motivi ornamentali di carattere
vegetale e animale, grazie alla pubblicazione, curata da Giuseppe Carletti, nel 1776, di un volume contenente
le tavole con le incisioni tratte da quelle pitture. L’ambiente neoclassico romano dimostrò di saper cogliere
tempestivamente l’enorme potenzialità di quel genere decorativo, al punto da essere impiegato per la
decorazione di interi appartamenti in moltissimi palazzi nobili, già pochi anni dopo le suddette scoperte
archeologiche.
La riscoperta di questi straordinari esempi di pittura parietale si sommava così al mirabile repertorio
rinascimentale costituito dagli stucchi e dalle pitture delle Logge Vaticane, opera di Raffaello e dei suoi
collaboratori
20
; non bisogna dimenticare infatti che tra il XV e il XVI secolo, pittori come Pinturicchio,
Perugino, Raffaello erano stati affascinati proprio dagli affreschi della Domus Aurea, non ancora scavata, ma
raggiungibile attraverso “grotte”, come essi le chiamarono, in cui gli artisti si calavano, non sapendo di
trovarsi nei corridoi e nel criptoportico del palazzo neroniano, e dando così il nome di “grottesche” alle
pitture lì rinvenute. Come è noto, fu in particolare l’allievo di Raffaello, Giovanni da Udine, a coltivare e
diffondere il genere della grottesca e a trovare il più idoneo contesto architettonico in cui far risaltare quei
motivi: la loggia, possibilmente aperta e comunicante con un giardino
21
. L’esuberanza della decorazione
vegetale e naturalistica dell’interno non avrebbe fatto altro che richiamare il rigoglio e la vivacità della
vegetazione esterna.
La stagione neoclassica, col suo rinnovato interesse per l’antico, promosso in modo particolare da papa Pio
VI, ma già prima da studiosi e antiquari come Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), proponeva quindi
due diversi modi di concepire un apparato decorativo basato sul motivo della grottesca. Da un lato, la
19
C. Pietrangeli, Scavi e scoperte d’Antichità sotto il pontificato di Pio VI, Roma, Reale Istituto di Studi Romani, 1943,
p. 31. In realtà si credeva di aver riportato alla luce gli ambienti delle Terme di Tito; infatti il mercante d’arte Ludovico
Mirri, che promosse quelle campagne di scavo fece pubblicare l’esito delle scoperte con il titolo: G. Carletti, Le antiche
camere delle Terme di Tito e le loro pitture, Roma, G. Salomoni, 1776.
20
Le nuove scoperte archeologiche arrivarono a rivestire un’importanza tale che il modello delle Logge Vaticane venne
lasciato spesso da parte per tornare alle origini del modello stesso, vale a dire alla pittura decorativa antica: questo
accadde soprattutto a partire dagli anni ottanta del Settecento. N. Dacos, Le Logge di Raffaello, Roma, Istituto
Poligrafico dello Stato, 1977, 2ª ed. 1986, pp. 11-12.
Per una più ampia trattazione dell’influenza dell’opera di Raffaello sui pittori e decoratori di appartamenti neoclassici
rimando al paragrafo II.3.3.
21
N. Dacos, La découverte …, cit., p. 105.
5
corrente neo-raffaellesca propendeva per un’articolazione delle pareti secondo una sequenza di pannelli
scompartiti da lesene, ottenendo spesso un risultato poco consono all’ambiente stesso; la spartizione in
lesene era più adeguata infatti all’architettura di ampio respiro di una loggia, piuttosto che alle piccole
dimensioni dei gabinetti neoclassici. D’altro lato l’indirizzo neo-pompeiano, traendo ispirazione dalle pitture
di terzo e quarto stile, riportava sulle pareti di quei gabinetti un’architettura decorativa basata su finte
prospettive, quadretti (pinakés) a tema mitologico, calligrafici motivi a carattere vegetale o animale, inseriti
in fregi o a contorno dei quadretti, cercando di creare la stessa atmosfera che si respirava in una villa
dell’antica Pompei e soprattutto facendo sì che ogni parete fosse indipendente dall’altra, pur lasciando
trasparire una forte unità d’insieme.
Il piccolo ciclo pittorico dell’Appartamento d’Estate di Palazzo Barberini appartiene senz’altro al modello
neo-raffaellesco e l’analisi stilistica che segue ne chiarirà i legami e gli aspetti.
L’incarico per questa impresa decorativa venne affidato a Felice Balboni da Cornelia Costanza Barberini
22
; il
pittore firmò un contratto in data 7 febbraio 1774, in cui si richiedeva il suo intervento per “una camera o
Gabinetto su lo stile delle Logge di Raffaelle”
23
, per il quale venne pattuita la somma di circa 250 scudi.
