5
Questo studio, lungi dall’addentrarsi nei meandri della teodicea e nei vicoli, spesso ciechi,
delle concezioni metafisiche e religiose del male, e riflettendo semplicemente sull’uomo come
soggetto libero e responsabile, esprime il tentativo di ripercorrere l’itinerario e le tappe di quel
confronto. Forse, in questo modo, il difficile tentativo di accostare mondi ormai tanto distanti
può diventare un’occasione, accanto ad altre, per gettare un po’ di luce sulla nostra
frammentaria esperienza morale.
Siccome questo lavoro ha coinvolto in misura diversa altre persone, desidero ringraziare in modo
particolare la Prof.ssa Simonetta Nannini, per la disponibilità sempre dimostrata nei miei confronti; il
Prof. Barnaba Maj, i cui dubbi illuminanti e i cui preziosi consigli hanno reso la mia ricerca più
appassionata ed interessante; Carlotta Cappuccino, per i suggerimenti riguardanti la stesura formale di
questo lavoro e gli altri laureandi del Prof. Walter Cavini con i quali ho condiviso l’ansia e le fatiche
della stesura di una tesi di laurea. Un ringraziamento particolarmente sentito va a chi mi ha sopportato
in questi lunghi mesi di redazione: mamma e papà (grazie soprattutto per aver sempre letto volentieri i
diversi capitoli della mia tesi), Fabio (nonostante a volte starmi accanto non sia davvero la cosa più
semplice del mondo, ci sei sempre stato!), Chiara, le mie amiche di sempre e tutte quelle persone, che
qui sarebbe troppo lungo menzionare, che mi hanno sempre incoraggiata e che, specialmente nei
momenti di sconforto, hanno per me rappresentato un’insostituibile fonte di fiducia e di ottimismo.
6
AVVERTENZE
I nomi degli autori antichi e i titoli delle loro opere sono citati adottando le abbreviazioni del Greek-
English Lexicon di H. G. Liddell - R. Scott - H. Jones - P. G. W. Glare per gli autori greci, dell’Oxford
Latin Dictionary a cura di P. G. W. Glare per gli autori latini, e del Patristic Greek Lexicon a cura di G. W.
H. Lampe per le citazioni dal Nuovo e dall’Antico Testamento.
Il testo greco dell’Etica Nicomachea da me utilizzato è quello dell’edizione curata da Franz Susemil e
rivista da Otto Apelt per la collana «Bibliotheca Teubneriana» (1912). La traduzione italiana su cui ho
prevalentemente basato il mio studio, salvo alcune modifiche che ho ritenuto doveroso apportare e che
comunque vengono motivate in nota, è di Carlo Natali (1999). Ho tuttavia consultato utilmente anche
altre traduzioni, tra le quali quelle di Claudio Mazzarelli (1979) e di Lucia Caiani (1996).
Quanto alla Banalità del Male di Hannah Arendt, accanto all’edizione newyorkese (1963), ho utilizzato
la traduzione italiana di Piero Bernardini (1964).
I riferimenti completi delle opere citate si trovano nel saggio bibliografico conclusivo. Esso consiste
in una raccolta ragionata di testi, elencati a numerazione progressiva, in ordine alfabetico e divisi per
aree tematiche, volta a fornire un quadro, credo abbastanza esauriente, dello status quaestionis. Data la
vastissima letteratura esistente sul problema del male, e ancor più su Aristotele e Hannah Arendt, ho
preferito delimitare la mia ricerca bibliografica, salvo rilevanti eccezioni, a studî posteriori al 1950.
Come si noterà, la bibliografia non contiene una sezione specifica riguardante l’argomento centrale della
mia tesi di laurea, ossia la convergenza dell’idea arendtiana di male banale con la concezione aristotelica
della , per l’unico motivo che di studî espliciti su questo argomento, effettivamente, non ne ho
rintracciati.
I testi da me letti o consultati sono segnalati nel saggio bibliografico conclusivo con un asterisco.
7
INTRODUZIONE
Il termine male (dal latino malum e dal greco ) ricopre una varietà di significati davvero
estesa. Generalmente esso indica una sofferenza ingiustificata inflitta ad esseri senzienti, ma
la sua origine può essere collocata in ambiti profondamente diversi, da quello teologico, a
quello antropologico, a quello cosmologico. Nella storia del pensiero e delle religioni si sono
sempre infatti confrontati, e spesso anche contaminati tra loro, archetipi differenti che
hanno ricondotto il male ora alla mancanza di forma, ora ad un principio autonomo, ora al
non essere, ora alla materia, in alcuni casi agli errori della mente e all’ignoranza, in altri alla
volontà malvagia dell’uomo. Dal punto di vista filosofico, tuttavia, questa ampia
articolazione di significati si lascia ricondurre ad almeno tre diversi ambiti fondamentali: a
quello del male fisico o naturale, ossia alle sofferenze subite dall’uomo ma non da lui causate
(terremoti, maremoti, alluvioni, malattie), a quello del male morale, ovvero al dolore inflitto e
procurato da un’azione umana volontaria e intenzionale (omicidi, stupri, torture, umiliazioni,
ma anche i piccoli vizi e peccati quotidiani), e infine a quello del male metafisico (ossia la realtà
ontologica del male, la quale viene perlopiù rintracciata nell’imperfezione del mondo
creaturale).
