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All'inizio la riscoperta dei testi classici fu una sorta di
"sottoprodotto" dell'attività generale dei cacciatori di
manoscritti. Pian piano, grazie anche agli interessi dei
reggitori delle corti più importanti dell'Italia rinascimentale,
a cavallo tra il XV e il XVI secolo una grandissima parte dei
trattati di musica più importanti erano stati riconosciuti e
recuperati. Francesco Barbano e la sua collezione, in parte
eredità di Ambrogio Traversari, ed il cardinale Bessarion (che
donerà la sua collezione alla Biblioteca Marciana di Venezia,
dove tutt'ora si trova) fecero di Venezia un importante centro
culturale. A Roma la biblioteca del Vaticano gia negli anni '70
del XV secolo aveva assemblato una ricca collezione di opere.
Infine da non dimenticare, sebbene secondarie solo per quantità,
Firenze, Urbino e Ferrara, non a caso centri che hanno dato alla
luce personaggi chiave per la cultura rinascimentale non solo
musicalmente parlando. Inoltre le corti d'Este di Ferrara, i
Gonzaga a Mantova, gli Scaligeri a Verona e gli Sforza a Milano
tra gli altri, rendevano culturalmente forti le rispettive città
e zone d'influenza. Infine non va dimenticato il ruolo chiave
della stampa e della sua evoluzione. Giorgio Valla, tanto per
prendere un esempio, che pubblicò nel 1501 presso l'importante
stamperia di Aldo Manuzio a Venezia, pubblica in ben 49 tomi
un'opera, inizialmente invece in soli cinque libri, che doveva
diffondere e tradurre opere di musica greca. O di Carlo
Valgulio, che tradusse in latino il De musica dello Pseudo-
Plutarco, pubblicato a Brescia nel 1507, per arrivare a Basilea
nel 1530 e a Parigi nel 1555, tra le tantissime edizioni. Il
ruolo dei traduttori fu tutt'altro che secondario o collaterale,
perchè da più parti ormai si era sfatato il mito del teorico
musicale che prende il testo greco come fonte diretta. In realtà
solo Lodovico Fogliano, Francisco de Salinas e Ercole
Bottrigari, per non citare il fondamentale Girolamo Mei,
possedevano la padronanza tanto del greco che del latino. Gli
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altri pensatori, ad esempio Gaffurio che commissionò traduzioni
a Burana, utilizzavano traduzioni fatte da interposta persona,
le quali, al giorno d'oggi perlopiù giunteci, sono interessanti
elementi di studio filologico.
L'uso non intellettuale della cultura umanistica è un altro
aspetto tipico del rinascimento che non va dimenticato. Essa
divenne anche uno strumento delle classi di potere; i ragazzi
che venivano introdotti nelle corti, ricevevano un'educazione
che enfatizzava i valori sociali, come la retorica, la storia e
l'etica quali elementi utili per la politica. La grammatica
serviva alla retorica e all'arte della persuasione, fondamentale
per un uomo di potere. Anche la musica era entrata a corte nella
sua concezione umanistica, come elemento di distinzione e
ricchezza culturale. In parte è anche grazie a questo che i
mecenati e i reggitori di corte hanno dato alla storia grandi
compositori. All'inizio del '500 niente di meglio ritraeva la
corte come Castiglione nel suo trattato Il libro del cortegiano,
manuale di comportamento ed educazione, per formare un
cortigiano, per non citare il famosissimo Galateo del Della
Casa, manuale fondamentale di etichetta. La pratica musicale
diviene un aspetto culturale delle "buone maniere" da seguire ed
un piacevole modo di intrattenere eventuali ospiti. I due
manuali ebbero subito grossa popolarità e la capacità di
eloquenza dell'umanista diviene un ideale per il gentiluomo, che
oltre ad essere preparato nelle lettere classiche, doveva essere
un uomo versatile, adattabile ad ogni situazione di società.