Sullo stesso foglio che riporta gli estremi del contratto, ma in data 19 settembre 1774
24
, compare l’elenco
delle somme pagate per una serie di lavori nelle stanze dell’appartamento, dove Balboni è chiamato a
dipingere a chiaroscuro gli zoccoli, gli sguinci, i parapetti e gli archi di tutte le porte e le finestre. I pagamenti
per detti lavori furono percepiti dal pittore fino all’agosto 1775.
Questo nuovo ciclo pittorico si inserisce pienamente nel contesto di quella serie di interventi, peraltro ben
documentati, relativi all’Appartamento d’Estate, ordinati contemporaneamente a quelli di abbellimento e
restauro dell’Appartamento della Divina Sapienza, descritti nel precedente capitolo.
La ragione di tutti i lavori era legata principalmente all’esigenza di adeguare tali ambienti al nuovo gusto
neoclassico, come era volontà del principe Carlo Maria, ma anche alla necessità di porre rimedio ai danni
provocati dalla caduta di un fulmine, avvenuta intorno al 1770, come si è già ricordato a proposito delle
decorazioni eseguite da Nicolò Ricciolini e Laurent Pecheux nella “sala dell’Udienza”.
22
Molti dei pagamenti a Balboni per la decorazione del “gabinetto” sono presenti anche nei registri degli ordini e dei
mandati di Carlo Maria, il secondogenito di Cornelia; questo dato comunque non deve trarre in inganno, perché
Cornelia, in quanto titolare del maggiorasco, aveva facoltà di decidere e ordinare qualsiasi intervento ritenesse
necessario per l’abbellimento del palazzo.
23
Doc. XLI, f. 63.
24
Doc. XLI, f. 63.
6
E’ necessario ora aprire una breve parentesi relativa all’attività di Felice Balboni per la famiglia Barberini
negli anni precedenti al 1773, per chiarire il suo percorso artistico e ricordare gli incarichi ottenuti prima di
quelli in esame.
Egli sembra aver mantenuto rapporti ininterrotti con i Barberini dal 1763, convenzionalmente considerato
l’anno in cui iniziò a dipingere le stanze dell’Appartamento rococò al secondo piano, fino al 1776; il pittore
portò a termine tali decorazioni sicuramente entro l’ottobre del 1770, anche se nei registri contabili della
famiglia risultano ancora pagamenti per queste sale fino al giugno del 1771
25
.
Prima di intervenire nell’Appartamento d’Estate, e contemporaneamente all’impegno nell’Appartamento
rococò, egli fu chiamato a dipingere in diverse camere del palazzo di famiglia a Castelgandolfo, dall’aprile
del 1770 al dicembre del 1772. Dovette trattarsi di un intervento abbastanza significativo visti i frequenti
pagamenti ricevuti dall’artista, in totale circa 170 scudi per “lavori in diverse camere…” ma soprattutto per
“lavori a guazzo nella piccola galleria negli appartamenti dei mezzanini”
26
.
Nel 1773, tra maggio e settembre, con scadenza bimestrale, Balboni inizia a ricevere pagamenti per “lavori
agli Zoccoli e ai Bussoloni dell’Anticamera dell’Appartamento d’Estate”
27
, “lavori nelle due Camere
dell’Appartamento d’Estate”
28
, “…per quattro Camere nell’Appartamento d’Estate o della Divina
Sapienza”
29
: le due camere di cui si parla al f. 150 sono l’“Anticamera grande” e il “salone”, dove Balboni
pare dovesse dipingere i riquadri delle volte. A partire da queste informazioni possiamo senz’altro
identificare questo “salone” con l’ambiente che nell’Ottocento sarà destinato a camera da letto (7 x 10 m), e
che è appunto adiacente all’anticamera.
Non ci sono indicazioni precise riguardo ai motivi da dipingere sulla volta, ma sapere che Balboni ha
lavorato, probabilmente con la collaborazione di altri pittori, ad alcune parti decorative di questo “salone” ci
aiuta a spiegare perché l’aspetto d’insieme che oggi si può cogliere di questo ambiente sia così eterogeneo e
discordante nelle sue parti.
25
Doc. XXXVII, ff. 112, 138, 153, 159, 177, 187, 229.
26
Doc. XXXVII, f. 18; doc. XXXVIII, ff. 20, 52, 118. E’ possibile che in questa galleria abbia realizzato una
decorazione di maggior importanza, visto che è l’ambiente del palazzo di Castelgandolfo di cui le computisterie
forniscono più informazioni. Purtroppo la difficile accessibilità di tale proprietà barberiniana, oggi parte del complesso
apostolico del palazzo papale, impedisce un confronto visivo tra quelle pitture a guazzo e le stesse realizzate
nell’Appartamento d’Estate.
27
Doc. XXXVIII, f. 143.
28
Doc. XXXVIII, f. 150.