1
Esiste un’ovvia differenza tra queste distinte categorie di male, differenza di cui
la filosofia non può non tenere conto: il male che l’uomo è in grado di infliggere all’uomo è
altra cosa rispetto alla sofferenza inflitta e perpetrata da cause a lui esterne. Male commesso
e male sofferto hanno una profonda disparità di principio. Tuttavia, la metafisica occidentale
ha spesso collocato sotto il medesimo termine fenomeni tanto disparati quali il peccato, la
sofferenza e la morte, creando così una profonda mancanza di chiarezza concettuale.
Nel corso della storia del pensiero, le concezioni metafisiche del male hanno sempre
oscillato tra l’onnipotenza e il non essere
2
(forse con la sola problematica eccezione di Kant
3
), tra
la considerazione del male come principio autonomo e antitetico rispetto al bene
(concezione dualistica, in origine appartenente alla religione di Zoroastro e poi ripresa, nei
primi secoli dopo Cristo, dal manicheismo e da alcune sette gnostiche e in età moderna da
pensatori come Malebranche e Schelling
4
), e la posizione opposta che riduce il male a mera
mancanza di bene, , pura privatio boni. Nonostante le ovvie differenze che variano da
1
L’esplicita distinzione del male in queste tre figure, e la successiva riduzione del male fisico al male morale e di
quest’ultimo al male metafisico, è sostenuta in particolare da G. W. Leibniz (Leibniz [226], I, 21).
2
Vedi Pareyson [235].
3
Constatato l’insuccesso filosofico di ogni tentativo di teodicea (Kant [221]), Kant indaga il male dal punto di
vista prettamente umano, ossia tratta il male da una prospettiva morale giungendo così alla definizione di male
radicale. Gli uomini compiono il male perché ascoltano la parte più bassa della loro natura, gli istinti, e non la
più nobile, la ragione. Il problema kantiano del male verrà comunque discusso e approfondito nel corso dello
studio. Vedi in particolare § 3.1.
4
Schelling, agli antipodi della metafisica leibniziana, concepisce il male come una forza attiva: esso non esprime
alcuna mancanza o privazione. Il male ha una sua vitale e abissale profondità (vedi Schelling [247]).
8
filosofo a filosofo e da periodo a periodo, quest’ultima interpretazione del male come
alcunché di positivamente reale, può essere ritenuta la tendenza più diffusa della filosofia
occidentale. Essa infatti, passando dalle parole di Platone, degli stoici e di Plotino, giunse alla
sua più chiara formulazione con la filosofia cristiana di Agostino di Tagaste e la teologia di
Tommaso d’Aquino, per venire poi ripresa in età moderna dalle metafisiche razionalistiche
di Spinoza e Leibniz . Il male non è un principio autonomo e indipendente, esso è piuttosto
una semplice mancanza (difetto fisico o morale) conseguente alla limitatezza e
all’imperfezione del mondo. Tale interpretazione del male, tuttavia, soprattutto a partire dalla
conciliazione agostiniana di platonismo e rivelazione cristiana, risulta in alcuni casi davvero
problematica, se non altro per la discutibile sovrapposizione di ambiti filosofici che
dovrebbero invece mantenersi tra loro ben distinti. Per spiegare il misterioso enigma del
male si ricorse infatti ad una teoria alquanto opinabile: gli uomini uccidono, rubano,
mentono perché preferiscono il male al bene (ossia peccano), e sono condannati a subire morti
improvvise, alluvioni, terremoti proprio a causa di questi peccati (se non a causa di questi
peccati particolari, almeno del peccato originale). Inoltre questi mali naturali che provocano
tanto dolore e sofferenza tra le creature non devono interpretarsi come mali reali: essi
appartengono ad un vasto disegno superiore, ineffabile agli occhi dei mortali, che nel suo
insieme si rivela essere un bene. Il male tormenta gli uomini a causa della loro peculiare
condizione: l’imperfezione. Se è vero che Dio non sa e non può creare un altro Dio, il
mondo creaturale non può che essere, di conseguenza, ineluttabilmente imperfetto: sia che
derivi dall’ordine imposto da un Demiurgo a una materia caotica preesistente, sia che venga
creato ex nihilo da un Dio onnipotente, esso rappresenterà soltanto un mero difetto rispetto
al modello ideale cui è ispirato o comunque un semplice limite alla pienezza della creazione.
