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origine: abbandono, violenza e maltrattamenti, abusi. Una soluzione tangibile a queste
gravi problematiche dovrebbe derivare da una maggiore integrazione tra le politiche
sociali e le politiche rivolte alla famiglia, le quali dovrebbero innanzitutto promuovere
la famiglia come un valore e un bene di interesse pubblico e, in secondo luogo, mirare
alla prevenzione eliminando, per quanto possibile, le cause del disagio minorile in
tutte le sue manifestazioni. In realtà, sono state attuate politiche a sostegno della
famiglia, volte a salvaguardare i diritti e gli interessi dei minori, come ad esempio la
legge 285/97. Tuttavia non si sono ancora instaurate collaborazione e sinergie
adeguate tra istituzioni, operatori sociali locali e associazioni di volontariato che
seguono più da vicino le famiglie considerate difficili.
Nel primo capitolo ho cercato di delineare i mutamenti che la struttura
familiare ha subito nel corso del tempo e i vari approcci sociologici adottati da diversi
autori per definire il fenomeno familiare. Attraverso tali approcci ho così potuto trarre
gli elementi per comporre una sorta di mosaico della famiglia dal quale emerge
un’immagine che si fa sempre più complessa col passare del tempo e l’evolversi della
struttura sociale. Non a caso, i sociologi non sono ancora giunti ad una definizione
completa e precisa di cosa sia la famiglia.
Accanto all’aspetto più prettamente sociologico ho inserito un breve excursus
sull’evoluzione della famiglia nucleare, la quale ha subito radicali mutamenti a causa
dei quali ha perso via via la propria importanza, per lasciar spazio ad altre tipologie di
forme familiari. Per comprendere le diverse modalità con cui gli uomini e le donne
hanno organizzato la propria esistenza e riproduzione dall’industrializzazione ad oggi,
ho adottato una prospettiva storica e considerato caratteristiche quali le dimensioni
della struttura familiare, la distribuzione del potere e dell’autorità tra i sessi e i
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rapporti intergenerazionali. Successivamente ho considerato le disfunzioni e le
patologie che caratterizzano alcune famiglie odierne, le cosiddette famiglie
“multiproblematiche”, cercando di comprendere le cause che ne producono fragilità e
disagio, nonché le risorse sociali formali ed informali a cui esse possono ricorrere per
superare i momenti di crisi e di difficoltà. Sempre in questo contesto ho analizzato
anche le caratteristiche generali dell’ambiente in cui queste famiglie si trovano a
vivere e i conseguenti fenomeni di deprivazione e di esclusione sociale, connessi a
specifiche tipologie di insediamento industriale e a particolari politiche abitative.
Infine mi sono soffermata sulla descrizione delle principali politiche attuate dalle
istituzioni pubbliche per fronteggiare il disagio familiare, esaminando in particolare le
politiche regionali e locali di assistenza alle famiglie in difficoltà e facendo
riferimento alla legislazione vigente.
Nel secondo capitolo, in conseguenza dell’importanza affettiva e simbolica che
i figli vengono ad assumere all’interno del nucleo familiare, ho ritenuto in primo
luogo interessante considerare i rapporti generazionali e le trasformazioni che hanno
subito nel corso degli anni le relazioni genitori-figli, venendo a modificare non solo
l’esperienza dell’essere figli, ma anche quella dell’essere genitori. In secondo luogo,
considerando l’importanza del ruolo rivestito dalla famiglia per garantire al minore
una crescita sana ed equilibrata, mi sono soffermata sulle situazioni familiari difficili,
in cui il minore trova, anziché un sostegno allo sviluppo della personalità,
incomprensioni, trascuratezze e addirittura maltrattamenti. Ho analizzato le relazioni
all’interno di questo contesto familiare problematico, per cercare di comprenderne le
cause ed eventualmente capire come si possa intervenire per sollecitare un
cambiamento e per offrire maggiore tutela ai minori e alle loro famiglie. Infine, ho
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ritenuto interessante prendere in considerazione le politiche sociali, attuate nel corso
degli anni per sostenere le famiglie in difficoltà nello svolgere i propri compiti
genitoriali e per contrastare i “rischi” cui può andare incontro il minore che cresce in
un ambiente non adeguato. Mi sono soffermata in particolare sul ricovero in istituto e
sulle nuove forme di intervento, quali l’adozione e l’affidamento familiare, che si sono
sviluppate in seguito ad un maggiore riconoscimento dei bisogni e dei diritti del
minore a crescere e ad essere educato nella propria famiglia, o nel caso in cui non
fosse possibile, in un nucleo familiare sostitutivo.