29
Doc. XXXVIII, f. 189. In questo caso compare, come avevo già anticipato, il doppio riferimento – “d’Estate o della
Divina Sapienza”- per indicare i lavori svolti nella zona estiva.
7
Infatti la pittura della volta non sembra sia stata realizzata in un unico intervento, vale a dire quello
settecentesco, ma deve aver subito pesanti rimaneggiamenti nel 1839, con l’insediamento in queste camere
del duca Carlo Felice Barberini e di sua moglie Giuliana Falconieri.
Dovendo rimanere nell’ambito delle decorazioni spettanti a Balboni, tralascio di descrivere le parti del
soffitto di pertinenza dei pittori ottocenteschi, ossia il nuovo riquadro centrale, che sostituì quindi l’opera di
Balboni, le pitture di paesaggio entro cornici ai quattro lati di detto riquadro e gli scomparti angolari con
motivi ornamentali a girali
30
.
Mi soffermo invece sulle quattro specchiature a fondo bianco con motivi a grottesche ed ornati di ascendenza
raffaellesca sui lati nord e sud della volta
31
: sono certamente parte del ciclo decorativo che copriva l’intera
superficie intorno al riquadro centrale e presentano tutti la stessa griglia compositiva. In basso troviamo
coppie di chimere affrontate ai lati di un vaso sostenuto da girali e dal quale si originano nuovi racemi; questi
ultimi sostengono mandorle con figure femminili danzanti su fondo rosso pompeiano, mentre la parte
superiore delle specchiature è popolata da scimmiette, uccelli del Paradiso e protomi leonine entro motivi a
voluta, e poi ancora da cesti di fiori, cembali e altri strumenti musicali appesi a sottilissimi nastri ai lati delle
mandorle.
Tutti questi motivi sono ispirati a modelli antichi, da quelli dipinti sulla volte della Domus Aurea a quelli
ripresi da Raffaello nella Loggetta e nella Stufetta del Cardinale Bibbiena in Vaticano (1516-17), quindi dai
suoi allievi e seguaci, primi tra tutti Giovanni da Udine e Giulio Romano, nella decorazione delle tre campate
della Loggia di Villa Madama.
Il Vasari racconta che nel 1516 Raffaello in compagnia dell’udinese «cavandosi da san Piero in Vincola fra
le ruine e anticaglie del palazzo di Tito per trovar figure, furono ritrovate alcune stanze sotterra ricoperte e
tutte piene di grotteschine, di figure piccole e di storie con alcuni ornamenti di stucchi bassi»
32
e che
entrambi rimasero talmente affascinati da tale trionfo decorativo che specialmente Giovanni iniziò a
studiarne i dettagli e a riprodurli senza posa.
30
Per l’analisi iconografica e stilistica di queste parti rimando al paragrafo III.1.2.
31
Lo spazio tra le specchiature oggi è occupato dalle scene di paesaggio dipinte nel 1839, ma si può presumere che al
loro posto ci fossero immagini di tempietti o baldacchini popolati da altre figure di fantasia.
32
G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, Firenze, 1550 e 1568, introduzione di M. Marini,
Roma, Newton Compton, 1991, p. 1104.
8
La tonalità bianco avorio delle specchiature barberiniane e in generale i colori tenui rosa, verde e celeste dei
tralci vegetali, degli animali fantastici e degli altri ornati, l’eleganza e lo stile delle danzatrici all’interno delle
mandorle, mostrano una stretta affinità tra questo ciclo e quello che Balboni dipingerà nel “gabinetto”.
Ci spostiamo appunto al febbraio 1774, quando l’artista firma il contratto precedentemente citato
33
; oltre al
“gabinetto su lo stile delle Logge di Raffaelle”, Balboni sarà incaricato di dipingere tutti gli zoccoli, gli
sguinci delle finestre e gli archi delle porte della “sala di Giuseppe”, della “camera da letto”, dello
“stanziolino ove è la scala”
34
.
La camera, o “gabinetto”, corrisponde alla ex cappella di epoca seicentesca, a cui si accede dallo
“stanziolino ove è la scala”: è un piccolo ambiente a pianta quasi quadrata (4,5 x 5 m) con due porte, una sul
lato est verso la “gallerietta”, l’altra sul lato sud, che permette l’ingresso nella “sala della Natività” e una
finestra che occupa gran parte della parete nord
35
.
Il soffitto a volta ribassata presenta nel tondo centrale la figura di Minerva, protettrice delle scienze e delle
arti, che ha sul capo l’elmo e regge scudo e lancia nella mano sinistra, ma è anche raffigurata come dea della
Sapienza, perché caratterizzata dalla presenza della civetta e da un ramo d’ulivo nella mano destra
36
.