Insomma, perlomeno a partire dalla più completa formulazione agostiniana del problema, i
disastri naturali, gli incidenti e le epidemie, così come la crudeltà, il crimine e i fallimenti
umani furono concepiti come se appartenessero tutti allo stesso tipo di fenomeni morali: il
male fisico fu ritenuto conseguenza di una colpa morale, la quale fu a sua volta considerata
conseguenza di un male metafisico.
A ben guardare, tali interpretazioni non appaiono proprio convincenti: la teoria della
retribuzione, del delitto-castigo, e la concezione che i mali siano tali solo agli occhi della
finitudine umana, non riflettono soltanto una profonda confusione tra piani filosofici
differenti, ma mostrano anche che l’interesse verso il problema del male, invece di sgorgare
da un’autentica curiosità teoretica e morale, scaturì piuttosto dalla necessità religiosa di offrire
una giustificazione dello scandalo del male data l’esistenza di Dio (già per Platone l’analisi del
9
problema era volta a dimostrare l’innocenza del Demiurgo
5
e, allo stesso modo, gli
interrogativi di Agostino e Leibniz furono innescati partendo dal problema di Dio, e non dal
problema del male: si Deus est, unde malum?). Queste concezioni metafisiche del male si
rivelarono insomma mere strategie di costruzione di una teodicea. E la teodicea, come ci
insegna Kant,
6
esprime soltanto un tentativo fallito di giudicare Dio dal punto di vista
morale, un vano sforzo di antropomorfizzare il Creatore discolpandolo di quelle sofferenze
che inspiegabilmente e immeritatamente tormentano gli uomini. Di fronte all’incontestabile
evidenza del male che regna sulla terra, per giustificare l’esistenza di un Dio buono e
onnipotente, la metafisica finì così per eludere e dimenticare il vero problema teoretico del
male: perché l’uomo esprime la volontà di distruggere altri esseri come lui? E che cosa
intendiamo esattamente quando parliamo, dal punto di vista morale, di azioni malvagie?
Questo studio si propone di sondare una possibile o delle possibili risposte a questi
interrogativi. Esso non si occuperà dell’enigma della sofferenza che in modo arbitrario e
indiscriminato colpisce vittime e carnefici, colpevoli e innocenti, ma indirizzerà lo sguardo
sull’uomo e sulla sua coscienza. Non sarà dunque questa una ricerca teologica: il nostro
studio tratterà prevalentemente di etica. L’universo in cui ci troveremo immersi non farà i
conti con quell’orizzonte tanto scandaloso del male, come la morte di un bambino o la
sofferenza di un giusto, da suscitare quelle ragionevoli domande che inevitabilmente
chiamano in causa Dio, il responsabile dell’ordine cosmico: «Perché?», oppure, ancora più
frequentemente, «Perché io?».
7
Troppo spesso la storia del pensiero ha convertito l’autentico
problema del male in teodicea. Troppe volte ha risposto alle domande di Giobbe in termini
prettamente morali senza capire fino in fondo che l’orizzonte del male metafisico non ha
nulla a che vedere con la responsabilità dell’uomo ma con qualcosa che eccede rispetto alla
prospettiva peculiarmente antropica.
8
In un certo senso, l’errore di molta metafisica
occidentale è stato proprio quello di aver scrutato il male esclusivamente attraverso le lenti
della sofferenza, dando così vita ad un impropria intersezione di etica, metafisica, teologia e
5
Per Platone Dio non può essere ritenuto la causa del male, del nostro far male. Come recita un famoso passo
della Repubblica, , «Dio è innocente» (Pl. R. X 617e): «Dio, in quanto è buono, non potrebbe
essere responsabile di tutti gli avvenimenti, come i più sostengono; al contrario, delle vicende umane solo una
minima parte gli può essere addebitata, della maggior parte, invece, non è colpevole» (Pl. R. 379c, trad it. di G.
Reale – Reale [107]).
6
Kant [221].
7
«Perché vivono felici i malvagi, ed invecchiati accrescono il loro potere?» (Job 21, 7) La domanda di Giobbe,
del giusto che soffre, è indubbiamente legittima ma, invece di riguardare strettamente la responsabilità
dell’uomo, ha piuttosto a che fare la responsabilità di Dio. Il problema risulta quindi più teologico che etico.
8
Nonostante i tre compagni di Giobbe si ostinino a voler ricondurre le sventure dell’amico ai suoi peccati
(utilizzando la categoria impropria di delitto-castigo), il libro di Giobbe non è un libro sul male morale, sulla
cattiveria umana. Esso è piuttosto un libro sul male metafisico. Il titolo di un recente libro esprime bene questa
dimensione: Job et l’excès du mal (Nemo [232]).
