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inizi del secolo, fino all’impresa virtuale della fine del secolo, composta solo di
intelligenza e di relazioni, estesa su scala globale.
I motori del cambiamento appena individuati stanno pertanto spingendo individui
e soprattutto imprese a ridefinire i propri assetti e modelli di gestione.
Si assiste ad una progressiva erosione del valore delle tradizionali risorse
produttive, rivelatesi non più capaci di sostenere un vantaggio competitivo
duraturo. Proprio per questo, l’interesse degli studi più recenti si è spostato sulla
centralità della conoscenza come risorsa principale per le organizzazioni, unica
fonte di vantaggi competitivi stabili e sostenibili, sulla sua creazione e diffusione
all’interno e fra imprese diverse. Le organizzazioni vanno dunque alla ricerca
delle migliori conoscenze in loro possesso e perseguono politiche di opportuna
gestione per non rischiare di perderle o di non sfruttarle completamente.
Questo non significa che nel passato non vi fosse conoscenza nelle imprese ma
piuttosto che la sua gestione avveniva in maniera inconsapevole e senza
considerare adeguatamente l’importanza della relazione tra conoscenza e valore
per l’azienda.
Questo lavoro ha come tema di discussione il Knowledge Management1 ossia la
disciplina incentrata sulla gestione dell’asset più importante delle moderne
organizzazioni: la conoscenza, intesa come attività capace di generare valore per
le imprese.
Il KM mira a catturare, organizzare, classificare e distribuire le informazioni
aziendali in modo funzionale rispetto ad obiettivi comuni.
Esso rappresenta un approccio gestionale sempre più diffuso nella pratica
manageriale in quanto consente di gestire il flusso di informazioni, sempre più
numeroso e articolato, di cui ci si avvale per le decisioni aziendali.
L’esplosione delle nuove tecnologie produce miliardi di byte in tutto il mondo e
permette il reperimento e la conservazione di dati e informazioni, ma è il
1
Da questo momento in poi il termine Knowledge Management verrà spesso abbreviato con la
sigla KM.
7
Knowledge Management che deve catalogarli e renderli sempre disponibili in
modo rapido ed efficiente.
Dal punto di vista pratico la tesi è strutturata in tre capitoli: due teorici ed uno
incentrato sul caso aziendale, infine si propongono alcune valutazioni conclusive.
Nel primo capitolo si tenta di dare un’ampia visione d’insieme del concetto di
conoscenza in modo da avere un solido quadro di riferimento nella comprensione
del KM, che poggia sull’interpretazione che si dà al termine. Si ripercorre
l’evoluzione che la conoscenza ha compiuto nella storia del pensiero umano. Oltre
ad alcune definizioni del concetto, vengono descritte le principali concezioni
filosofiche attraverso il pensiero di Nicola Abbagnano. L’autore sottolinea la
centralità del rapporto tra soggetto e oggetto, riconducendolo a due grandi
paradigmi teorici: il primo descrive questo rapporto come un’identità debole o
parziale; per il secondo il soggetto rende presente l’oggetto come tale o stabilisce
le condizioni che rendono possibile la sua presenza.
Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi contrappongono a questa visione
“occidentale” della conoscenza una “orientale” che si fonda sull’unità di elementi
come il soggetto e l’oggetto considerati inscindibili.
Successivamente si presenta una rassegna delle principali teorie economiche,
manageriali e organizzative elaborate in letteratura. L’analisi delinea
un’evoluzione delle teorie che attribuiscono sempre più importanza alla
conoscenza fino ad arrivare a metterla al centro dell’intero sistema organizzativo e
aziendale.
All’interno dello stesso capitolo si approfondiscono i concetti di dato,
informazione e conoscenza e si evidenziano i fattori coinvolti nel processo di
trasformazione dei dati in informazione e delle informazioni in conoscenza.
Nel secondo capitolo si descrivono i processi di creazione, codificazione e
gestione della conoscenza. Dapprima si presenta una classificazione del concetto
di conoscenza in base a due dimensioni (epistemologica ed ontologica),
individuate da Nonaka e Takeuchi, sulle quali si sviluppa il processo di creazione
della conoscenza. Successivamente si definisce il mercato della conoscenza come
8
un qualunque altro mercato di beni tangibili, con i propri soggetti e un proprio
sistema di prezzi. Thomas H. Davenport e Laurence Prusak ritengono che sia
necessario creare questo mercato all’interno delle organizzazioni al fine di
facilitare lo scambio e il trasferimento di conoscenza.