Nel terzo capitolo, prima di affrontare in modo dettagliato la tematica
dell’affidamento familiare, ho ritenuto opportuno soffermarmi sui bisogni del minore,
al fine di comprendere quali siano e come sia possibile soddisfarli. Solo attraverso un
adeguato riconoscimento dei bisogni essenziali e dei diritti del minore si può
intervenire per garantire a quest’ultimo una crescita serena e possibilmente nel nucleo
familiare originario, cercando di creare le condizioni necessarie perché ogni famiglia
possa occuparsi del proprio figlio. Successivamente ho considerato cosa avviene nel
caso in cui il minore debba essere collocato in una famiglia “sostitutiva”, a fronte
della constatata incapacità della famiglia naturale ad adempiere ai propri compiti
educativi. Ho voluto sottolineare in primo luogo l’importanza che viene a rivestire
l’affidamento familiare nei programmi di tutela dei minori allontanati dalla propria
famiglia. In secondo luogo ho messo in evidenza la complessità di tale strumento, per
la cui realizzazione è necessario elaborare un progetto chiaro e specifico, articolato in
interventi ben integrati e coordinati tra loro, in modo da raggiungere l’obiettivo del
recupero delle capacità familiari, al fine di creare le condizioni necessarie per il rientro
del minore nella propria famiglia. Ho approfondito poi alcuni aspetti concreti
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dell’affidamento: in primo luogo i rapporti tra la famiglia affidataria e la famiglia
d’origine, i quali, se poco collaborativi o conflittuali, ne possono compromettere la
buona riuscita. In secondo luogo gli affidamenti “specialistici” di adolescenti difficili,
per i quali, non trovandosi famiglie disponibili ad accoglierli, l’unica soluzione
possibile è l’inserimento in comunità, dove rimangono fino al compimento della
maggiore età, oltrepassata la quale non è previsto alcun tipo di sostegno. Per
comprendere meglio l’esito dell’affidamento e i motivi per i quali a volte si conclude
negativamente, ho considerato poi gli effetti negativi che può produrre il prolungato
ricovero in istituto del minore e soprattutto il “come” e il “quando” è avvenuto il
distacco dai genitori naturali.
Dopo aver analizzato vari aspetti dell’affidamento dal punto di vista sociale,
come strumento di intervento nelle situazioni di disagio familiare, mi sono soffermata
sull’aspetto giuridico di tale istituto, ossia la legge n. 184 del 4 maggio 1983,
sottolineandone l’innovazione nel contrastare l’istituzionalizzazione e nel riconoscere
il preminente interesse del minore a crescere in un ambiente idoneo a soddisfare le sue
esigenze affettive e materiali. Ho inoltre messo in luce le proposte di modifica alla
legge, dovute alle difficoltà incontrate nell’applicarla in modo omogeneo su tutto il
territorio nazionale. Infine, a distanza di molti anni dall’emanazione della legge
184/83 sugli affidamenti, ho ritenuto interessante considerare i dati a livello nazionale
e regionale per fare un confronto tra quanto ci si aspettava di realizzare con tale
normativa e quanto è stato realizzato.
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C A P I T O L O P R I M O
I MUTAMENTI NELLA STRUTTURA FAMILIARE E NELLE
RELATIVE POLITICHE SOCIALI
1.1 PROBLEMI DI DEFINIZIONE E ANALISI DEI PRINCIPALI APPROCCI
SOCIOLOGICI ALLA FAMIGLIA.
1.2 L’EVOLUZIONE DELLA STRUTTURA FAMILIARE
DALL’INDUSTRIALIZZAZIONE AD OGGI.