10
cosmologia. Certo, il male rappresenta sempre una forma di sofferenza. Tuttavia è anche
vero che non ogni forma di sofferenza è una conseguenza rilevante di azioni umane
biasimevoli e malvagie. Non ogni dolore corrisponde a qualcosa di moralmente sbagliato: le
cause non intenzionali di sofferenza (malattie, disastri naturali, morti improvvise) non hanno
attinenza con il lato più oscuro dell’umanità, ovvero con la capacità dell’uomo di esercitare la
crudeltà nei confronti dei propri simili.
Perché, dunque, dietro al volto rassicurante degli uomini si cela spesso un lato sinistro e
oscuro?
Per affrontare filosoficamente tale problema, questo studio analizzerà e confronterà due
concezioni del male molto distanti nel tempo ma molto simili nella sostanza: la concezione
aristotelica di e l’idea arendtiana di male banale.
In primo luogo, entrambe queste posizioni hanno il merito di osservare il male da una
prospettiva prettamente morale senza imbarcarsi in discorsi fuorvianti sulla natura della
sofferenza: queste due concezioni indirizzano il proprio sguardo sul male commesso, non su
quello indiscriminatamente subito dagli uomini. Ora, Aristotele fu il primo filosofo a fondare
l’autonomia del sapere pratico, spezzando così la circolarità platonica fra teoria, etica e
politica, e a garantire a quel sapere una piena specificità metodica:
9
in questo senso ciò che
traspare dall’Etica Nicomachea sul problema del male riguarda esclusivamente la condotta
umana (ovvero una condotta moralmente biasimevole) e non il male in sé. Dal canto suo,
anche Hannah Arendt, nella sua audace e forse indelicata concezione di banalità, si accostò al
problema del male da un punto di vista prettamente morale,
10
riflettendo così sull’autentica
capacità dell’uomo di commettere ingiustizia, piuttosto che sulla sofferenza da lui
immeritatamente subita. Entrambe queste concezioni, dunque, focalizzano il proprio
sguardo sull’azione umana degna di accusa e di biasimo: tutti questi elementi riconducono
l’origine del male ad un soggetto moralmente responsabile.
In secondo luogo, sia la concezione aristotelica, sia quella arendtiana, rievocano la
principale alternativa della filosofia occidentale alla dottrina gnostica e manichea del male
come principio primordiale e indipendente: il male è mera , semplice privatio boni.
Sia Aristotele sia Hannah Arendt rintracciano l’essenza del male morale in una mancanza, e
propriamente nell’incapacità dell’uomo di distinguere il giusto dall’ingiusto.
9
Vedi Arist. EN I e Vegetti [192], pp. 159-162.
10
La concezione arendtiana di banalità del male è posteriore al 1961, ovvero al processo ad Adolf Eichmann. Nei
dieci anni precedenti il processo, ai tempi della stesura di The Origns of Totalitarianism (Arendt [133]), Hannah
Arendt sosteneva esattamente la posizione opposta, riecheggiando così le dottrine gnostiche e manichee, di un
male radicale. Tale posizione in qualche modo risentiva ancora di una visione metafisica (le differenze e il
passaggio da una concezione all’altra del male verranno ovviamente approfondite all’interno del nostro studio –
vedi in particolare § 3.1).
11
Ora, può apparire effettivamente strano riprendere nel XX secolo, e soprattutto alla luce
della catastrofe europea dei totalitarismi, la categoria tipicamente greca dell’ignoranza del
bene negli agenti del male, tuttavia Hannah Arendt, attirando su di sé non poche critiche,
recuperò proprio quell’antica concezione: alla luce di ciò che era accaduto in Europa e alla
vista raccapricciante di quello che l’uomo era stato in grado di fare all’uomo, il male morale
assunse agli occhi della nota studiosa la fisionomia di un volto banale e tornò a
caratterizzarsi come una forma di . Normalmente la tradizione occidentale ebraico-
cristiana, perlomeno a partire da Paolo di Tarso e da Agostino di Tagaste, rintraccia
l’autentico male morale nella nozione paolina di peccato e, quindi, nella debolezza della volontà
tipica della condizione umana:
11
a partire dalla caduta originaria, l’uomo sa cosa è bene e cosa
non lo è, tuttavia a volte agisce consapevolmente contro ciò che ritiene essere giusto, spesso
perché accecato da forti passioni, spesso perché regna in lui un profondo e lacerante dissidio
della volontà con se stessa. Dunque, nella maggioranza dei casi, si commette ingiustizia nella
piena consapevolezza di stare agendo male. Questo è il peccato; questo è il vero male. Agire
commettendo ingiustizia e perpetrando il male senza averne la consapevolezza rappresenta
solo un caso piuttosto raro tra gli uomini e generalmente esso viene avvertito come qualcosa
di meno grave rispetto all’azione compiuta coscienziosamente: più aumenta il grado di
consapevolezza più è intensa la responsabilità morale del soggetto. Questo per noi moderni
è semplicemente ovvio e lo testimonia anche la nostra comune concezione del diritto.