Il corpo centrale del capitolo è incentrato sugli approcci di creazione e sviluppo
della conoscenza. Il primo ad essere analizzato è quello di Davenport e Prusak.
Gli autori ritengono che, affinché le attività di KM abbiano successo, le
organizzazioni debbano creare una serie di ruoli e competenze con l’obiettivo di
reperire, distribuire ed utilizzare conoscenza. Il secondo approccio si sofferma
sugli studi orientali di Nonaka e Takeuchi che hanno sviluppato un processo di
creazione e gestione della conoscenza grazie all’interazione ad ogni livello
aziendale delle due forme di sapere (tacito ed esplicito). Il terzo approccio
analizzato si basa sul lavoro di Thomas A. Stewart. L’autore definisce la
conoscenza come un vero e proprio capitale intellettuale da gestire e valorizzare e
descrive la struttura organizzativa e i ruoli che sono necessari nell’era della
conoscenza.
Il capitolo si conclude con la descrizione degli strumenti utilizzati per la gestione
della conoscenza all’interno delle organizzazioni, in particolare quelle fondate su
strumenti tecnologici e quelle fondamentali per la gestione del sapere tacito (le
comunità di pratiche e l’apprendimento organizzativo).
Il terzo capitolo è dedicato alla presentazione del caso Fater S.p.A., azienda leader
in Italia nella produzione e commercializzazione dei prodotti assorbenti e igienici
per la cura della persona.
L’azienda a partire dal 2002 ha investito in un progetto di Knowledge
Management incentrato sulla realizzazione di un portale aziendale.
Dopo la presentazione della storia e del profilo aziendale, si sono dapprima
analizzate le caratteristiche dell’approccio al Knowledge Management sviluppato
da Fater; successivamente si sono descritte, attraverso le risposte date in
un’intervista dal Responsabile dell’Area Organizzazione Fater, gli obiettivi, gli
strumenti e le tecnologie utilizzate nel progetto e quali le figure aziendali
fondamentali per esso.
9
Capitolo primo
LA CONOSCENZA
1.1.Premessa
Ai fini di una migliore comprensione del perché la conoscenza e la sua gestione
siano così importanti per le organizzazioni, sembra interessante ripercorrere
brevemente l’evoluzione che il concetto di conoscenza ha compiuto nella storia
del pensiero umano. Dal modo di concepite la conoscenza discende inoltre la
differenziazione dei modelli di Knowledge Management, che saranno oggetto del
presente lavoro.
Il dibattito e l’analisi del concetto di conoscenza hanno radici precedenti alla sua
applicazione in ambito economico, manageriale e organizzativo.
Vi sono svariate definizioni del termine conoscenza. Ricorrendo ad alcune di esse
e in particolare a quella data da Abbagnano (1961) e al pensiero di Nonaka e
Takeuchi (1997) saranno descritte le principali concezioni di carattere filosofico
della conoscenza e le successive interpretazioni elaborate all’interno delle teorie
economiche, manageriali ed organizzative.
1.2.Breve storia del concetto di conoscenza
Che cosa s’intende con il termine conoscenza? Di seguito vengono riportate
alcune definizioni.
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Secondo Sorge (2000, p. 5) la conoscenza è “un insieme di informazioni tra loro
correlate che può essere acquisito sul piano logico e dell’esperienza”.
Quagli (1995, p. 67) la definisce come “sistema di informazioni”, apprese e
distribuite in azienda secondo diverse modalità e correlate tra loro da nessi
funzionali. La conoscenza consente, dunque, agli operatori di interpretare le
diverse situazioni ambientali esterne e interne e di rispondere in modo adeguato
alle condizioni di economicità della combinazione produttiva e di orientare di
conseguenza i giudizi di convenienza.