Intorno a lei, sedici ‘spicchi’ con otto personificazioni di Virtù entro mandorle a fondo oro, intervallate da
otto coppie di putti con strumenti musicali e attributi riferibili alle arti, in questo caso entro mandorle a fondo
azzurro
37
: sia il soffitto che le lunette sono dipinti a tempera.
Il riconoscimento delle singole Virtù è piuttosto problematico, nonostante esse siano connotate da una
molteplicità di attributi
38
.
33
Vedi n. 19.
34
Doc. XLI, f. 63. Come si legge nel documento, Balboni è impegnato in quasi tutte le stanze dell’Appartamento della
Divina Sapienza dove, con l’aiuto di doratori e stuccatori, provvederà a ritoccare le cornici dei riquadri centrali dei
soffitti; il fatto che nell’elencare i pagamenti per dorature e stuccature ci si riferisca sempre a Balboni, ci aiuta a chiarire
la gerarchia all’interno del cantiere artistico barberiniano. Possiamo quindi affermare che egli deteneva la direzione di
tale cantiere e ne troviamo ulteriore conferma nello stesso documento, dove si parla di “un conto di giornate tanto del
Balboni che de suoi uomini”.
35
La presenza di questa finestra ha costretto il pittore a modificare e ridurre i motivi della lunetta corrispondente; non vi
sono rappresentate infatti le sfingi alate presenti nelle altre tre lunette e manca il fregio con medaglioni e cornucopie
nascenti da girali.
36
Secondo l’iconografia classica di Minerva come dea della Sapienza, la figura avrebbe dovuto tenere tra le mani un
libro oltre al ramo d’ulivo. J. Hall, Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte, Milano, Longanesi 1983, ed. cons.
1998, p. 280.
37
La doratura attuale delle mandorle con le Virtù potrebbe verosimilmente essere frutto di un ritocco ottocentesco.
38
Tengo a sottolineare che ogni tentativo di riconoscimento iconografico delle figure di questo ciclo, si deve alla
sottoscritta: mancherà inevitabilmente un corredo di note e riferimenti bibliografici, dato che non esiste alcuno studio
dedicato a tale ciclo. Per l’analisi dell’iconografia delle Virtù mi sono documentata su questi volumi: C. Ripa,
Iconologia, Roma, L. Friy, 1603, ed. cons. a cura di P. Buscaroli, Milano, Tea, 1992; J. Hall, op. cit.; I dizionari
dell’arte. Simboli e allegorie, a cura di M. Battistini, Milano, Mondadori Electa 2002.
9
E’ facile identificarne almeno cinque: la Fedeltà con il cane, la Bellezza perché seminuda e priva di altri
attributi, la Nobiltà con la corona e un gioiello al collo, la Sapienza o la Religione con il libro, la Speranza
con le mani giunte e lo sguardo rivolto al cielo. La figura con il vassoio di frutta potrebbe rappresentare la
Carità o meglio l’Abbondanza, la Giovinezza potrebbe identificarsi con quella che regge la coppa, secondo la
classica iconografia della dea Ebe, mentre l’ultima, che ha una corona di fiori sul capo, una tavoletta nella
mano destra e uno stilo nella sinistra, farebbe piuttosto pensare all’immagine di una Musa, come Clio (musa
della storia) o Calliope (musa della poesia epica), più che a una virtù. La problematicità del riconoscimento
iconografico si ripete per le coppie di amorini: si passa da quelli facilmente identificabili perché riferibili ad
allegorie della Pittura e della Scultur, dell’Architettura e della Musica, dell’Astronomia e della Scienza
39
a
quelli più enigmatici, che tengono in mano una rete da pesca, o uno strano strumento, o cavalcano un cigno.
Essi potrebbero rappresentare allegorie del canto, della danza, della pesca, o della caccia, e indicherebbero
quindi nel complesso le arti e i mestieri, ossia soggetti frequentemente abbinati alla dea Minerva.
Operando un raffronto iconografico tra alcuni di questi puttini e quelli dipinti dagli allievi di Raffaello nella
campata sud-ovest della Loggia sul giardino di Villa Madama, vi ho ritrovato la stessa immagine del putto
che cavalca un cigno: l’affresco di scuola raffaellesca, forse opera di Giulio Romano (1499-1546) o di
Giovan Francesco Penni (1488-1528)
40
, è evidentemente il modello tenuto presente da Balboni
41
.