1.3 LA FAMIGLIA MULTIPROBLEMATICA.
1.3.1 IL TERRITORIO COME CAUSA DI DISAGIO. PROBLEMI
DI ABITAZIONE E DI FAMIGLIA.
1.4 I RIMEDI AL DISAGIO FAMILIARE: I SERVIZI SOCIALI E LE
NORMATIVE NAZIONALI E REGIONALI.
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1.1 Problemi di definizione e analisi dei principali approcci sociologici alla
famiglia.
Nel linguaggio quotidiano il termine “famiglia” evoca una serie di situazioni
che hanno a che fare con la spontaneità, la naturalezza e la riconoscibilità, senza
bisogno di mediazioni. Poiché la famiglia è associata agli eventi apparentemente più
naturali dell’esistenza e dell’esperienza individuale, come la nascita, la morte e la
procreazione, sembrerebbe quindi facile darne una definizione semplice e precisa. In
realtà non è così, poiché la famiglia racchiude in sé una varietà e una complessità di
esperienze e di situazioni di ordine sociale, oltre che morale e personale. Un’ulteriore
difficoltà nel fornire una definizione univoca è data dal fatto che la famiglia ha subito
un’evoluzione sociale e strutturale, che affonda le proprie radici nelle origini delle
prime società umane, che merita una particolare attenzione.
In questa prima parte del mio studio, utilizzando le principali teorie sociologiche
via via avanzate per spiegare il fenomeno sociale della famiglia, procederò ad
illustrare la complessità delle relazioni e dei ruoli familiari; operazione non semplice,
a causa della difficoltà di cogliere i confini all’interno dei quali sono organizzate le
relazioni familiari.
Nel corso delle diverse epoche storiche i sociologi hanno osservato l’evoluzione
della struttura familiare descrivendone le caratteristiche in alcune teorie che, di volta
in volta, hanno apportato un nuovo tassello al mosaico del concetto di “famiglia”,
senza tuttavia giungere ad una sua completa e precisa definizione.
Possiamo dunque distinguere gli approcci sociologici tradizionali, frutto di teorie
precedenti e di sviluppi personali, da quelli di recente elaborazione. Nel primo gruppo
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si annoverano l’approccio istituzionale, l’approccio struttural-funzionalista,
l’approccio dello scambio, quello marxista, quello interazionista e quello dello
sviluppo, mentre fra gli approcci più recenti troviamo quello neo-funzionalista a
carattere sistemico-comunicazionale. Esiste poi un approccio di tipo relazionale che,
partendo dal presupposto secondo cui la struttura familiare non muta linearmente
poiché si adatta al contesto in cui vive, arriva a sostenere che la famiglia si configura
come relazione sociale piena e come sistema vivente, fondamentale per la
strutturazione dell’individuo come persona (Donati e Di Nicola 1989, pag. 13). Il
riferimento qui, è anche a Marcel Mauss, che considerava la famiglia “un fatto sociale
totale”, cioè un sistema non chiuso in se stesso, ma aperto e formato da rapporti tra
coniugi, parenti e affini. Una struttura che coinvolga tutte le dimensioni dell’esistenza,
da quella biologica a quelle sociale, culturale, religiosa, politica ed economica non è
passiva ma
nemmeno autonoma (Boudon e
Bourricaud 1986, pag. 201; Saraceno 1996,
pag. 14).
Malgrado questa varietà di approcci e teorie, nel campo delle scienze sociali è
comunque acquisita la generalizzazione secondo cui la famiglia è un’unità basilare
dell’organizzazione sociale, presente in tutte le società umane. Non a caso infatti
antropologi e sociologi ritengono che questa si sia sempre definita come l’ambito
fondamentale della riproduzione biologica, culturale e sociale di tutti i gruppi sociali.
