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CAPITOLO I
INQUADRAMENTO GEOGRAFICO
Le aree indagate nel presente lavoro di Tesi sono la Piana di
Carini e la Piana di Palermo; Carini è una località sita in provincia di
Palermo, ad ovest del capoluogo.
La piana di Carini ricade nel Foglio N° 594 – Partinico (Nuova
Cartografia d’Italia edita dall’I.G.M.I.)e, in riferimento alla vecchia
cartografia d’Italia, sempre edita dall’I.G.M.I., nella tavoletta F. 249
III N.E.
La Piana di Carini è costituita da un territorio sub -
pianeggiante, dove sono presenti una serie di terrazzi marini, situati a
differenti quote sul livello del mare ed intervallati tra loro da falesie o
ripe di erosione marine abbandonate; tutta l’area risulta delimitata da
grandi paleofalesie che circondano la piana. Essa ha una larghezza
massima di circa 3 km ed una lunghezza massima di circa 8 km.
Il territorio è delimitato ad Ovest dal Monte Corvo e da
Montagna Longa, a Sud dal Monte Saraceno e da Monte Colombrina,
ad Est dal Monte Castellaccio e Montagna Raffo Rosso, a nord il
territorio è delimitato dal Mar Tirreno.
La Piana di Palermo è un’area sub – pianeggiante delimitata in
tutta la sua estensione da vette che si elevano sino a circa 1000 m sul
livello del mare, tra le quali Monte Gallo, Pizzo Manolfo, Monte
Cuccio e Monte Grifone.
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L’aspetto sub – pianeggiante è dato da superfici terrazzate che
costituiscono la suddetta area, e che si ritrovano sino ad una quota di
circa 150 m dal livello del mare. La piana ha una larghezza massima
di circa 6 km ed una lunghezza di circa 14 km. Il territorio ricade
all’interno del Foglio N° 295 (Nuova Cartografia d’Italia edita
dall’I.G.M.I.).
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CAPITOLO II
STUDI PRECEDENTI
¾ Studi paleontologici
Nonostante l’interesse per i depositi fossiliferi in Sicilia risalga
a parecchi secoli addietro, come evidenziato da parecchi riscontri,
bisogna rilevare come tale interesse in principio fosse solo fine a se
stesso, senza avere una valenza e una portata di tipo scientifico.
Gia dal XVI sec. Boccaccio parla di ossa fossili, ingenuamente
interpretate come resti dei Ciclopi, antichi giganti che popolarono la
nostra isola. Credenze popolari che resistettero per lungo tempo,
poichè confermate dall’idea che il foro centrale rinvenuto nei resti di
crani di elefante, in realtà la cavità nasale, corrispondesse alla fossa
orbitale del Ciclope.
Solamente agli inizi del XIX sec. grazie all’attività svolta dal
barone Bivona Bernardi (1830), si cominciò ad avere un differente
approccio con i resti rinvenuti nelle grotte; è proprio il barone Bivona
Bernardi che per primo, infatti, attribuisce a queste ossa un carattere
fossile e ne riconosce l’appartenenza animale. Da sottolineare
l’importanza, per tali conclusioni, delle nuove dottrine, che
contemporaneamente si diffondevano con nuovi approcci e le nuove
idee di Cuvier.
Bivona Bernardi pubblicò queste sue nuove teorie sul Giornale
Officiale di Palermo “La Cerere”; da questo momento in poi anche il
Governo borbonico mostrò un certo interesse e promosse uno scavo
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all’interno della grotta di “Maredolce o S. Ciro”. Gli scavi condotti da
Domenico Scinà si conclusero nel 1831 con il “Rapporto sulle ossa
fossili di S. Ciro”; Scinà fu il primo ad affrontare lo studio da un
punto di vista sistematico, cercando di dare maggiori spiegazioni sulla
natura di queste ossa, alla specie di appartenenza e anche alla loro
provenienza, basandosi in particolar modo sul lavoro svolto da Cuvier.
Già Mongitore nel 1742 ne aveva riconosciuto la natura
animale, ma la loro presenza sull’isola era attribuita all’uomo, che li
aveva introdotti nell’isola in tempi recenti.
Scinà riconobbe, quindi, le prime forme animali, riuscendo ad
identificare ossa attribuite all’ippopotamo vivente, di differenti taglie;
erroneamente attribuì altre ossa al Mammut, Elephas primigenius, ma
in ogni caso il suo lavoro resta di fondamentale importanza, in quanto
da vita ad un nuovo approccio, ad un nuovo metodo di studio di questa
disciplina che ormai si andava sempre più sviluppando: la
Paleontologia.
Con lo studio di Scinà la leggenda stava quasi per essere
dimenticata, il mito svaniva sempre più lasciando il posto agli studi
scientifici; occorre ricordare che sino agli anni precedenti il 1830 le
“Ossa dei Giganti” avevano da sempre suscitato la curiosità della
gente, che per oltre due secoli, con i loro scavi a scopo puramente
ludico o remunerativo, impoverirono i depositi.
Nel 1860 gli studi effettuati da Falconer presso la grotta di
Maccagnone, mettono in evidenza che la grotta al momento dello
scavo si trovasse ad quota differente rispetto a quella in cui si doveva
trovare durante la sua formazione e durante l’accumulo dei depositi
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fossiliferi al suo interno. Nel lavoro di Falconer è messa in evidenza
l’assenza totale di micromammiferi all’interno della cavità. Secondo
l’autore, la grotta in un primo momento è stata riempita sino al tetto da
depositi che testimoniano anche la presenza umana, attestata dal
ritrovamento di frammenti ossei, denti e carboni cementati al soffitto.
