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La Westinghouse, una delle maggiori società americane impegnate nel nuovo
settore di attività, credette che le maggiori potenzialità commerciali della radio fossero
però nel broadcasting, ossia nell’emissione unidirezionale da un punto di
trasmissione a un numero illimitato di riceventi. La società chiese subito una
licenza per trasmettere e in un paio d’anni, grazie anche all’enorme risonanza che
la radio ebbe sui giornali, le licenze erano circa un migliaio. In parte di amatori,
associazioni e istituzioni, in parte di soggetti commerciali. A tutti fu assegnata la
stessa frequenza con l’invito ad accordarsi per dividere il tempo di trasmissione
quando vi fossero problemi di sovrapposizione. Ma l’invito cadde nel vuoto e si
creò una situazione di caos in cui i soggetti più forti combattevano a colpi di
potenziamento del segnale mentre la qualità della ricezione in alcune zone era
talmente scadente da impedire di fatto l’ascolto.
In questo clima infuocato si tenne la prima conferenza sulla radio. Ad essa
partecipò anche un emissario del Postmaster General inglese (paragonabile al nostro
ministero delle Poste), il cui rapporto negativo sul nascente sistema americano si
ritiene abbia influenzato la scelta britannica di porre l’uso delle frequenze
radiofoniche sotto il controllo diretto dello stato (vedi paragrafo 2.1). Le grandi
società che dominavano l’industria radiofonica statunitense erano aziende
manifatturiere e inizialmente considerarono i programmi soltanto come un mezzo
per stimolare la domanda di apparecchi riceventi. La concentrazione dell’attività di
produzione industriale degli apparecchi e di quella di produzione e trasmissione
del palinsesto in un unico soggetto, era dovuta al fatto che i programmi
costituivano l’unico motivo per l’acquisto dei ricevitori. La componente software,
in quanto elemento trainante della componente hardware, fu inizialmente
considerata come un costo promozionale indispensabile, interamente sostenuto
dalle imprese elettroniche, piuttosto che un nascente settore industriale.
Inoltre fu la società AT&T, proprietaria dei cavi di trasmissione interurbana a cui la
capofila aveva vietato di vendere ricevitori, a inventare la pubblicità come forma di
finanziamento. Il modello di business basato sulla vendita dei ricevitori fu superato
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negli ultimi anni del decennio, quando nacquero diverse reti, che poterono costituirsi
come tali grazie all’interconnessione delle stazioni locali – di cui soltanto una parte
era di proprietà – tramite la rete dell’AT&T.
Con l’affiliazione al network le radio indipendenti potevano riempire il palinsesto
in cambio della trasmissione della pubblicità preinserita nei programmi. Mentre il
modello commerciale prendeva rapidamente forma e veniva importato in tutto il
Centro e Sudamerica, negli anni Trenta si sviluppò un acceso dibattito, sostenuto
anche da personaggi autorevoli, e da organizzazioni influenti (ad esempio, la
fondazione Rockefeller), contro la completa commercializzazione del mezzo
radiofonico e a favore di soluzioni che favorissero le radio non-profit e la funzione
educativa del mezzo. Furono avanzate proposte e soluzioni diverse che però non
ebbero seguito anche per l’opposizione delle associazioni degli industriali.
La Commissione federale per la comunicazione (FCC) poteva per legge allocare
una quota di frequenze alle radio non-profit, ma di fatto concesse pochissime licenze
fino alla fine degli anni Sessanta, quando fu introdotto il servizio pubblico
radiotelevisivo. Fino alla fine degli anni Quaranta le varie reti aderivano allo stesso
modello di programmazione generalista, costituita da una varietà di generi di
informazione e intrattenimento strutturata in un palinsesto organizzato sui ritmi della
vita familiare. L’offerta era improntata soprattutto all’intrattenimento e con questo
obiettivo la radio americana inventò nuovi generi, che avrebbero poi fatto la fortuna
della TV, come i drammi originali trasmessi a fine mattina e primo pomeriggio per
le casalinghe (chiamati “soap opera” perché inizialmente sponsorizzati da produttori
di detersivi), un formato di intrattenimento a cadenza quotidiana e lunghissima
serialità con regole di genere finalizzate a creare attesa e a fidelizzare l’ascolto. Si
raccontavano inoltre storie di avventura per i ragazzi (principalmente il pomeriggio) e
drammi originali di gusto più maschile o adattamenti da testi teatrali per l’ascolto
adulto alla sera. Altra invenzione di grande successo fu il quiz: dal 1930 al 1950 ne
furono realizzati a decine, con un’enorme varietà di formule e soluzioni. Tutte le reti
avevano una struttura produttiva fortemente accentrata e direttamente controllata
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dalle agenzie pubblicitarie, al punto che i programmi di maggiore ascolto venivano
prodotti dalle stesse agenzie.