Dunque è innegabile come la cultura classica sia uno dei
punti di riferimento portanti del rinascimento. Questo strettis-
simo legame è evidente in un elemento chiave, tanto presso la
filosofia greca che la trattatistica rinascimentale, della
musica, ovvero la voce. La peculiarità di questo "strumento
musicale" umano sta nella sua capacità di associarsi a
discipline e ambiti di studio assai diversi riuscendo a rimanere
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sempre al centro dell'attenzione e per lungo tempo riuscendo ad
essere considerato la parte più importante della musica.
"L'insieme dei termini usati nella letteratura greca per definire il fascino del
canto, traccia un parallelo tra il potere letteralmente «ammaliatore» (latino
fascinum, «incantesimo») del linguaggio e il potere dell'amore, tra la seduzione
erotica e la seduzione esercitata dalla poesia. (...) I poeti più tardi
descrivono spesso la poesia come un pharmakon, un «farmaco» che può sia lenire,
sia provocare la sofferenza d'amore."1
Il potere della parola è strettamente connesso all'armonia
dell'anima; tramite essa il corpo può essere purgato, guarito o
anche, se si hanno intenti malvagi o ignoranza del suo uso,
ammalato. Basti solo leggere i filosofi più importanti come
Platone ed Aristotele. In loro troviamo la forza della parola
espressa, sia come capacità retorica che come uso musicale; la
forza è però un'arma a doppio taglio, perchè ha affezione sia
positiva che negativa. La parola è curativa, ma anche
persuasiva. Chi conosce l'uso dell'arte retorica può riuscire ad
ammaliare l'ascoltatore inesperto. Non a caso Socrate e Platone
si scagliavano contro i sofisti, bollandoli come vuoti rètori;
la forza vocale ed espressiva non è da sottovalutare, anzi
bisogna regolare con leggi dello stato quali siano i giusti
contenuti da esprimere e che a farlo siano solo persone
qualificate. Questo potere non è semplicemente morale, ma anche
corporeo. Se si ammala l'anima anche il fisico ne risente.
Simbolo assoluto di questo è di certo Orfeo, colui che con il
suo potere muoveva esseri animati ed inanimati, che sconfisse la
morte e si battè contro gli inferi. Egli era già una figura al
1 CHARLES SEGAL La magia di Orfeo e le ambiguità del linguaggio, in
DONATELLA RESTANI (a cura di) Musica e mito nella Grecia antica, Bologna, Il
Mulino, 1995, pp. 289-90.
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limite tra mito e realtà ai tempi d'oro della grecia classica,
così da mantenere il suo smalto di massimo artefice musicale
anche nelle brevi dissertazioni sull'origine della musica nei
trattati medievali e rinascimentali. La sua figura appartiene ad
un periodo antico anche per i greci di allora, quando la musica
e la poesia erano del tutto orali:
"essa è dunque più vicina alle sue origini nel rito e nella magia. (...) Chi fa
parte del pubblico viene coinvolto in un'esecuzione in cui non è solamente
spettatore passivo, ma sente e imita, coscientemente o meno, nel suo corpo, il
movimento ritmico e il tempo del canto. Una poesia di questo tipo provoca una
risposta totale, non solo la risposta distaccata e intellettuale della poesia
che si serve della vista, che viene letta. (...) Tali caratteristiche formali
agiscono mediante le risposte motorie e i meccanismi psicosomatici del pubblico,
provocando un'identificazione, a livello fisico e mentale, con i movimenti
ritmici e la struttura del canto del poeta."2
Il canto del poeta è un incanto, ha un potere ammaliatore che va
oltre la coscienza e la volontà dell'ascoltatore. Proprio questo
cercano certi teorici musicali del '500, il ritorno a questa
condizione musicale. Con l'arrivo dei romani, la cui sensibilità
musicale non sembra essere stata particolarmente degna di nota,
si comincia a perdere questa condizione per certi versi
ancestrale. La musica "visiva" prende piede, la cultura scritta
permette costruzioni formali eccellenti, ma che, secondo i
pensatori della Camerata fiorentina, distoglie la musica dal suo
vero fine, quello antico, sminuendone la forza. La musica ha
come guida nella sua semplicità e nella sua forza la voce umana.