Successivamente a causa di grandi mutamenti, il deposito è stato
asportato, lasciando inalterata solo la parte di sedimento cementata al
soffitto. Falconer diede, inoltre, una interpretazione stratigrafica del
deposito, partendo dall’alto verso il basso, descrive un suolo sciolto-
argilloso con inglobati grossi blocchi calcarei, uno strato di terra
marnoso - arenacea, uno strato di marna porosa che definisce “ceneri
impastate”, ed un quarto livello di breccia ossifera ricca in ossa di
ippopotamo; nel livello inferiore rinviene anche un molare da latte di
Elephas antiquus.
In prossimità dell’ingresso rinviene, infine, oltre alle ossa di
ippopotamo, anche coproliti di iena, resti di un orso, grossi
gasteropodi terrestri, denti di Equus nella area centrale della grotta e
anche il grande felide?.
Nel 1866 il professor Gaetano Giorgio Gemmellaro pubblicò i
risultati di diverse campagne di scavi effettuati nella grotta di
Carburangeli, sita nel territorio di Carini. Gli scavi furono effettuati
qualche anno prima, e interessarono gran parte dei depositi del primo
ambiente e del corridoio che collega il primo ambiente con il
secondo. Risultati di questa ricerca furono il ritrovamento di numerose
ossa fossili, abbondanti sia nella quantità che nella variabilità
specifica. Le specie che riuscì ad identificare furono le seguenti:
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Cervo, Capra, Cavallo, Bove, Cinghiale, Orso comune (U. arctos),
Iena (H. crocuta), Elefante (Elephas antiquus, Falc.). Identificò
inoltre diversi resti di organismi marini, che testimoniavano la
presenza del mare in prossimità della grotta stessa. Riconobbe ed
eseguì studi anche sui resti attestanti l’attività umana. Secondo
l’autore questi ultimi si rinvenivano nei depositi insieme ai fossili di
vertebrati, prova questa che attestava la convivenza dell’uomo con
certe specie animali. Inoltre osservando più scrupolosamente le ossa,
si accorse che quelle appartenenti al Cervo, al Bove, al Cavallo, al
cinghiale, mostravano fratture trasversali rispetto alla lunghezza
dell’osso, segni di una evidente scheggiatura, e fratture in prossimità
delle diafisi, tali da testimoniare una rottura con lo scopo di ricavarne
il midollo interno per la nutrizione.
Gemmellaro ci offre anche una descrizione del sedimento che
ingloba le ossa affermando che si trattava di una terra argillosa che a
tratti è più tufacea e più sabbiosa. Alla luce delle attuali conoscenze,
appare chiaro che il deposito doveva presentarsi rimaneggiato in
quanto Gemmellaro affermava la contemporaneità dell’uomo con
l’elefante, avendo rinvenuto nello stesso livello, ossa di elefanti e ossa
umane.
Nel 1893 Pohlig da notizie di un grande scavo eseguito forse
intorno al 1865 da G.G. Gemellaro presso la grotta dei Puntali
(Carini). Da sottolineare che di questo scavo dà notizia solamente
Pohlig, venuto a Palermo per studiare i fossili che si trovavano presso
il museo paleontologico di Palermo.
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Lo stesso Pohlig, nel 1909, eseguì un ulteriore scavo nella
grotta dei Puntali, riconoscendo che le forme ritrovate
corrispondevano a taglie inferiori rispetto alle stesse specie
continentali; per questo motivo propose la sottospecie geografica
siciliae per il bue e per il cervo.
L’interesse per i depositi fossiliferi andò via via aumentando,
sempre più studiosi scavarono e studiarono i reperti provenienti dalle
grotte del palermitano.
Ramiro Fabiani, nel 1928 eseguì scavi in numerose località; il
suo interesse nasceva dagli studi precedenti di Gemmellaro. I saggi
esplorativi da lui effettuati avevano lo scopo di dare una successione
cronologica alle faune quaternarie terrestri. Fabiani saggiò numerose
grotte del palermitano, portando ala luce grandi quantità di reperti
fossili, arricchendo le collezioni già esistenti. Gli elenchi faunistici
forniti da Fabiani relativi alle varie località sono:
Grotta S.Ciro
- Ursus arctos
- Canis lupus
- Hyaena crocuta spelaea
- Hippopotamus amphibius pentladi
- Cervus elaphus
- Dama dama
- Elephas antiquus mnaidriensis
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Grotta dei Puntali:
- Bison priscus bojanus
- Cervus elaphus
- Elephas antiquus mnaidriensis
- Sus scrofa
Grotta dei Carburangeli:
- Canis lupus
- Hyaena crocuta spelaea
- Sus scrofa.
Vaufrey R., studioso francese giunto in Sicilia per studiare il
Paleolitico, nel 1929, portò notevoli sviluppi alle conoscenze di allora,
interpretando, anche se in modo non corretto, gli orizzonti stratigrafici
analizzati.
Successivamente Fabiani effettuò nuovi scavi nella grotta della
Zà Minica. Nel suo lavoro del 1931 affronta il problema legato
all’evoluzione della cavità e alla genesi del deposito fossilifero al suo
interno. Descrive la cavità come una grotta di origine marina,
formatasi durante il Quaternario antico a causa delle onde marine e,
solo in un periodo successivo, questa è emersa dal mare, offrendo
probabilmente un primo asilo alle razze più piccole di elefanti e di
altri animali selvatici. Solo più tardi, la grotta servì come ricovero ed
abitazione per l’uomo, testimonianze queste, che vengono suffragate
solo nei livelli più superficiali del deposito fossilifero, e che per il tipo
di industria litica rinvenuta, Fabiani ritiene che appartengano al
Paleolitico superiore.