La definizione data da Davenport e Prusak (2000, p. 6), esplicitamente operativa e
pragmatica, evidenzia il loro punto di vista sulla conoscenza all’interno delle
organizzazioni di impresa: “la conoscenza è una combinazione fluida di
esperienza, valori, informazioni contestuali e competenza specialistica che
fornisce un quadro di riferimento per la valutazione e l’assimilazione di nuova
esperienza e nuove informazioni. Essa origina e viene applicata attraverso i
conoscitori. Nelle organizzazioni la conoscenza risulta legata non solo ai
documenti, ma anche alle procedure e ai processi organizzativi, alle pratiche e alle
norme”.
Volendo ora analizzare sotto un aspetto più filosofico il termine conoscenza,
dobbiamo ricordare che la sua ricerca filosofica, detta gnoseologia o
epistemologia, ha origine sin dal fiorire della Grecia classica.
Secondo la definizione proposta da Abbagnano (1961, p. 150) la conoscenza è “in
generale, una tecnica per l’accertamento di un oggetto qualsiasi, o la disponibilità
o il possesso di una tecnica siffatta. Per tecnica di accertamento va intesa una
qualsiasi procedura che renda possibile la descrizione, il calcolo o la previsione
controllabile di un oggetto; e per oggetto va intesa qualsiasi entità, fatto, cosa,
realtà o proprietà , che possa essere sottoposta ad una tale procedura”.
Da questa definizione emergono due punti fondamentali:
la conoscenza è una tecnica;
esiste un oggetto da indagare.
Il primo punto evidenzia la differenza tra questa specifica operazione della
conoscenza come procedura di accertamento o partecipazione possibile ad una
11
tale procedura e la semplice credenza che consiste infatti in un impegno alla verità
di una nozione qualsiasi, anche non accertabile. In questo ambito, il fondamento
riconosciuto della verità è spesso l’autorevolezza della fonte.
La conoscenza è anche definibile in rapporto ai risultati che essa dà o che cerca di
ottenere. Il suo scopo ultimo, infatti, è una previsione, un’anticipazione dei fatti,
che richiama inevitabilmente i concetti di controllabilità delle procedure di
accertamento e della ripetibilità delle loro applicazioni. In questo modo è
garantita l’oggettività e l’impersonalità della conoscenza.
Il secondo punto evidenzia che c’è sempre un oggetto da indagare che si
contrappone ad un soggetto, ontologicamente diversi tra loro, e che è proprio da
questa diversità che nasce la relazione conoscitiva.
Questi concetti teorici sono stati successivamente oggetto di approfonditi e
numerosi studi. In particolare, nell’ambito dello studio filosofico occidentale,
Nonaka e Takeuchi (1997, p. 52) individuano due principali orientamenti di
pensiero:
il razionalismo, secondo cui la conoscenza deriva da un processo ideativo
interno alla mente;
l’empirismo che considera la conoscenza come una derivazione
dell’esperienza sensibile.
Queste due teorie dominanti differiscono, non solo nel modo di intendere l’origine
effettiva della conoscenza, ma anche nel metodo attraverso il quale la conoscenza
viene raggiunta:
il razionalismo afferma la possibilità di acquisire conoscenza per via
deduttiva richiamandosi a costrutti mentali, concetti, leggi e teorie;
l’empirismo sostiene l’acquisizione della conoscenza per via induttiva
attraverso specifiche esperienze sensibili.
Anche Abbagnano (1961, p. 151) sottolinea la centralità del rapporto
problematico tra il soggetto e l’oggetto e riconduce le diverse interpretazioni nella
storia del pensiero filosofico a due grandi paradigmi teorici.
12
Le interpretazioni del primo paradigma descrivono questo rapporto come
un’identità o simiglianza (intendendo per simiglianza un’identità debole o
parziale) e l’operazione conoscitiva come una procedura di identificazione con
l’oggetto o di riproduzione dello stesso.