In questo sistema, le radio locali erano ridotte al ruolo di ripetitori dei programmi
nazionali, non avendo le risorse per produrre programmi originali in grado di
competere con quelli nazionali.
Dall’inizio degli anni Cinquanta, con l’arrivo della televisione, la radio si vide
sottrarre la funzione di medium domestico e generalista dato che la TV replicò
esattamente la struttura del palinsesto radiofonico ma con il vantaggio decisivo
delle immagini. Mentre gli ascolti calavano, gli inserzionisti spostarono la loro
attenzione sul nuovo mezzo. Per la radio gli effetti furono devastanti: gli introiti
pubblicitari crollarono, le agenzie di pubblicità si disimpegnarono dalla produzione e
i network limitarono la fornitura di programmi ai generi su cui la radio poteva
proporsi meglio come alternativa alla TV, notiziari e sport, lasciando le emittenti
locali con il palinsesto vuoto e senza le risorse economiche e professionali per
riempirlo. Sembrava che la radio non avesse futuro, ma, al contrario, la radio poté
rilanciarsi con un nuovo ruolo comunicativo grazie a un felice concorso di
trasformazioni sociali e innovazioni tecniche che con un lieve ritardo temporale
avrebbero influenzato anche l’Europa.
In primo luogo, il transistor trasformò la radio in un mezzo più accessibile
economicamente, mobile e personale e l’innovazione dell’autoradio si insediò nelle
abitudini quotidiane di un numero crescente di americani, di sesso ed età differenti
(come mostra la tabella 1), costretti al pendolarismo dai nuovi stili abitativi legati ai
centri residenziali suburbani.
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L’esplosione del rock’n’roll, fenomeni letterari come “Il giovane Holden” e
cinematografici come “Gioventù bruciata” e icone potenti come quella di James
Dean sancivano un fenomeno sociale di grandissima portata: la nascita dei
“teenager”. Questa categoria definiva un nuovo modo di vivere l’adolescenza,
fondato su un sentimento di profonda differenza rispetto al mondo adulto e ai suoi
valori. Il processo di costruzione della propria identità passava attraverso
comportamenti caratteristici condivisi con il gruppo dei pari fortemente connotati
in termini stilistici, culturali e di consumo. La musica era al centro di questo
processo di differenziazione e aggregazione e ad essa si collegavano vere e proprie
sottoculture, cioè sistemi estetici, valoriali, linguistici, di gusto, che si esprimevano in
una selezione caratteristica di letture, film, personaggi di riferimento e prodotti di
consumo.
Il profondo cambiamento di stili, di gusti e di mode che accompagna gli anni
Sessanta si riflette anche sul mondo musicale: per la prima volta i giovani iniziano a
spendere le loro “paghette” in juke-box e ballo, e tra gli acquisti principali dell’epoca
figurano libri e dischi.
La radio quindi cambiò radicalmente il modo di organizzare la programmazione
puntando principalmente sulla musica e in particolare su quella rivolta al pubblico
adolescente. La centralità della musica, soprattutto dei nuovi generi di gusto
giovanile, il linguaggio vivace e gergale, lo stile di conduzione informale con il ruolo
del conduttore come personaggio di riferimento per gli ascoltatori, il coinvolgimento
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diretto del pubblico con giochi, telefonate, sono solo alcune caratteristiche della
radio americana che ne fecero un modello per la radio commerciale in Europa.
1.2-La radio pirata in Europa e l’avvento della radiofonia privata
A differenza degli Stati Uniti, dove non c’era alcun monopolio o concessione statale
da violare, ma solo un problema di accesso a finanziamenti sufficienti e di
registrazione e omologazione all’ente tecnico regolatore delle attrezzature, in Europa
per trasmettere via radio, senza essere il gestore statale, bisognava violare la legge.