Essa è quanto di più naturale, dal punto di vista biologico,
fisico e metafisico, l'uomo sia dotato per esprimersi. Anzi, è
ciò che permette all'uomo, assieme alla sua parte razionale, di
2 Ibidem, p. 294.
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esprimersi in modo assai più alto e complesso degli altri esseri
viventi.
La voce nella trattatistica greca, che tocca veri trattati
di teoria musicale, trattati di filosofia in cui la musica entra
collateralmente e manualistica, riesce a rendersi protagonista
in un ampio numero di ambiti disciplinari. Rimanendo nel solo
ambito musicale, di certo il teorico che più ha preso la voce
come elemento fondante del proprio sistema filosofico e della
musica in generale è Aristosseno di Taranto; il filosofo, il cui
pensiero fu non a caso modello per molti altri teorici, conia
uno dei concetti più interessanti relativi alla voce: il
movimento topico della voce. Lo studio compiuto è di carattere
fortemente fenomenologico, basato su un metodo scientifico
aristotelico e pone come base della musica una serie di elementi
derivati direttamente dall'esperienza sensibile. Ciò che è
musicale è determinato da ciò che l'uomo considera tale. Ora,
poichè l'uomo percepisce fenomeni esterni attraverso i sensi,
sarà il senso dell'udito a fargli determinare che suoni debbano
essere parte della musica e quali no. Allo stesso modo la voce,
intesa come organo vocale assieme alle sue capacità tecnico-
fisiche, determina quali sia l'estensione giusta da utilizzarsi
nel canto, quali siano gli intervalli più piccoli e quelli più
grandi da utilizzarsi e così via. Quello che Aristosseno intende
con il suo sistema è mostrare come costruzioni teoriche
empiriche siano di assai scarsa utilità per il compositore o per
un altro teorico. É inutile suddividere l'ottava in un numero
esagerato di intervalli, quando quelli consonanti e graditi
all'ascolto sono solo un certo (e piccolo) numero; allo stesso
l'intervallo minimo udibile e cantabile non è tanto piccolo
quanto riesce a calcolare la teoria empirica, bensì è
decisamente più ampio. Le finalità della teoria aristossenica
sono tese alla musica pratica, cioè trovare nella fenomenologia
quelle regole compositive che possono essere di maggiore aiuto a
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chi compone e non elucubrare su concetti complessi e fuorvianti,
per non dire inutili, più tipici della speculazione filosofica.
Aristosseno fu particolarmente gradito nel rinascimento e dagli
umanisti tanto che i vari Girolamo Mei, Vincenzo Galilei e
Giovanni Bardi sposano del tutto tale concetto.
Il movimento topico della voce, cioè un tipo di voce che si
muove tra acuto e grave creando così intervalli, comunemente
detta diastematica e propria dell'atto canoro, è un concetto
ripreso da tantissimi altri pensatori, tra cui Nicomaco di
Gerasa, Cleonide ed altri, tra cui anche Aristide Quintiliano
nel suo prezioso trattato De musica, che rappresenta un chiaro
esempio di come la musica fosse associata a tante altre
discipline. Interessante la terza via che egli indica: oltre
alla voce normale, quella del parlare e quella diastematica, ne
indica anche un'altra dal carattere intermedio, quasi lontano
presagio di un recitar cantando a fondo ricercato nel XVI-XVII
secolo. Oltre al movimento della voce, Aristide produce
un'interessante teoria di generazione della musica a partire dal
linguaggio e dalle lettere dell'alfabeto. La connessione con le
qualità proprie della voce è qui strettissima, tanto che
Quintiliano classifica sillabe e lettere e ne fa una gerarchia a
seconda sia del suono emesso che del movimento facciale compiuto
nell'emissione. Questa ricerca linguistica si ritrova,
ovviamente con a base l'alfabeto italiano, anche in Pietro Bembo
e nel suo fondamentale trattato Prose della volgar lingua.
Bembo, noto per avere praticamente fatto del volgare toscano la
lingua italiana scrivendo un trattato in tale lingua e indicando
modelli supremi Petrarca, Boccaccio e Dante, trova nel concetto
di musicalità la chiave per la riuscita dell'arte poetica.