Le pitture e gli stucchi delle Logge Vaticane appaiono come un riferimento costante in questo “gabinetto”,
ne troviamo conferma innanzitutto nelle parole del contratto firmato dall’artista. E’ di fondamentale
importanza sottolineare che nel 1772 Giovanni Volpato aveva iniziato a tradurre in incisioni quelle
decorazioni e che, nel 1774, era già stato pubblicato di queste il primo volume; dobbiamo presumere che la
circolazione di quest’opera presso studiosi e amatori d’arte, tra i quali va senz’altro annoverata Cornelia
Costanza Barberini, avesse suscitato un così forte entusiasmo ed interesse, da tradursi poi nella volontà di far
decorare ambienti privati con quel genere di pitture e di ornamenti. Il “gabinetto” barberiniano va quindi
considerato uno dei primissimi esempi del gusto neo-raffaellesco, alimentato in modo particolare dalla
pubblicazione di Volpato; ma per la struttura e le partizioni decorative già presenti nell’ambiente, esso non si
39
Gli attributi che li caratterizzano sono: la tavolozza con i pennelli, una piccola scultura raffigurante la Diana Efesia,
un compasso, strumenti musicali a fiato, il cannocchiale e la sfera armillare e un libro di contenuto scientifico.
40
Raffaello e i suoi. Disegni di Raffaello e della sua cerchia, catalogo della mostra, Roma, Villa Medici, 30 marzo – 24
maggio 1992, a cura di D. Cordellier, B. Py, Roma, Carte Segrete, 1992, p. 338.
41
Alcune attitudini dei putti, specialmente quelle giocose, traggono ispirazione, prima ancora che dal Rinascimento,
dalle immagini di giochi di putti dei rilievi e dei sarcofagi antichi.
10
prestava affatto a una scansione per pilastri a lesene, secondo le formule raffaellesche, perciò le analogie con
le pitture vaticane vanno riscontrate in singoli elementi e non nel complesso delle scansioni decorative.
Sono interessanti alcuni confronti tra le figure di Virtù del gabinetto barberiniano e i prototipi raffaelleschi e
rinascimentali: la Speranza è ispirata alla stessa Virtù Teologale dipinta sul pilastro XI delle Logge Vaticane
e probabilmente tiene presente anche la precedente iconografia della predella della Pala Baglioni (1507); le
vesti della Giovinezza e della Speranza sono desunte dall’antico e si basano sulla tipologia adottata dal
Sanzio nelle immagini di divinità mitologiche, come quelle della Loggia di Psiche alla Villa della Farnesina,
mentre la capigliatura della Bellezza e della Nobiltà, caratterizzata da alcuni ciuffi che sfuggono
all’acconciatura, è molto simile a quella di alcune figure danzanti del VI pilastro vaticano
42
.
Sono da rilevare infine le analogie strettissime tra gli elementi decorativi di questi pilastri e quelli del soffitto
barberiniano: le figure di Virtù e i putti sono dipinti entro mandorle, come quelle in stucco delle fasce
centrali di detti pilastri, copiate dalla volta della sala nera della Domus Aurea. Inoltre l’idea di un finto
velario, appuntato con bottoni dorati alle estremità delle cornici in stucco della volta
43
, su cui individuare gli
‘spicchi’ con le figure, è un motivo che ricorre spesso negli ambienti vaticani, e venne utilizzato da Raffaello
nella volta della Loggia di Psiche alla Farnesina.
Lo stile delle immagini di Virtù ha forti punti di contatto con le pose e le attitudini delle figure raffaellesche,
specialmente se dell’artista rinascimentale si considerano le opere di carattere allegorico o mitologico:
Balboni cerca di dare morbidezza e ariosità ai panneggi, gonfiando le vesti ed evidenziando le pieghe, ma
soprattutto alterna attitudini molto naturali con altre più ricercate, dove la posizione incrociata dei piedi
determina l’inclinarsi in direzione opposta del busto e della testa.
Analizzando in particolare le vesti, ho notato che quelle della Speranza e della Nobiltà mostrano una linea
più marcata nel ricadere delle pieghe, di un tono più intenso rispetto al colore d’insieme, come se si trattasse
di un ritocco più tardo; anche i putti ai lati di queste due Virtù sono differenti da tutti gli altri, sia nella resa
volumetrica, sia nel colore dell’incarnato, decisamente più rossastro.
Per motivare tale divario stilistico si deve fare un salto temporale di circa due anni, spostandosi al febbraio
1776, quando Balboni e la sua squadra di collaboratori vengono richiamati a intervenire nelle stesse camere
42
Le illustrazioni a cui si rimanda sono prese dal testo di Nicole Dacos sulle Logge di Raffaello; mi è sembrato
opportuno inserire i rimandi visivi alle incisioni di Volpato e non direttamente alle pitture vaticane, così da mostrare in
modo più stringente la relazione e la dipendenza delle decorazioni barberiniane dalle incisioni settecentesche.
43
Questi bottoni sono presenti anche sulla volta del “salone” ai lati del riquadro centrale, a dimostrare che lì Balboni
aveva ideato un soggetto con consueto riferimento a Raffaello.