Il modello americano arrivò sotto mentite spoglie, quelle di Radio Luxembourg,
che già negli anni Trenta molti europei preferivano alle “ingessate” emittenti
pubbliche perché trasmetteva tanta musica ballabile con uno stile leggero e
brillante. La radio del granducato del Lussemburgo era una radio internazionale,
che con il suo segnale in onda lunga – difficile da ricevere di giorno e comunque
sempre di qualità limitata – raggiungeva gran parte dell’Europa continentale e il
Regno Unito. Diventò con il passare del tempo a tutti gli effetti una radio
all’americana, costruita secondo i più recenti criteri di programmazione e con la
musica proveniente dagli Stati Uniti a cui si ispiravano le nascenti sottoculture
giovanili.
Radio Luxembourg dimostrava che le radio pubbliche non coprivano i bisogni di
tutto il pubblico come pretendevano e, in particolare, indicava che anche i giovani
europei, come gli americani, volevano una musica diversa e preferivano un modo
diverso di fare radio.
La premessa per nuovo mercato c’era, tanta musica alternativa che esplodeva, sulla
scia del successo planetario dei Beatles e dei Rolling Stones, tanta voglia da parte dei
giovani di ascoltare musica al di fuori delle fasce orarie prestabilite e di sentirsi parte
di un circuito diverso e alternativo a quello degli adulti. Insomma, c’erano tutte le
condizioni per imprenditori realmente intraprendenti che se la sentivano di buttarsi in
quest’avventura. C’era uno spazio importante, anche in termini commerciali, che le
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radio pubbliche lasciavano scoperto e in questo spazio si inserì la rivoluzione delle
radio pirata.
Definite pirata poiché, eludendo la legge, trasmettevano sulla terraferma da vecchi
natanti ancorati appena fuori delle acque territoriali, queste radio avevano una
programmazione interamente basata sui nuovi generi musicali, pop e/o rock, che veniva
preregistrata e trasmessa dal conduttore di turno. Trasmettevano in inglese, ma
soprattutto trasmettevano musica, che è un linguaggio universale, che abbatte le
barriere linguistiche, e avevano bisogno di musica per riempire le trasmissioni, ed
erano quindi strettamente connesse ad una industria discografica, allora decisamente
aperta al nuovo. Il seguito di queste radio era enorme al punto che per la Bbc, Radio
Luxembourg era una concorrente decisamente fastidiosa: nel 1966 una ricerca indicò
che gli inglesi preferivano infatti i programmi del granducato a quelli della
madrepatria.
Il carattere avventuroso e clandestino delle radio pirata, la novità dello stile di
conduzione e la carica trasgressiva della musica che trasmettevano ne oscurarono il
carattere commerciale a favore di un’immagine alternativa e quasi rivoluzionaria. In
realtà le radio pirata erano delle imprese commerciali che seppero cogliere e sfruttare
la domanda giovanile di musica e di linguaggi radiofonici diversi e specifici.
L’esperienza delle radio pirata ebbe risonanza in tutta Europa, anche nei paesi in
cui non si ricevevano ma dove giungeva l’eco della loro attività, e costituì un
precedente di notevole importanza per le radio libere terrestri che nacquero negli anni
Settanta. La radio privata è nata e ha avuto un riconoscimento di legge nei singoli
paesi secondo modi e tempi diversi. Senza entrare nello specifico caso di ogni paese
possiamo riassumere le caratteristiche che hanno contraddistinto la crisi del
monopolio e il passaggio al sistema misto un po’ in tutti i paesi dell’Europa
occidentale.
Il primo aspetto è di tipo economico: l’attrezzatura necessaria per trasmettere su
un’area circoscritta costava pochissimo e non richiedeva competenze tecniche
particolarmente complesse. Il secondo è un aspetto tecnico e solo apparentemente
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secondario: le radio pubbliche trasmettevano in AM e le radio libere andarono a
occupare lo spettro vuoto dell’FM, tra l’altro molto più adatto all’ascolto musicale.
Queste due condizioni permisero a un enorme numero di soggetti piccoli e
piccolissimi di incominciare a trasmettere in pochissimo tempo.