Strettamente legato all'oratoria, ora seguendo i due soli
criteri di piacevolezza e gravità come risultato ultimo della
composizione, Bembo utilizza la musica pur non parlandone
direttamente. La cosa interessante sta nel fatto che
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piacevolezza e gravità devono essere presenti nel più piccolo
elemento facente parte la poesia, e quindi Bembo compie una
disamina molto interessante anche delle singole lettere
dell'alfabeto, delle sillabe per poi passare ai versi, alla
metrica fino alle strutture formali. Nella ricerca bembiana è la
voce a fare da guida, poichè Bembo ha sempre in mente il
risultato finale, la parola pronunciata o il testo recitato che
dir si voglia. É quindi proprio da come la voce si esprime che
bisogna partire, è ancora la fenomenologia della parola parlata
ad essere base della struttura teorica.
Che l'uomo nel suo parlare quotidiano debba essere spunto
di riflessione per il musicista e il teorico lo sostiene
fortemente anche Vincenzo Galilei, forse il più noto dei
trattatisti della Camerata Fiorentina. Dopo un lungo e serrato
attacco al contrappunto ed al simbolo della musica polifonica,
il suo ex maestro Gioseffo Zarlino, Galilei vede una sola
soluzione per il bene della musica: ritornare ai fasti della
Grecia classica, ai fasti di una musica potente in quanto a
effetti e presa emozionale, ma soprattutto semplice ed
immediata. Tale semplicità sta nell'utilizzo della monodia e
dell'omofonia e soprattutto nel mettere la voce al centro
dell'attenzione. La musica monodica deve sostituire la
polifonia, ad opinione di Galilei, poichè nel suo mettere in
primo piano la voce trova la massima espressività musicale
possibile e permette che le parole siano bene comprese. Tale
corretta comprensione è la strada per ricreare quegli effetti
che solo la musica antica poteva avere. Modello di riferimento
per la voce monodica deve essere la voce di tutti i giorni nelle
varie situazioni. Per questo Galilei invita i compositori ed i
teorici a recarsi a teatro dove la mimesis, la rappresentazione
della realtà espressiva vocale raggiunge il massimo fulgore. La
voce polifonica invece è ormai schiava di madrigalismi e inutili
artifici.
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Che la tragedia fosse importante punto di riferimento e che
in essa la voce ricalchi un ruolo fondamentale in quanto primo
mezzo espressivo, Galilei lo impara da Mei, che a sua volta era
un profondo ammiratore della Poetica di Aristotele. Aristotele
vede nella tragedia la forma d'arte suprema e la voce è uno dei
sei elementi che la reggono. Per Aristotele la voce è uno dei
più importanti mezzi che l'uomo ha per l'espressione. La voce
con Aristotele tocca tantissimi campi, dall'arte alla
metafisica, dalla biologia alla fisica. La razionalità umana è
una potenza che può essere messa in atto pienamente solo con
questo mezzo. La sua capacità mimetica è impressionantemente
migliore di quella di tanti altri mezzi. Aristotele si sofferma
moltissimo sulla voce e sul canto anche nei Problemi, recando le
più svariate spiegazioni dal punto di vista fisico e biologico;
alcuni di questi concetti sono assai apprezzati da numerosi
trattatisti rinascimentali.
Giacomini per primo fu uno dei più autorevoli ed influenti
studiosi della tragedia e della Poetica Aristotelica,
individuando nella voce e nelle sue capacità retoriche e
persuasive il mezzo per eccellenza di diffusione del sapere. A
suo giudizio la voce è un dono divino tanto quanto l'intelletto
e le loro funzioni sono complementari. Se l'intelletto
partorisce pensiero, allo stesso modo la voce permette che esso
venga diffuso. Anche il pensiero stoico, seppure in una
prospettiva diversa, individuava la voce ed il discorso come un
mezzo per la creazione della realtà. Il saggio non è tale fino
in fondo se non comunica agli altri ciò che ha compreso del
mondo e dell'universo. La conoscenza di per sè è vana ed
immateriale, mentre la conoscenza divulgata è realtà materiale.