Tuttavia, per Aristotele, tutto ciò è vero solo in parte: di malvagi che ignorano cosa fare e da
cosa astenersi se ne incontrano, effettivamente, davvero pochi (raro è il vizio, così come rara
è la virtù), ma quell’insolito agire ignorando cosa sarebbe bene fare e cosa no, è la peggior
forma di male possibile. Commettere il male senza ritenerlo tale, significa essere individui
malvagi, , al massimo grado.
11
Il peccato esemplificato dalle parole di S. Paolo «Non il bene che voglio faccio, ma il male che non voglio»
(Rom 7,19), in realtà non esprime altro che una forma di . Il termine è aristotelico e indica la mancanza
di forza etica (, letteralmente assenza di forza). Tuttavia, è necessario considerare che il vero conflitto
che lacera il peccatore cristiano non esprime più una guerra tra ragione e desideri, bensì un conflitto della
volontà con se stessa. Tutto ciò accade perché la volontà cristiana, intesa come facoltà dell’anima indipendente
rispetto a ragione e desideri e soprattutto connessa alla libertà del soggetto, è una facoltà sconosciuta ad
Aristotele e in generale a tutto il mondo greco classico (basti pensare che ed non hanno
alcuna connessione, come invece accade in latino tra voluntas e volontarius). Mentre il termine aristotelico che
generalmente traduciamo con volontà, , non esprime altro che una , una naturale tensione
dell’anima verso ciò che si reputa un bene (vedi Arist. de An. III 10, 433a 23, in cui la volontà viene delineata
come un appetitus razionale), la volontà cristianamente intesa ricopre una gamma di significati molto più ampia:
non si tratta solo di . Essa è anche ed attiene a ciò che è ed in nostro potere
(’). Pertanto, se l’, vinto dai piaceri o dal , è colui che agisce contro la propria
guidata dal , diversamente, il peccatore cristiano si trova sì ad agire contro la sua volontà, ma a
causa della volontà stessa (lo mostrano in maniera molto chiara alcuni passi delle Confessioni di Agostino tra cui
Aug. Conf. VII 3,5; VII 21,27; VIII 5,10). Per approfondimenti all’interno di questo studio, vedi § 1.2 e la nota
30 del cap. 2. Tra altri studî su questo argomento si veda l’interessante saggio di C. H. Kahn – Kahn [403].
12
Ora, Hannah Arendt, dopo l’incontro con un funzionario del III Reich, riportò il male
morale proprio a quelle antiche, e per noi moderni forse scomode, categorie aristoteliche: il
male è ignoranza di un fine moralmente buono, di quel giusto che l’azione dovrebbe
sempre tentare di realizzare. Eichmann, insomma, dirigendo quotidianamente i trasporti di
milioni di uomini verso i campi di sterminio, non solo non credeva di commettere un male
di così impensabili e sconfinate proporzioni, ma non credeva neppure di commettere il male.
Non che Arendt, assistendo al processo e lavorando al reportage, si sia improvvisamente
trovata d’accordo con il paradosso sostenuto da Socrate, secondo il quale conoscere il bene è
anche la condizione sufficiente per farlo,
12
tuttavia ella intravide nel male che l’uomo è in
grado di commettere né un convinto amore di Satana (agire male per amore del male sembra
essere effettivamente una posizione piuttosto ingenua e comunque inverosimile, se non altro
più letteraria che reale
13
), né una comune debolezza della volontà: con Eichmann il male
mostrava un volto insolito, banale, ma non per questo meno inquietante. Si trattava di una
sorta di analfabetismo morale, di una ridicola mancanza di conoscenza etica che aveva
condotto la mente dell’imputato al più indistinto annebbiamento dei valori. Insomma, ciò
che per Aristotele era semplicemente ovvio, ossia ricondurre il peggiore dei mali
all’ignoranza delle categorie assiologiche, per noi moderni è profondamente banale,
soprattutto se si vuole indagare ciò che nella nostra coscienza è divenuto il canone del male
per eccellenza: Auschwitz. Si è molto insistito sull’inintellegibilità del delirio totalitario,
tuttavia Hannah Arendt fu in grado, nonostante le feroci critiche rivoltele, di mostrare come
un male tanto assurdo non fosse poi in realtà affatto incomprensibile: certo, la pratica del
genocidio eretta a sistema rende impossibile collocare il male all’interno di una teodicea,
però analizzare il male estremo senza dover ricorrere all’intervento del Demonio sulla terra è
possibile. Il male si alimenta da sé per la pochezza d’animo dei suoi meticolosi esecutori.