Inoltre il carattere artigianale delle radio libere e la mancanza di
professionalizzazione del personale ha permesso che alla fine degli anni Ottanta il
75% delle emittenti private europee fosse ancora gestito da amatori e/o da personale
part-time per cui fare radio era essenzialmente un hobby. Il processo di
professionalizzazione e di strutturazione produttiva ed economica si è realizzato
lentamente e ha operato una durissima selezione delle radio esistenti.
Il sistema radiofonico si è ristrutturato in buona parte dei paesi dell’Europa
occidentale in tre comparti: le radio di servizio pubblico ex monopoliste, le radio
commerciali finanziate dalla pubblicità e le radio comunitarie, non commerciali, in
prevalenza di carattere locale.
1.3-La radio “libera” in Italia e lo sviluppo delle radio
commerciali
La radio in Italia nel frattempo era diffusa da un solo gestore nazionale, la RAI, e
continuava ad essere rigidamente controllata. Si potevano poi ascoltare molte radio
straniere, sulle Onde Medie e sulle onde lunghe, che consentivano una propagazione
ampia delle trasmissioni. Le radio dell’epoca spaziavano su tutta l’Europa, e alcune
radio straniere, in primis Radio Vaticana, trasmettevano in italiano, fornendo un
minimo di alternativa.
Già dagli anni ‘60 la radio in Italia era meno centrale di dieci anni prima, in quanto
la televisione si stava velocemente diffondendo in tutte le case; “Sempre meno
numerose erano le famiglie che, come avveniva dieci anni prima, si riunivano alla sera
attorno agli apparecchi radiofonici a sentire i radiodrammi (le telenovele per radio) o
le trasmissioni di intrattenimento”. La radio rimaneva però un mezzo di svago
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importante, in quanto la televisione all’epoca non trasmetteva tutto il giorno ma
praticamente dal primo pomeriggio, con le trasmissioni per i ragazzi, fino a
mezzanotte circa, con la famosa “fine delle trasmissioni”. La radio invece trasmetteva
nella gran parte delle ventiquattro ore.
In Italia, Radio Luxembourg influenzò molti dei primi imprenditori della radio
commerciale, ma per il grande pubblico la prima alternativa alla RAI fu Radio
Monte Carlo che trasmetteva in lingua italiana; di proprietà francese, con sede nel
Principato di Monaco questa emittente internazionale raggiungeva il Nord-ovest e
il litorale tirrenico con una programmazione tipica della radio commerciale
all’americana: intrattenimento “a braccio” affidato a conduttori che la radio fece
diventare veri e propri personaggi; molta musica, inizialmente più melodica e
francofona poi più pop e rock; molti giochi e partecipazione telefonica degli
ascoltatori.
Il suo successo fu il primo segnale di uno scollamento tra l’offerta della radio
pubblica e i gusti di una grande parte del pubblico, in particolare di quello
giovanile. Negli anni Settanta si manifestarono sempre più chiaramente delle diffuse
esigenze di espressione “dal basso” di origine e motivazioni diverse ma accomunate
dall’insofferenza verso il monopolio pubblico radiofonico e televisivo. C’erano le
organizzazioni e i movimenti politici, sindacali e studenteschi che guardavano alla
radio come a uno strumento ideale di controinformazione, partecipazione, sviluppo
del dibattito e di iniziative politiche; c’erano le culture locali che non si sentivano
rappresentate dalla radio e dalla televisione pubbliche per effetto del forte
accentramento della RAI, c’erano infine gli amatori influenzati da Radio
Luxembourg e dalla storia delle radio pirata, che volevano fare la radio per i giovani
come loro, magari avendo già l’idea di trasformarla in un’impresa commerciale.
Le prime “radio libere”, libere perché a differenza delle precedenti radio pirata,
avevano una parvenza legale, incominciarono a trasmettere nel 1975. Per quindici
anni l’unica normativa che le riguardava rimase una storica sentenza della Corte
Costituzionale che nel dicembre del 1976 legittimò le trasmissioni radiofoniche (e
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televisive) via etere in ambito locale. In assenza di una legge di regolamentazione la
radiofonia privata si sviluppò nelle pieghe di quell’unica normativa, trasformandosi
gradualmente e tra mille difficoltà di ordine soprattutto economico in un sistema
costituito da radio di dimensioni diverse: nazionali, regionali e locali.