11
per alcuni restauri che pongano rimedio ai danni provocati da un fulmine
44
; il pagamento è di 175 scudi e si
riferisce a un conto di giornate tra l’inizio di febbraio e la fine di aprile.
Il documento riporta un’informazione importante, quella appunto relativa alla recente caduta di un fulmine;
se consideriamo che gli stessi artisti erano stati impegnati nei medesimi ambienti fino all’anno precedente,
risulterebbe impensabile che le decorazioni necessitassero già di restauri. Bisogna quindi presumere che il
fulmine cadesse in quel breve intervallo di tempo e fosse diverso da quello che aveva colpito il palazzo
intorno al 1770
45
.
In conclusione, ritengo che l’intervento del 1776 sia consistito in alcuni ritocchi alle figure maggiormente
danneggiate, che sono concentrate infatti nella stessa sezione del soffitto: quella vicina alla parete della
finestra e all’angolo nord-orientale del palazzo, più esposto ai danni di intemperie ed agenti atmosferici.
Passando ora all’esame delle partiture a grottesche, si deve considerare che la distribuzione degli ornati era
destinata a occultare decorazioni concepite per un altro contesto. Ricordiamo infatti che il “gabinetto” fin
dall’epoca sforzesca aveva avuto funzione di cappella e probabilmente le lunette ospitavano scene con
episodi relativi alla vita della Vergine, collegati alla commissione data al Maltese nel 1629 per un quadro con
l’Assunzione, da collocare sulla volta
46
.
Lo spazio di ogni lunetta è stato quindi decorato al limite superiore con un fregio di maschere a monocromo
entro medaglioni, alternati a motivi vegetali da cui si originano altre maschere tra cornucopie ricolme di
fiori, mentre al centro nella zona sottostante un tondo con una scena di paesaggio è affiancato da una coppia
di sfingi alate.
Le mandorle che includono le figure femminili del soffitto sono intervallate invece da steli ed elementi
vegetali verticali che alternano motivi a palmette con maschere bicefale. Tali motivi derivano direttamente
da modelli antichi; le coppie di maschere alludono probabilmente alla tragedia e alla commedia, mentre i
girali e le palmette sono ripresi da fregi ricorrenti negli edifici romani.
44
Doc. XLII, f. 3.
45
Il documento riporta l’espressione “ultimamente devastato dal fulmine”: la precisazione dell’avverbio indica che la
disgrazia era avvenuta da poco e per questo furono richiamati i pittori per un certo numero di giornate, il tempo
necessario al restauro delle decorazioni danneggiate. Non deve stupire inoltre la caduta consecutiva di due fulmini
nell’arco di qualche anno, perché a quell’epoca si trattava di un problema molto diffuso. Fu grazie alla principessa
Vittoria Colonna, moglie di Francesco Barberini, che nel 1832 furono installati i parafulmini sui tetti del palazzo. Pare
fossero i primi a Roma e la notizia fece molto scalpore. U. Barberini, Da Villa Ludovisi…, cit., pp.16-19.
46
Vedi paragrafo II.1.3.
12
Probabilmente, la realizzazione di questi ornati spetta ai collaboratori di Felice Balboni, secondo una pratica
usuale in analoghi cantieri artistici.
Un’altra sezione del soffitto che certamente ospitava decorazioni di tutt’altro genere è costituita dai quattro
pennacchi, dove troviamo tondi con ritratti maschili a monocromo, forse di filosofi o personaggi illustri
dell’antichità, circondati da ornati vegetali.
Nel descrivere la decorazione delle lunette abbiamo accennato alla presenza di grandi tondi con paesaggi:
essi sono quattro come le pareti, ma quello posto a nord, sopra la finestra, risulta poco leggibile, viste le
pessime condizioni di conservazione
47
.
Proprio quest’ultimo tondo suscita un interessante interrogativo sul carattere stilistico e sulla possibile
datazione dei paesaggi stessi: è concepito infatti in modo molto diverso dagli altri, non è circondato dalla
stessa cornice dorata, né da quella a finto stucco e la scarna scena mostra pochi elementi, una casa e un
albero spoglio in un paesaggio innevato, su uno fondale azzurro piatto che toglie ogni profondità alla veduta.
Gli altri tre paesaggi presentano invece notevoli analogie stilistiche e inducono a pensare che il primo non sia
riferibile alla stessa mano
48
.
Nelle computisterie Barberini relative a questo ciclo
49
, non si parla di un pittore di paesaggio che possa aver
realizzato questi tondi. E’ impensabile che fosse lo stesso Balboni, specializzato in altri generi e
stilisticamente assai distante. Giuseppina Magnanimi ha indicato nel suo saggio del 1983 il nome di Gaetano
Pesci accanto a quello di Balboni “per aver dipinto nelle volte dell’appartamento papale”, cioè nello
stesso
Palazzo Barberini, nelle stanze che furono occupate da Urbano VIII
50
.