Questo perché la riproduzione umana, contrariamente a quella animale, prevede,
oltre alla trasmissione della vita biologica, la socializzazione culturale dei nuovi nati
da parte delle persone che li circondano, tramite la quale il bambino potrà sviluppare
relazioni di identificazione. Ciononostante, la struttura familiare non può essere
spiegata solo da ragioni naturali come la procreazione, l’istinto materno o i sentimenti
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psicologici che intercorrono tra genitori e figli e tra uomo e donna, e questo per un
motivo abbastanza semplice. Il requisito fondamentale per la costituzione di una
famiglia è l’esistenza di altre due famiglie, l’una che offra l’uomo e l’altra che offra la
donna: questi due individui con il loro matrimonio daranno, infatti, origine ad una
terza famiglia. In questo modo l’organizzazione familiare si trasforma in un tramite di
diffusione della cultura, visto che ciascun matrimonio unisce due persone socializzate
in modo diverso, e quindi con una propria tradizione culturale (Lévi Strauss 1974,
pag. 69).
L’ipotesi avanzata nell’Ottocento circa l’esistenza di una stato primordiale
dell’umanità che si caratterizzerebbe solo per la promiscuità sessuale o il matrimonio
di gruppo, è stata respinta dalla ricerca socio-antropologica poiché il tabù dell’incesto,
che impone ai parenti stretti di non avere rapporti sessuali tra loro e li spinge a
contrarre matrimonio al di fuori della famiglia di provenienza, è stato riconosciuto
come norma universale. Pertanto, è possibile affermare che l’organizzazione sociale
ha avuto inizio solo con la proibizione dell’incesto, attraverso la quale sono state
stabilite regole e obblighi precisi per l’accoppiamento e la riproduzione.
Ma allora, cosa si intende per famiglia ? Nel linguaggio comune, ad esempio, il
termine indica tanto una coppia di coniugi con gli eventuali figli, quanto gli individui
che hanno rapporti di parentela con questi, pur non vivendo con loro (Barbagli 1993,
pag. 767). Tuttavia, pur rappresentando una realtà immediata perché legata a relazioni
sperimentate quotidianamente da molti soggetti, il concetto di famiglia copre una
varietà molto vasta di esperienze.
Per esempio, nel lessico colloquiale, due soggetti che diano vita ad una famiglia,
possono riferirsi contemporaneamente a più famiglie, alle quali appartengono
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congiuntamente o separatamente, definendo così ulteriori confini e separazioni, ma
anche appartenenze ed incroci (Saraceno 1996, pag.7).
Di qui la difficoltà nel rintracciare una definizione univoca e precisa della
famiglia. Georges Murdock ha riscosso ampi consensi con una definizione che è
tuttavia ampia e generica, e secondo la quale “la famiglia è un gruppo sociale
caratterizzato dalla residenza comune, dalla cooperazione economica e dalla
riproduzione. Essa comprende adulti di ambo i sessi, almeno due dei quali
mantengono una relazione sessuale socialmente approvata, e con uno o più figli,
propri o adottati, generati dagli adulti che coabitano sessualmente” (Barbagli 1993,
pag. 767).
Secondo C. Lévi-Strauss, invece, la parola famiglia designa “un gruppo sociale
dotato di almeno tre caratteristiche: 1) trova origine nel matrimonio, 2) è composto dal
marito, dalla moglie e dai figli nati dalla loro unione, anche se possiamo ammettere
che altri parenti si integrino in questo nucleo essenziale, 3) i membri della famiglia
sono collegati tra loro da: a) vincoli legali, b) vincoli economici, religiosi, e altri
generi di diritti e doveri, c) una precisa rete di diritti e divieti sessuali, e un insieme
variabile e differenziato di sentimenti psicologici come l’amore, l’affetto, il rispetto e
il timore” (Donati 1987, pag. 849).
Le definizioni di famiglia, fin qui illustrate, poco specifiche e oltre modo
generalizzate, hanno comunque il pregio di mettere in evidenza i tratti salienti che
caratterizzano il sistema familiare, quali la conformità alle norme sociali e alle
obbligazioni economiche e religiose, nonché altre forme di diritti e proibizioni
sessuali approvate e riconosciute legittimi dalla società. Lasciano tuttavia irrisolta la
questione della definizione concreta delle funzioni e delle strutture che caratterizzano
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la famiglia all’interno di ciascuna formazione sociale. Questa difficoltà è dovuta al
fatto che tale concetto intende cogliere aspetti e dimensioni di una realtà complessa,
composta da soggetti in relazione tra loro: per questo motivo si afferma che la
famiglia vanta una sostanza sociale. Ma tale socialità non si compone solo di
immagini positive, quali quelle della famiglia-rifugio e di luogo dell’affettività, ma
anche di figure negative quali le famiglie oppressive, violente ed egoiste.