Le radio libere hanno in realtà fatto da apripista a qualcosa di molto più profittevole
dal punto di vista commerciale, vale a dire le televisioni private, che non a caso
nessuno ha chiamato mai libere, che hanno drenato la raccolta pubblicitaria
togliendola alle radio (e alla stampa), fermandone così la espansione.
Ora nessuno pensa più alle radio come radio libere, ma solo come radio
commerciali. E purtroppo le esigenze commerciali hanno livellato lo standard verso i
gusti musicali più comuni, e hanno allontanato ogni velleità di sperimentazione.
La radiofonia commerciale nazionale iniziò a costituirsi negli anni Ottanta, quando
alcune radio più strutturate, che già trasmettevano a livello regionale, incominciarono
a estendere il segnale alle regioni limitrofe coprendo aree sempre più vaste. La
motivazione era economica: raccogliendo ascolti quantitativamente interessanti per i
grandi inserzionisti, avrebbero potuto incrementare le risorse pubblicitarie al livello
necessario per dare solidità economica all’impresa.
Dato che la legge riconosceva soltanto il diritto a trasmettere in ambito locale, le
radio ricorsero all’ escamotage dell’affiliazione di emittenti locali, ispirandosi al
modello dei network americani: le radio locali ripetevano il segnale della capofila
inclusi i comunicati pubblicitari nazionali, “splittando” (sganciando) il segnale in
momenti predefiniti per inserire la pubblicità locale. Per raggiungere bacini di
ascolto diversi e sempre più lontani anche culturalmente da quello di origine le
emittenti dovettero “delocalizzarsi” – nel linguaggio, nei riferimenti interni alla
programmazione – e investire risorse sia a livello di prodotto che di promozione e
sostegno pubblicitario.
È dunque in una situazione compromissoria che la radiofonia commerciale
nazionale nacque e incominciò a sviluppare progetti e know-how editoriale e di
marketing.
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La radio commerciale locale invece operò sempre in una situazione di grande
incertezza, anche dopo l’approvazione della Legge Mammì (vedi capitolo 2) : il
sovraffollamento dell’etere assorbiva le risorse nella difesa del segnale dalle
interferenze delle altre radio, locali e nazionali; la frammentazione del settore in un
numero enorme di emittenti molto diverse per standard qualitativi e affidabilità
commerciale continuava ad alimentare la diffidenza dei grandi inserzionisti; la
perdurante carenza di risorse economiche ostacolava la professionalizzazione e il
miglioramento della programmazione anche per le imprese di medie dimensioni. Le
radio nazionali rappresentarono un ulteriore fattore di concorrenza che stimolò le
realtà locali più importanti – provinciali o regionali – a rafforzare il legame con il
territorio e quindi la specificità della propria funzione, ma generò anche fenomeni di
emulazione destinati al fallimento.
Alla fine degli anni Ottanta si stimava che fossero 250-300 le realtà locali più
strutturate e significative anche in termini di ascolto e solidità economica. Dal punto
di vista contenutistico, le emittenti locali italiane esordirono con grandi intenti sociali:
dare voce alle minoranze, affrontare tematiche apparentemente discriminate dal
servizio pubblico e diminuire la distanza tra emittente e ricevente (non solo in senso
fisico). La struttura operativa delle prime emittenti locali commerciali era spesso
allestita in forma precaria, con un clima di improvvisazione che rappresentò però il
momento di massima creatività artistica, con l’esordio ed il successo di trasmissioni
radiofoniche basate sul contatto diretto con il pubblico. Queste emittenti sono con
poche eccezioni generaliste, con una programmazione caratterizzata
dall’informazione locale e di servizio legata al territorio, lo sport e gli eventi locali,
la formula più adatta a servire una comunità eterogenea per età, bisogni informativi e
gusti musicali.
Di certo, per le radio locali è un momento di grande incertezza in cui alle difficoltà
economiche di sempre si somma un contesto ancora più competitivo. Molte
emittenti reagiscono appiattendosi sullo stile delle radio nazionali e quindi
indebolendo ulteriormente la loro ragion d’essere. Il rischio è che il processo di
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concentrazione finisca per inglobare anche molte emittenti di qualità riducendo la
radiofonia locale a una realtà residuale e sempre più marginalizzata.