Gaetano Pesci , originario di Bologna, era un vedutista e pittore di marine formatosi presso il padre Gasparo
Prospero (1710-1784), anch’egli paesaggista
51
. Di Gaetano si hanno pochissime notizie, anzi si sa solamente
di una sua collaborazione con il padre per pitture di paesaggio in palazzo Albergati, a Zola Pedrosa in
provincia di Bologna intorno al 1770
52
.
47
La lunetta su questa parete presenta ai lati strumenti musicali e una faretra con frecce legati da sottili nastri rosa,
mentre al centro da una maschera femminile e due uccelli, in tutto simili a quelli del “salone”, si dipartono i soliti tralci
vegetali.
48
Al di là delle discordanze stilistiche si deve sottolineare invece l’affinità iconografica, al punto che si potrebbe
pensare, visto il numero dei tondi, al tema delle Quattro Stagioni.
(v. paragrafo III.1.2).
49
Docc. XXXVIII, XLI, XLII.
50
G. Magnanimi, Palazzo…, cit., p. 101.
51
U. Thieme, F. Becker, op. cit., vol. XXVI, ad vocem, Gaetano Pesci, 1932, p. 462.
52
G. Cuppini, A. Matteucci, Ville del bolognese, Bologna, Zanichelli, 1967, p. 330.
13
Consultando le note di computisteria degli anni 1772-76, ho trovato un unico pagamento a Gaetano Pesci il 2
agosto 1773 “per un Quadro in Tela fatto per uso della Volta della Cammera di Udienza”
dell’Appartamento d’Estate
53
. Osservando le decorazioni attualmente visibili nelle volte dell’appartamento,
non c’è possibilità di riconoscere in alcuna di esse quest’opera pittorica
54
.
Poiché il documento non parla di un intervento di Pesci nel “gabinetto” non possiamo attribuire a lui i
paesaggi, ma senz’altro dobbiamo convenire che egli si trovò a contatto con Balboni, proprio nello stesso
Appartamento d’Estate.
I lavori di decorazione nell’Appartamento papale, di cui parla la Magnanimi, non vengono nominati nei
registri dei mandati nei quali ho rinvenuto la notizia della tela del Pesci; la studiosa fornisce il numero di
computisteria in cui afferma di avere rintracciato la notizia, ma i pagamenti che vi ho trovato erano destinati
a Felice Balboni e riguardavano il palazzo di Castelgandolfo e l’Appartamento rococò del palazzo alle
Quattro Fontane
55
.
L’ambiente oggetto del mio studio non potrebbe comunque coincidere con quelli dell’Appartamento papale,
che sono posti nell’ala sud del piano nobile, nella parte dell’edificio esattamente opposta al “gabinetto”.
Dovendo contestare le informazioni fornite dalla Magnanimi e non potendo contare su altri riscontri
documentari che suggeriscano il nome di un pittore a cui riferire queste vedute, possiamo considerare
un’altra ipotesi, ossia che i paesaggi siano stati eseguiti in un periodo più tardo. Lo confermano gli stessi
caratteri stilistici delle vedute, in particolare l’impronta proto-romantica che le connota e che
contraddistingue soprattutto una di esse
56
.
Una prima analisi iconografica e linguistica evidenzia un loro legame con il genere di pittura di paesaggio
diffusa a Roma intorno alla metà del Settecento, tra i cui esponenti si possono ricordare Claude-Joseph
Vernet (1714-1789), Andrea Locatelli (1695 c.- 1741) e Paolo Anesi (1697-1775).
Questi artisti mostrano nelle loro vedute ampie distese di campagna, spesso attraversate da corsi d’acqua, o
veri e propri paesaggi marini, popolati da piccoli personaggi impegnati nelle proprie attività quotidiane:
53
Doc. XXXVIII, f. 165. La “camera dell’Udienza” potrebbe identificarsi con l’ambiente adiacente alla “camera del
Chiari” che nella pianta del piano nobile è contrassegnato con il n. 18 (fig. 7).
54
Il documento afferma che il quadro era finito a quella data, ma non che era già stato collocato sulla volta; perciò
possiamo anche considerare l’eventualità che non vi sia mai stato posto, così si spiegherebbe perché oggi non se ne
trovi traccia.
55
Giuseppina Magnanimi cita le computisterie del biennio 1770-71: l’unico documento riferibile a queste date è il n.
XXXVII, dove appunto non c’è traccia del vedutista bolognese.
56
Nel capitolo relativo alle vicende di questo appartamento nell’Ottocento si riaffronterà questo stesso interrogativo,
avanzando l’ipotesi che in questa camera possa essere intervenuto successivamente un pittore di cultura romantica.