Inoltre, superando le teorie evoluzionistiche dell’Ottocento, che avevano ridotto la
famiglia ad una semplice coppia, legata dall’amore sessuale individuale, gli attuali
studi di storia sociale sostengono che la famiglia abbia subito profonde trasformazioni
e evoluzioni non lineari ma incostanti nel tempo, tanto da rendere difficoltoso il
ricostruirne una vicenda unitaria. In questo senso, lo studio della vasta gamma di
forme familiari esistenti consente di comprendere il significato che un gruppo sociale
attribuisce al proprio esistere nel mondo, nel tempo e nello spazio.
Proseguendo nell’analisi della struttura familiare, si nota che le esperienze
acquisite in quest’ambito differenziano non solo le culture e i gruppi ma anche i sessi
e le generazioni. E’ all’interno della struttura familiare che si attua la divisione del
lavoro, delle competenze e degli spazi occupati da uomini e donne come pure dai figli
che, con la nascita, la crescita e l’allontanamento, ridefiniscono continuamente la
struttura della famiglia, modificandone i confini.
Di conseguenza, la famiglia è qualcosa di più della semplice somma di
individui che la compongono: ha una struttura, una gerarchia di autorità e di
responsabilità proprie, nonché di comportamento e modelli di relazione che persistono
nel tempo.
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Vista la molteplicità delle esperienze e dei significati, insiti in ciò che
chiamiamo famiglia al fine di comprendere meglio questo fenomeno, è allora
necessario assumere una prospettiva storico-sociale che prenda in considerazione
approcci di analisi multidimensionali.
La prospettiva storica può risultare utile per collocare la famiglia nel tempo e
nello spazio e per comprendere le relazioni e le interdipendenze con la società in cui è
situata. In tale contesto il tempo può essere inteso come il tempo della vita, dei cicli di
vita familiari e individuali, poiché la famiglia ha una propria storia interna che
trasforma i rapporti tra i sessi e le generazioni, e i rapporti e gli scambi tra l’ambito
familiare stesso e la società.
Come si è già accennato precedentemente, nel corso degli anni sono state
elaborate numerose teorie e metodologie per l’analisi della famiglia.
In un primo tempo si esamineranno gli approcci cosiddetti classici,
evidenziando sia il contributo che hanno apportato sia i punti critici:
1) istituzionale;
2) struttural-funzionalista;
3) dello scambio;
4) marxista;
5) interazionista;
6) dello sviluppo.
7) successivamente si considererà la tendenza più recente, ossia l’approccio neo-
funzionalista a carattere sistemico-comunicazionale (Donati e Di Nicola 1989).
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1) L’approccio istituzionale considera la famiglia come un’istituzione sociale,
storica, che corrisponde a bisogni umani fondamentali e racchiude in sé i valori
culturali centrali di una società.
In questo contesto l’opera di Le Play, risalente alla metà dell’Ottocento,
costituisce il primo esempio di ricerca diretta sul campo sulle forme familiari, svolta
per mezzo dello studio dei bilanci di entrata e di spesa, al fine di esplicitare i legami
tra le istituzioni familiari e le strutture generali della società. Le Play dimostra infatti
che a un certo regime di proprietà corrisponde una determinata organizzazione
familiare, arrivando così ad elaborare la seguente tipologia di forme familiari presenti
nell’Europa del secolo scorso:
ξ la famiglia patriarcale, cioè estesa e legata alla proprietà comune indivisibile;
ξ la famiglia instabile, nucleare, prodotta dalla moderna società industriale,
mercantile e urbana, legata al regime di proprietà individuale con la divisione
dei beni al momento della successione;
ξ la famiglia ceppo, costituita dalla famiglia di orientamento che rimane nella
propria terra o nella propria abitazione con un figlio e la relativa famiglia di
procreazione, cui trasmette tutto il patrimonio, mentre gli altri figli si
trasferiscono nei centri urbani con le proprie famiglie, pur mantenendo contatti
molto stretti con la famiglia d’origine.