Esso non ha radici profonde, ma si rivela un fenomeno di superficie che dilaga ovunque gli
uomini si dimostrano incapaci di pensare da soli. Il male è banale perché la sua realtà è
fittizia (Aristotele direbbe , senza limiti e, pertanto, senza forma), senza però da
questo dover logicamente dedurre che in nome di tale fittizia realtà non siano stati inflitti
infiniti e tremendi dolori reali. Adolf Eichmann contribuì indubbiamente ad un male di
sataniche proporzioni ma lo fece con piatta superficialità, ossia inconsapevolmente. Aristotele
12
Vedi Pl. Prt. 351a-359a e X. Mem. III 9, 5 e IV 5, 6.
13
Agire male per amore del male significa saper distinguere giusto e ingiusto e assumere l’ingiusto come guida
della propria vita. La filosofia, a parte le concezioni gnostiche e manichee e, in fondo, anche la prima
concezione arendtiana di male radicale, ha sempre eluso tale volto del male (si pensi che addirittura Lucifero
prima di diventare Satana era un Angelo). Questa posizione è invece molto diffusa in letteratura, si pensi al
Satana di John Milton (Milton [230]), o al Riccardo III shakespeariano che non teme di dire «Satana sia tu il
mio Dio» (Shakespeare [246]).
13
direbbe ,
14
vale a dire ignorando totalmente il valore etico che quelle azioni
rivestivano.
Il problema che questo studio si propone di affrontare si rivela così indubbiamente denso
e complicato: esso chiama in causa i concetti di vizio e virtù, di volontarietà e involontarietà,
responsabilità e pentimento, ma anche quelli di pensiero e giudizio, ignoranza etica e
conoscenza di se stessi.
Per rendere più agevole il confronto tra queste due concezioni filosofiche, questo studio è
diviso in due parti. La prima è volta a mostrare la concezione aristotelica del male morale
attraverso le figure della , del vizio, e dell’, della debolezza morale.
Considerando che per Aristotele la prima forma è di gran lunga moralmente peggiore della
seconda, cercheremo di rendere conto di questa gerarchia attraverso un onesto confronto tra
il e l’, riflettendo anche sulla tragedia attica, in particolare euripidea, e il
famoso paradosso socratico sostenuto nel Protagora. Nella seconda parte verrà introdotto il
pensiero arendtiano sul male posteriore al 1961, anno del processo ad Adolf Eichmann, e si
cercherà di dimostrare come quel burocrate nazista dipinto dall’inviata del «New Yorker» sia
profondamente simile al malvagio che Aristotele ritraeva nei suoi corsi di etica ad Atene.
Indubbiamente l’analisi della concezione arendtiana di male banale e l’esame di ciò che
Aristotele riteneva essere il male morale per eccellenza, , non costituiscono in se stessi
delle novità. Gli studî sull’etica aristotelica, così come quelli sulla controversa locuzione
arendtiana, sono di certo innumerevoli. Tuttavia ritengo che confrontare due etiche tanto
distanti nel tempo, e tra le quali addirittura la stessa Arendt non rintracciò, almeno
esplicitamente, una particolare affinità, possa costituire un contributo originale alla luce dello
status quaestionis oggi. Certo, parlando di banalità, Hannah Arendt sapeva bene di attingere ad
una tradizione molto antica che vedeva nel male un difetto di conoscenza piuttosto che il
convinto odio del bene in se stesso o una semplice debolezza della volontà, resta però il
fatto che ella non citò mai la posizione aristotelica in merito al problema. Ed è in questo
angolo vuoto che si inserisce la mia ricerca. Questo studio allora, cercando di dimostrare
quell’evidente affinità taciuta, forse non dirà qualcosa di assolutamente nuovo: tutti noi
conosciamo il pensiero morale di Aristotele e quello di Hannah Arendt. Tuttavia ritengo che
esso possa in qualche modo costituire un inedito e originale confronto sull’etica di due
pensatori indubbiamente molto diversi, nonché un’interessante spunto di riflessione sul
perché l’uomo continui a preferire il male al bene. Del resto, l’enigma del male da tempi
immemori pone una sfida al pensiero: di fronte ad essa siamo liberi di lasciar correre,
14
«Tutto ciò che si fa per ignoranza è non volontario, ma involontario è solo ciò che provoca dolore e
pentimento» (Arist. EN III 2, 1110b 18).
14
oppure, seguendo l’esempio di Hannah Arendt che non si fermò neppure di fronte alla
Shoah, siamo liberi di accogliere la sfida: se è vero, come riteneva Socrate davanti ai propri
accusatori, che «una vita senza esame non è degna di essere vissuta»,
15
forse non solo come
filosofi, ma anche come uomini, abbiamo il dovere di pensare seriamente a quell’importante e
urgente provocazione.
15
(Pl. Ap. 38a).
PARTE I
e
Figure del Male in Aristotele
16
CAPITOLO 1
La nebbia della mente: il male morale in Aristotele
Guai a quelli che chiamano il male bene e il bene male,
che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre.
Isaia V, 20
Trattare il problema del male morale nell’opera aristotelica è come guardare in controluce le
etiche dell’autore e cercare di sondare una zona oscura.