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viandanti, pescatori, pastori, lavandaie o anche figure mitologiche; la struttura compositiva di solito rispetta i
canoni del paesaggio classico, secondo il modello di Claude Lorrain (1600-1682) e di Gaspard Dughet
(1615-1675), con le figure in primo piano, coppie di alberi frondosi posti come quinte ai lati della scena e
un’ampia veduta panoramica al centro, illuminata dai colori chiari di un’alba o di un tramonto.
I tre paesaggi del “gabinetto” mostrano, in linea con questo modello, vedute campestri con rovine, una
vegetazione lussureggiante e piccole figure di pescatori o di viandanti in primo piano: lo stato di
conservazione di queste pitture murali non è ottimale, come si può notare anche dal fregio che corre
tutt’intorno alle lunette.
Se si osserva con attenzione la scena tempestosa con due viandanti, si nota che la presenza degli alberi
piegati dal vento, a sinistra, è molto più accentuata che nelle altre due scene; a destra si scorgono
all’orizzonte le rovine di un acquedotto. Come ho precedentemente accennato, sembra quasi di immergersi
in un'atmosfera proto-romantica, dove la natura è protagonista e insieme specchio dei sentimenti, suscitatrice
di emozioni forti e ‘terribili’.
Nelle altre due vedute al contrario l’atmosfera è pacata, le piccole figure sono come puntini a confronto delle
dimensioni degli alberi che occupano l’intera altezza del tondo, una luce chiara illumina lo sfondo e guida il
nostro sguardo in lontananza, fino a cogliere la presenza di un paese o di edifici isolati.
La vastità di una campagna popolata da rari passanti è uno dei tratti ricorrenti nei paesaggi di Gaspard
Dughet, che si ispirava alle distese pianeggianti dei dintorni di Roma. Non si discostano da tale abitudine i
pittori che affrontano lo stesso genere nel Settecento, fino ad arrivare a vere e proprie citazioni di luoghi
realmente esistenti.
L’idea di rendere la grandiosità del paesaggio attraverso un taglio compositivo che lasci immaginare
un’estensione molto al di là dei limiti e delle dimensioni del supporto pittorico avrà molta fortuna anche
nell’Ottocento, quando la grandiosità non sarà più sinonimo di classicità, ma al contrario di quel sentimento
del “sublime” che ne sarà una delle espressioni fondamentali.
L’adesione al modello dughettiano e il riferimento alla pittura di paesaggio della metà del XVIII secolo
potrebbero indurre ad anticipare la datazione dei tre paesaggi del “gabinetto” all’ultimo quarto del
15
Settecento; d’altro canto non sembra da escludere l’ipotesi che un pittore di cultura romantica, fortemente
legato agli stessi modelli, abbia potuto realizzarli invece nella prima metà dell’Ottocento
57
.
Tornando ora ai rapporti di Felice Balboni con i Barberini, dobbiamo ricordare che dopo il
contratto del 1774 egli continuò a prestare la sua opera per la famiglia, almeno per altri due anni: al 1775 in
data 3 maggio risale un unico saldo di pagamento
58
, pari a circa 100 scudi; si passa quindi al 1776, per i già
citati lavori di restauro in cinque camere dell’appartamento e per altri piccoli interventi nella sala ovale e
nelle sale dell’Appartamento del Ponte
59
.
Una modesta somma, sempre nello stesso anno, gli viene pagata per aver collaborato ad alcuni lavori presso
il Casino Petruccini di Palestrina; nel maggio del 1777 egli riceverà un altro compenso di 90 scudi “per
lavori fatti in Palazzo di Roma”
60
.
I rapporti tra i principi Barberini e Felice Balboni si chiudono definitivamente nel marzo 1778: tra i fogli del
Quaderno dei Creditori del Libro Mastro del Principe Carlo Maria (1774-1777) ho rinvenuto infatti una
lettera autografa dell’artista, datata 23 marzo 1778, nella quale egli dichiara che con un ultimo pagamento di
21.80 resta “interamente saldato e soddisfatto sì di residual conto che d’ogni altro potessi pretendere e
qualunque altro da passato conto et a tutto Nov. 1777”
61
.
57
Rimandiamo per questa ipotesi al capitolo III.1.
58
Doc. XXXVIII, f. 324. Questa rata sicuramente si riferisce ancora alle decorazioni a grottesche del “gabinetto” e del
“salone”.
59
L’Appartamento del Ponte è quello dell’ala sud del piano nobile, comunicante con il giardino attraverso il Ponte
ruinante, costruito su disegno di Bernini. La somma per gli interventi nella sala ovale e in questo appartamento è di
circa 95 scudi. Doc. XLI, f. 63; doc. XLII, ff. 17, 46.
60
Entrambi i pagamenti sono riportati nel doc. XLI, f. 134.
61
Doc. XLI, documento sciolto.