Fu Platone il primo a cercare di costruire una teoria della conoscenza in una
prospettiva razionalistica. La sua gnoseologia, infatti “rappresenta una forma di
innatismo, in quanto ritiene che la conoscenza non derivi dall’esperienza sensibile
(che funge soltanto da meccanismo sollecitatore del ricordo) bensì da metri di
giudizio preesistenti e connaturati con il nostro intelletto” (in Abbagnano, Foriero,
1992, p. 132). Per Platone conoscere significa stabilire con l’oggetto un rapporto
d’identità o che si avvicini quanto più possibile all’identità, significa “rendere
simile il pensante al pensato” (in Abbagnano, 1961, p. 151), attraverso una
progressiva ascesa dei diversi gradi di realtà dell’essere, cui corrispondono i
diversi livelli della conoscenza. Di conseguenza, Platone (in Abbagnano, Foriero,
1992, pp. 166-167) all’essere fa corrispondere la scienza (la conoscenza vera); al
non-essere l’ignoranza; al divenire l’opinione (doxa). Quest’ ultima, a sua volta,
si divide in due gradi: l’ immaginazione e la credenza; la conoscenza razionale
(episteme) si suddivide, invece, in dianoia (ragione discorsiva o matematica) e in
noesis (intelligenza filosofica che ha per oggetto le idee-valori).
Aristotele rafforza ancora di più la posizione di Platone, in quanto ritiene che la
conoscenza in atto è identica all’oggetto conosciuto. Si tratta di conoscenza
sensibile quando è la stessa forma sensibile dell’oggetto, di conoscenza
intelligibile quando è la stessa forma intelligibile dell’oggetto. La facoltà sensibile
e l’intelletto potenziale sono semplici possibilità di conoscere che, quando si
realizzano, si identificano con i relativi oggetti grazie rispettivamente all’azione
delle cose esterne o all’azione dell’intelletto attivo (in Abbagnano, 1961, p. 151).
A partire dall’ètà moderna e in particolare con Cartesio e la sua razionale
scissione mente-corpo, viene messa in crisi la dottrina del conoscere come
identificazione con l’oggetto, in quanto la si considera irraggiungibile. Per
Cartesio ogni credenza può essere messa in discussione tranne l’esistenza del
soggetto pensante, dal quale può essere dedotta la verità ultima (in Nonaka,
Takeuchi, 1997, p. 55).
13
Il razionalismo di Cartesio fu sottoposto a critica da parte di Locke, il maggiore
esponente dell’empirismo inglese, che definisce la conoscenza come “la
percezione dell’accordo e del legame o del disaccordo e del contrasto delle idee
tra di loro” (in Abbagnano, 1961, p. 154), che esige, affinché essa sia reale, che
esista una conformità tra le idee dell’uomo e la realtà delle cose. Questa
conformità risulta possibile solo attraverso la mediazione dell’esperienza
empirica.
Il caso limite di corrispondenza tra l’ordine oggettivo e soggettivo è quello
dell’idealismo trascendentale kantiano. Con la sua “rivoluzione copernicana”,
infatti, Kant ribalta l’impostazione tradizionale ponendo l’ordine oggettivo della
natura come dipendente dalla struttura soggettivo-trascendentale del pensiero. La
conoscenza opera qui non più in una prospettiva di assimilazione con l’oggetto ma
di sintesi soggettiva, ossia di riunificazione a priori delle rappresentazioni
intuitive (in Abbagnano, 1961, p. 154).
Tramite l’intuizione, la conoscenza, pur rimanendo nella relazione di
corrispondenza oggetto-soggetto si apre la strada verso il puro presentarsi o
manifestarsi dell’oggetto al soggetto. Da questa posizione intermedia, si passa ad
un nuovo paradigma teorico, quello della trascendenza.
Il secondo gruppo di interpretazioni considera i procedimenti del conoscere come
un operare del soggetto che mira a riferirsi o rapportarsi direttamente con
l’oggetto, in una sorta di immediatezza originaria, in cui la cosa si manifesta da
sé, si offre in prima persona nell’intuizione.
Non si tratta più dunque, da parte del soggetto, di identificarsi con l’oggetto, ma
di rendere presente questo oggetto come tale o stabilire le condizioni che rendono
possibile la sua presenza, cioè consentono di prevederla (Abbagnano, 1961, p.
155).
Questa interpretazione compare per la prima volta negli Stoici, per i quali
l’evidenza ha un ruolo centrale: essi, chiamano evidenti le cose che vengono da
sole alla nostra conoscenza, come per esempio, il fatto che è giorno (Sesto
Empirico, 1988), mentre chiamano oscure quelle che sfuggono solitamente alla
nostra conoscenza umana.