L’Etica Eudemia, L’Etica Nicomachea e i Magna Moralia
1
sono infatti trattati che indicano
come si diventa buoni: riguardano l’uomo eccellente e la vita felice, ed individuano le
strategie per ottenerla.
2
Non esiste un libro, o un intero capitolo, che tratti interamente o
esplicitamente del malvagio.
3
Il insomma, rimane nell’ombra dello , di
colui che vive bene e si realizza nell'azione. L’uomo eccellente è felice, ha amici, è virtuoso, è
sostenuto dalla buona sorte; di contro il malvagio sarà infelice, spesso solo, vizioso, e
sicuramente non baciato dalla fortuna.
Analizzare le figure del male nelle etiche aristoteliche comporta quindi un attento e
serrato confronto con il modello a cui ciascuno di noi dovrebbe aspirare: lo .
Eppure, nonostante il principale intento di Aristotele sia quello di indicare la vita buona e
felice dell’uomo, ritengo che le brevi e sporadiche definizioni del male morale siano
assolutamente interessanti, nonché innovative rispetto alle riflessioni della letteratura e della
filosofia greca precedenti.
Nel mondo omerico dell’Iliade numerosi casi di condotta sconsiderata e inesplicabile
venivano ricondotti all’,
un temporaneo stato di annebbiamento della mente, causato da
un’operazione demonica esterna, in cui la normale coscienza si smarriva: gli impulsi non
razionali dell’uomo tendevano così a venire esclusi dall’io e ad essere attribuiti ad un’origine
1
Il trattato aristotelico della Grande Etica (o Magna Moralia) è ritenuto dalla maggior parte degli studiosi uno
scritto di scuola, probabilmente successivo di qualche decennio all’epoca in cui Aristotele insegnò ad Atene.
2
«Aristotle’s Nicomachean Ethics is about what is good for human beings. It asks and proposes an answer to the
question “What is the chief or primary good for man?”, and it looks at the implications of its answer» (Broadie-
Rowe [9], p. 9).
3
Il IV libro dell’Etica Nicomachea è sì un elenco di vizi, ma sempre in rapporto al medio in cui la virtù consiste.
Il VII libro tratta quasi interamente dell’ ma, come mostrerò in seguito, l’ non è propria del
malvagio.
4
Uno dei casi è per esempio quello di Agamennone che sostiene di aver rubato la concubina ad Achille per
infatuazione divina, ; vedi Hom. Il. 86 sgg..
17
estranea.
5
Questa concezione svanì progressivamente nel corso del tempo lasciando spazio
alla moralizzazione degli interventi divini, al senso di colpa e all’interiorizzazione della
coscienza e, se «fu soprattutto Sofocle, l’ultimo grande rappresentante della concezione
arcaica del mondo, ad esprimere il pieno significato tragico degli antichi temi religiosi, nella
loro forma non ancora moralizzata»,
6
è con Euripide, erede del passo di Eraclito
,
che il male non viene più considerato una forza estranea che
dall’esterno aggredisce la mente degli uomini, ma diventa parte del loro essere.
La questione del perché gli uomini si comportino in modo sbagliato assume così una
nuova fisionomia e inizia a ricevere nuove risposte che prendono in seria considerazione la
responsabilità morale dell’individuo e i suoi moventi.
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In questo nuovo scenario inaugurato ed ampliato dai sofisti, da Euripide, Socrate e
Platone, il aristotelico è un personaggio che colpisce per la sua originalità: rispetto
ai grandi peccatori della tragedia, non prova laceranti conflitti interiori, non ha remore, dubbi,
non si pente e non ha molto a che vedere con le definizioni date da altri filosofi.
Aristotele, analizzando il bene e il male morali, si allontana così da Pitagora che «per
primo si accinse a parlare della virtù, ma non nel modo giusto»,
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e si oppone anche a Socrate,
che, nel definire la virtù una scienza e sostenendo che il male consiste soltanto
nell’ignoranza, ha reso la qualcosa di sempre rimediabile attraverso il sapere, il
divenire
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E se infine Platone ha dei meriti per aver diviso l’anima in razionale e
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È probabile che l’uomo omerico proiettasse il proprio insostenibile senso di vergogna in una potenza a lui
esterna: , , Erinni. Per il concetto di civiltà della vergogna e di civiltà della colpa si veda il saggio di
Erich Dodds (Dodds [161], pp. 33-75).