Giacomini similmente riteneva che l'uomo avesse per motivo etico
e come ringraziamento a Dio del dono fatto, il dovere di
comunicare agli altri attraverso la voce.
Se la voce per tanti versi passa attraverso metafisica,
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biologia e medicina è anche grazie al pensiero di Marsilio
Ficino. Nella sua grande produzione di scritti, teorici e di
commento a Platone, suo grande modello, ricorrono di nuovo
concetti stoici, ma anche medici e astrologici. Per curare
fisicamente e moralmente uno studioso sfiancato ed esaurito dai
propri studi, la musica e in particolare quella vocale sono il
mezzo principale. La voce si diffonde attraverso l'aria, o
meglio attraverso quello spiritus aereo che tutto circonda.
Poichè anche la voce è aerea e proviene dal profondo dell'uomo,
per legge simpatetica è il mezzo migliore di tutti. Essa infatti
infonde nuova linfa vitale ed energia all'uomo in modo diretto e
non attraverso altri mezzi intermedi quali la vista. La voce usa
lo spirito ed è spirito allo stesso tempo.
Metafisica, biologia, ethos e passioni; anche la voce come
più puro mezzo artistico ha un ruolo chiave sia nella filosofia
greca che in quella rinascimentale. Se praticamente nessun
filosofo o teorico greco classico nega che per la musica la voce
è elemento irrinunciabile, al contrario per qualcuno si potrebbe
magari anche rinunciare all'accompagnamento strumentale, nel
rinascimento la voce è il principio della musica a cui tutto il
resto deve sottostare. Forti della spinta della Camerata
Fiorentina retta dalla notevole personalità umanistica di
Giovanni Bardi, dei citati Mei e Galilei che credevano che ci
fosse bisogno del ritorno dell'antica musica greca, compositori
come Caccini, de' Cavalieri, Peri ed in modo diverso Monteverdi
cambiano leggermente direzione, cercando una musica del tutto
nuova che avesse come base i dettami della teoria musicale
greca. Insomma, non ci fu mai nessuno che riuscì nell'intento di
ricreare la musica dei greci dell'età ellenica, o anche solo
un'imitazione della musica di Platone o Aristosseno; in realtà
la musica del rinascimento trova nuovi spunti compositivi e
nuova linfa vitale nei dettami antichi senza però assumere una
pelle totalmente nuova. Ci fu uno spostamento verso una musica
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ormai più snella, basata sul recitar cantando e su una maggiore
comprensibilità, ma per certi versi comunque ancorata alla
prassi compositiva del tempo. Simbolo di questo nuovo gusto al
passar di secolo furono da una parte il nascente melodramma, che
si nutriva anche di quelle regole della tragedia aristotelica
ormai diffuse a macchia d'olio, dall'altra parte la seconda
prattica monteverdiana. Claudio Monte-verdi, attraverso suo
fratello Giulio Cesare, ma soprattutto attraverso uno dei più
importanti ed amati repertori della storia della musica, mostra
come una nuova sensibilità artistica basata sulla snellezza, la
comprensibilità del testo e l'abilità melodica possa portare
quei risultati tanto bramati nel secolo precedente dalla
Camerata dei Bardi in poi. Ora chi scrive i trattati di poetica
musicale, anche se relegati in poche pagine di proemio ad una
raccolta di composizioni, guarda in primis al proprio gusto
artistico e alla propria ispirazione e solo in un secondo tempo
a tutta una serie di riferimenti teorici, siano essi greci o di
altra provenienza. Se seguire il suono e le peculiarità
espressive della voce significa semplicità, immediatezza,
intensità ed efficacia, allora Monteverdi ne ha ben appreso le
capacità, lasciando spazio alla musica suonata a discapito della
pura costruzione teorica.
In realtà dunque non ci fu mai la resurrezione della musica
greca; la voce, protagonista in tutto questo processo, così come
protagonista fu nel pensiero musicale greco, si avvantaggia
dell'attenzione ad essa rivolta, ricambiando il favore a quel
gusto musicale che sentiva la necessità di una svolta ma che
ancora non aveva una direzione precisa.