In effetti, secondo l’approccio istituzionale, la famiglia viene considerata come
una cellula che riproduce la struttura fondamentale della società, ma è altresì definita
come un’entità sviluppatasi con l’evoluzione della specie umana (visione
evoluzionistica).
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È quindi evidente come, per questo tipo di approccio, la struttura familiare sia
un organismo culturale vivente che si evolve per adattamento e allo stesso tempo sia
un’istituzione societaria, in quanto ogni società stabilisce regole precise, con sanzioni
positive e negative, attraverso cui controlla la riproduzione e la socializzazione delle
nuove generazioni.
Gli esponenti di quest’approccio ritengono che la famiglia debba essere
spiegata in termini storico-comparativi, e in questo senso sono importantissimi gli
studi condotti da Durkheim, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, sulla
“legge di contrazione progressiva” della famiglia a partire dalle società primitive fino
alle società industriali. Secondo tale processo si assisterebbe, nel corso della storia, ad
un’incessante perdita di funzioni da parte della famiglia, dal clan-tribù fino ad arrivare
alla moderna famiglia coniugale. Oggi tale legge non è più condivisa, sulla base di
studi come quelli svolti negli anni Sessanta da Lévi-Strauss, che ha concluso che la
famiglia nucleare è presente sia nelle società semplici che in quelle complesse, mentre
nelle società a complessità intermedia si rintracciano strutture diverse e maggiormente
elaborate, quali le famiglie associate o estese, costituite da più unità coniugali e da
servi o lavoratori manuali (Lévi-Strauss 1967, pp. 161-168). Un altro studioso,
l’antropologo e sociologo americano G. Murdock (1971) sostiene, in base ad una
ricerca condotta negli anni Settanta su 250 culture societarie, che la famiglia nucleare
sia la forma universale di convivenza familiare, caratterizzata dalla residenza comune,
dalla cooperazione e dalla riproduzione e che una società, per essere tale e per poter
sopravvivere, non può fare a meno della famiglia nucleare.
Altra caratteristica di questo approccio è la considerazione dei cambiamenti
storici nelle strutture dell’organizzazione familiare come trasformazioni secondarie,
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nel senso che esse non sono in grado di modificare il carattere multifunzionale della
famiglia. In ogni società questa deve assolvere inevitabilmente a compiti specifici:
riproduttivi, di socializzazione, affettivi, religiosi e di cooperazione economica, che ci
impediscono di considerarla come un gruppo sociale esclusivamente con funzioni
limitate. Malgrado ciò, e nonostante le continue interrelazioni con il sistema
societario, la famiglia sembra essere considerata come un sistema chiuso, nel senso di
auto-sufficienza (caratteristica propria della famiglia agricola isolata in società
feudali), oppure nel senso di auto-normatività, cioè in grado di generare da sé le
proprie strutture di relazione.
Nella prima metà del Novecento, Zimmerman ha affermato che nel lungo
periodo si scopre una relativa stabilità dell’organizzazione familiare, turbata solo da
rivoluzioni sociali, e solo negli aspetti più superficiali. Tale concetto deriva
innanzitutto dal considerare la famiglia come parte di un processo di
istituzionalizzazione sociale, cioè di costruzione e trasmissione di un sistema fatto di
regole e di valori volti a controllare i comportamenti umani e a mantenere l’ordine
socialmente legittimato. In secondo luogo, se si verificano cambiamenti nelle strutture
familiari, sono dovuti a fenomeni ciclici, durante i quali la famiglia può, a seconda
delle epoche storiche o delle condizioni ambientali, ridursi, allargarsi, perdere certe
funzioni e acquistarne altre.
Nonostante l’approccio istituzionale rimanga importante ai fini dell’analisi della
famiglia, sono stati messi in risalto alcuni suoi limiti, che possono essere così
sintetizzati:
ξ l’analisi istituzionale fa riferimento in particolare alle società primitive e
tradizionali in cui la famiglia era il nucleo basilare della sussistenza e della