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Dodds [161], pp. 72-73. La posizione sostenuta da Dodds in merito alla considerazione di Sofocle come
ultimo esponente della concezione arcaica del mondo pare però, agli occhi di molti studiosi, una sentenza un
po’ troppo semplicistica ed eccessivamente categorica. Effettivamente, non è possibile ritenere Sofocle
semplicemente un sereno poeta all’interno della tradizione. La sua delineazione dell’uomo va sicuramente ben
oltre una visione arcaica: gli uomini nella loro impotenza sono lontanissimi dagli dei eternamente beati, eppure
sono anche simili a loro nella nobiltà d’animo. In Èdipo, per esempio, non possiamo infatti vedere solamente i
limiti dell’uomo spezzato dalla volontà divina come uno stelo nella tempesta. Dobbiamo considerare anche la
grandezza con cui il personaggio affronta il proprio tragico destino. Nella tragedia di Sofocle è sicuramente già
resa visibile tutta la ricchezza e la profondità dell’anima umana. Per ulteriori approfondimenti sulla tragedia
sofoclea si veda Lesky [172], pp. 397-407.
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22 B 119 DK. Già Senofane ed Eraclito avevano contribuito a sgretolare le antiche credenze. Le loro parole
però rimasero isolate e passò molto tempo prima che trovassero un’eco nella penisola greca. È Euripide,
influenzato da Anassagora e dai sofisti, il primo ateniese ad aver letto Senofane e a diffondere gli insegnamenti
di Eraclito. Alcuni studiosi, tra cui Lesky e Kamerbeek, ritengono verosimile, nonostante non si possa
dimostrare, che anche Sofocle conoscesse le sentenze di Eraclito.
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La giustizia greca primitiva non teneva conto delle intenzioni dell’agente, ciò che importava era l’azione in sé
compiuta. Basti pensare che i termini e usati per giudicare la condotta umana non denotavano
un’azione buona o cattiva agli occhi degli dèi, ma un’azione bella o brutta agli occhi della pubblica opinione.
Vedi Dodds [161] e Adkins [152].
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Arist. MM I 1, 1182a 10-15, trad. it. per questo passo e seguenti di Caiani [11]. Il passo prosegue: «egli
[Pitagora], riconducendo le virtù ai numeri, non svolse uno studio pertinente alle virtù; infatti la giustizia non è
di certo un numero moltiplicato per se stesso».
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La teoria socratica dell’impossibiltà dell’ verrà discussa e approfondita nel secondo capitolo.
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irrazionale, egli per Aristotele ha comunque sbagliato ad inserire la virtù nella trattazione del
Bene in sé: «parlando della verità non bisogna parlare delle virtù, perché questi due argomenti
non hanno nulla in comune».
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Sfera etica e sfera teoretica, mondo dei desideri e mondo
razionale sono distinti.
Con l’etica aristotelica ci troviamo dunque di fronte a qualcosa di nuovo, ad una
trattazione del bene prettamente umano, ad una felicità peculiarmente antropica e pertanto
facilmente raggiungibile attraverso una prassi tenacemente virtuosa, dal momento che
l’ non è mai disgiunta dalle strategie per ottenerla.
Quello che cercherò di mostrare nelle pagine seguenti è l’identikit di chi questa felicità non
riuscirà mai a raggiungerla.
«Costoro si occuparono dell’argomento fino a questo punto e in questo modo; il passo
successivo sarà indagare cosa abbiamo da dire noi in proposito.»
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1.1 Vizi e virtù
Fatte queste brevi considerazioni introduttive, pare evidente che, per indagare le
caratteristiche peculiari dell’uomo malvagio, sia in primo luogo necessario chiarire gli aspetti
che contraddistinguono il suo opposto: l’uomo virtuoso. Solo cogliendo che cos’è la virtù
possiamo infatti comprendere in cosa consista il vizio, lo stato in cui si trova il , il
malvagio e il , l’uomo comune e moralmente dappoco.
«Dato che tre sono le cose che si generano nell’anima, passioni, capacità, stati abituali, la
virtù verrà ad essere una di queste tre cose.»
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Per rispondere a questo interrogativo Aristotele parte dal presupposto che le virtù siano
degne di lode e che pertanto dipendano da noi: non potranno quindi essere né passioni, né
capacità: infatti «non siamo detti eccellenti o ignobili secondo le passioni, ma sulla base delle
virtù e dei vizi».
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Le passioni sono involontarie,
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la stessa parola greca lo attesta, così
come il latino passio: esse accadono, capitano agli uomini, vittime passive, e, di conseguenza,
sono moralmente neutre.
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Per questo motivo non sono suscettibili di lode o biasimo,
«infatti non si loda chi ha paura o si adira, né si biasima colui che semplicemente si adira, ma
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Arist. MM I 1, 1182a 28-30, cfr. EN I 4, 1096a 11- 1097a 13, EE I 8, 1217b 23-25.
12
Arist. MM I 1, 1182a 30- 33.
13
Arist. EN II 4, 1105b 20, trad. it. per questo passo e seguenti di C. Natali (Natali [23]).
14
Arist. EN II 4, 1105b 30.
15
Se le passioni sono involontarie nessuno può esserne ritenuto responsabile, dal momento che la sfera della
responsabilità coincide con quella della scelta.
16
(Arist. EN II 4, 1105b 21-23).