2-La radio pubblica
2.1-Il perchè della radio pubblica
I caratteri che definiscono la radio pubblica sono riassumibili in quattro punti
fondamentali: universalità del servizio, obiettivi non legati al profitto economico,
riferimento agli interessi e ai valori della comunità nazionale, meccanismi di gestione
e controllo affidati a organismi pubblici.
Nella logica del servizio pubblico la radio è assimilabile agli altri servizi di base che,
secondo una concezione di stato sociale, lo stato deve garantire a tutti i cittadini – al
pari di acqua, luce, trasporti, poste – con l’ovvia differenza che la radio è un servizio a
carattere culturale ed educativo. È consequenziale il fatto che il servizio pubblico
venga finanziato attraverso una tassazione, solitamente posta come canone di
abbonamento, che non esclude però la possibilità di ricorrere anche al mercato
pubblicitario.
Il modello della radio pubblica si sviluppò in Europa a partire dagli anni Venti,
quando nella maggior parte dei paesi presero il via le trasmissioni radiofoniche e la
loro gestione fu affidata in monopolio a società pubbliche o semipubbliche, secondo
un’impostazione che avrebbe caratterizzato la radiofonia europea per oltre cinquanta
anni.
Le ragioni addotte per questa scelta erano di carattere sia tecnico, sia ideologico. Il
sistema degli impianti di trasmissione doveva ancora essere costruito e richiedeva uno
sforzo economico notevole, gli apparecchi riceventi non erano così diffusi da poter
rappresentare un mercato appetibile e la tesi prevalente era che solo lo stato potesse
investire per lo sviluppo del settore.
Le motivazioni ideologiche e politiche erano però più forti: infatti non sfuggiva certo
ai governi il valore strategico della radio per la costruzione del consenso e la
diffusione dei valori di riferimento fondamentali per la coesione sociale. Un altro
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aspetto importante erano le potenzialità educative della radio per l’alfabetizzazione
della popolazione e più in generale per l’innalzamento del livello culturale secondo gli
standard dell’élite socioculturale. Si trattava evidentemente di un intento di tipo
pedagogico, che affondava le sue radici nell’idea che lo stato dovesse occuparsi
direttamente dei bisogni dei cittadini ritenuti fondamentali, tra cui quelli culturali,
che ebbe un enorme peso nel determinare lo sviluppo del modello di radio pubblica
che oggi conosciamo.
2.2-Lo sviluppo della radio pubblica in Europa e in Italia
La storia della radio pubblica iniziò nel Regno Unito nel 1922, quando la BBC
ottenne, grazie ad una licenza, il monopolio delle trasmissioni radiofoniche. A
influire su questa scelta fu anche una valutazione negativa del modello americano
che si stava orientando verso la radio commerciale.
La BBC fu la perfetta interprete dell’idea di una comunicazione gestita e
pedagogica con una concretezza di programmazione basato su di un modello
largamente imitato dalle altre radio pubbliche europee.
La radio inglese sosteneva che fosse necessario utilizzare la forza del monopolio
pubblico per unire a un compito di intrattenimento una fondamentale funzione
educativa, indirizzando i gusti del pubblico e resistendo alla tentazione di offrire agli
ascoltatori soltanto divertimento, anche se essi lo richiedevano.
L’intento pedagogico determinava quindi anche l’atteggiamento nei confronti
della domanda: per lungo tempo le radio pubbliche europee mantennero la
presunzione di agire per il bene del pubblico e tennero solo in parte conto delle
richieste avanzate per lettera dagli ascoltatori e delle indicazioni fornite dalle prime
ricerche condotte sui gusti degli utenti. L’espressione programmatica di questa
impostazione sintetizzava gli obiettivi della radio pubblica nella triade “informare,
educare, divertire” e a questi tre obiettivi si rifecero in misura diversa le
programmazioni delle radio pubbliche in Francia, Spagna, Germania e Italia.
La data di nascita della radio italiana è il 16 ottobre 1924.
La monarchia che usciva
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dalla Prima guerra mondiale aveva concesso il monopolio delle trasmissioni all’URI
(Unione radiofonica italiana). Le prime trasmissioni sperimentarono le potenzialità
del nuovo mezzo mandando in onda bollettini di notizie, programmi musicali e di
attualità e informazioni su borsa e mercato.
Già nel 1927 una commissione speciale istituita da Benito Mussolini ebbe
l’incarico di studiare le potenzialità del nuovo mezzo: la politica si era accorta della
radio e da allora non l’avrebbe più dimenticata. Fu costituito un nuovo ente
concessionario, l’EIAR (Ente italiano audizioni radiofoniche), e creato un comitato di
vigilanza attraverso cui il regime si organizzò per assicurarsi il controllo
dell’opinione pubblica.
A partire dal 1924 e per tutti gli anni Trenta la radio italiana, pur facendo ancora i
conti con la scarsità di mezzi tecnici, aumentò il suo ambito di diffusione e le ore di
programmazione e presentò una sempre maggiore varietà di programmi. Rispetto
all’offerta della BBC, quella dell
’
EIAR assecondò maggiormente la richiesta di
intrattenimento. Infatti, oltre alle rubriche culturali di letteratura, geografia, storia,
alle trasmissioni speciali per l’agricoltura, alla prosa e alle prime radiocommedie,
mandava in onda molti programmi leggeri: trasmissioni per bambini fantasiose o
comiche e solo in parte didattiche; programmi per il pubblico femminile su
argomenti frivoli come la moda, i cosmetici; quiz, concorsi e programmi di musica
leggera.
La musica rappresentava buona parte della programmazione, a differenza della
BBC, ma in realtà la qualità della musica leggera lasciava molto a desiderare,
trattandosi per lo più di “gezz” (una sorta di jazz all’italiana) eseguito da autori e
orchestrine piuttosto mediocri e per questo la radio pubblica attirò su di sé critiche
feroci dalla stampa e molte lamentele dal pubblico, ma la politica musicale non
cambiò.
Intanto si rafforzava il controllo del regime fascista sull’informazione e sulla
programmazione nel suo complesso, trasformando l’impostazione pedagogica in un
meccanismo di propaganda quasi perfetto: “I discorsi del duce, le radiocronache
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dagli alti toni retorici delle cerimonie pubbliche, l’esaltazione dei valori del
nazionalismo allargavano all’infinito la piazza a cui il regime si rivolgeva”. Questo
controllo divenne ferreo nel corso della Seconda Guerra Mondiale quando a partire
dal giugno 1940 le trasmissioni vennero unificate in un solo canale nazionale con
programmazione ridotta.
2.3-La RAI e l’ avvento della televisione
In Italia nel 1944 un decreto per la riorganizzazione della radiodiffusione istituì una
nuova società per la gestione del servizio radiofonico pubblico: il suo nome era Radio
Audizioni Italia, RAI.
Il quadro all’interno del quale la nuova concessionaria del servizio pubblico
doveva ridisegnare la sua strategia era quello di una democrazia parlamentare in un
sistema politico caratterizzato da una pluralità di partiti. Le redini della gestione
vennero prese dal partito di maggioranza relativa, la Democrazia Cristiana, che si
fece interprete della funzione pedagogica secondo il progetto tipico della radio
pubblica. La dialettica politica in un quadro di pluralismo partitico e il controllo
dell’azienda da parte del partito di maggioranza relativa influirono su tutto il
successivo sviluppo della radiofonia dal punto di vista della gestione,
dell’organizzazione, della programmazione e delle scelte attuate nei confronti dei
primi segnali di liberalizzazione del mercato.
Per quanto riguarda la programmazione, in quegli anni i canali di diffusione erano
due, la Rete Rossa e la Rete Azzurra, secondo un modello anche in questo caso
mutuato dalla BBC. La loro offerta era sostanzialmente simile, con
un’articolazione di generi omogenea: informazione, cultura e programmi di
intrattenimento come i varietà radiofonici, prosa e programmi teatrali, musica
classica e musica leggera.
Rispetto agli anni Trenta l’offerta era più “seriosa” e perfino elitaria, mentre dalla
programmazione di musica leggera furono esclusi i nuovi stili musicali prevalenti a
livello internazionale a favore di un genere canzonettistico affidato alla scrittura e