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Il concetto di trascendenza è centrale nella fenomenologia, la corrente filosofica
che si basa sulla consapevolezza umana di sé e degli oggetti. Il filosofo tedesco
Husserl, che ha incentrato la propria indagine sulla questione del rapporto tra
soggetto pensante e mondo, sottolinea il valore dell’esperienza conscia diretta (in
Nonaka, Takeuchi, 1997, p. 57), che è l’atto fondante e non sostituibile di una
conoscenza, anche di quella geometrica e astratta che tratta solo dell’essenza delle
cose esperite, non di esse stesse.
Heidegger utilizza il metodo fenomenologico per parlare di un annullamento del
problema della conoscenza e per analizzare la qualità dell’essere nel mondo
dell’uomo. Secondo il filosofo tedesco “il conoscere è un modo d’essere
dell’essere-nel-mondo” (Heidegger, 1976, par. 13, p. 85), cioè del trascendere del
soggetto verso il mondo, che non è mai soltanto un vedere o un contemplare. Il
conoscere, si realizza, secondo Heidegger nella sospensione del prendersi cura
cioè di quel rapporto specifico che l’Esserci (Dasein, da intendersi come
soggettività trascendentale finita che vive nel mondo) intrattiene con gli oggetti
del mondo nelle attività comuni della vita di ogni giorno come il manipolare, il
commerciare con le cose, ecc. La sospensione di questa quotidiana attività rende
possibile il semplice “osservare” che è di volta in volta il soffermarsi presso un
ente, il cui essere è caratterizzato dal fatto che è presente, che è qui.
Come sottolineano Nonaka e Takeuchi (1997, p. 58) il Dasein umano è
caratterizzato da un rapporto attivo con gli altri esseri del mondo; esso infatti non
è uno spettatore distaccato come il sé pensante di Cartesio, ma un soggetto che
pone in stretta relazione conoscenza e azione.
Riprendendo la visione di Nonaka e Takeuchi (1997, pp. 59-66), lo studio
occidentale sulla conoscenza sarebbe caratterizzato dalla separazione tra soggetto
conoscente e oggetto conosciuto. L’impostazione cartesiana avrebbe creato un
dualismo, che distingue come dimensioni a sé stanti, da una parte il corpo e
l’universo materiale, l’esteriorità, e dall’altra la mente e il pensiero, l’interiorità.
A tali studi si contrappone la concezione orientale. Questa non si basa sulla
separazione tra soggetto ed oggetto, corpo e mente, sé ed altro da sé, bensì
sull’unità di questi elementi considerati inscindibili.
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Questa tradizione intellettuale, infatti, rileva tre aspetti importanti:
la credenza nell’unità dell’umano e del naturale;
la credenza nell’unità del corpo e della mente;
la credenza nell’unità del sé e dell’altro da sé.
In particolare, l’unione tra soggetto ed oggetto deriva da un concetto più ampio
relativo alla credenza dell’unità tra uomo e natura, che non implica la necessità di
oggettivizzare il mondo esterno. Questa unità si esprime, ad esempio, nella
struttura del linguaggio giapponese (che è composto esclusivamente da immagini
“concrete” degli oggetti del mondo fisico), nella concezione giapponese del tempo
(che è inteso come uno scorrere continuo di un presente continuamente
aggiornato, dove non esiste né passato né futuro, ma tutto è centrato sul presente)
e dello spazio (che, come nell’arte tradizionale giapponese, è privo di ombre e
senza una prospettiva predeterminata, in modo da dimostrare l’assenza della
separazione tra soggetto-uomo e oggetto-natura).
In secondo luogo troviamo la non-scissione tra mente e corpo che emerge
essenzialmente nelle credenze orientali che vedono la conoscenza rappresentata
dalla saggezza derivante dall’esperienza personale, e quindi sostengono che
l’essere umano può esprimersi e conoscersi veramente solo con l’azione e non con
la cognizione. Si dà, quindi, importanza all’esperienza diretta e personale della
realtà.
Infine, come conseguenza diretta dei due aspetti sopra citati, vi è l’unione del sé e
dell’altro da sé, intesa come senso della collettività ed organicità insita nel modo
di essere proprio degli orientali. Non esiste una concezione delle relazioni umane
come quella occidentale (atomistica), ma il sé (e quindi la concezione del singolo
individuo) ha senso solo se relazionato ad un gruppo od una comunità: è un
concetto inscindibile. Questo è rilevabile, per esempio, nel linguaggio giapponese
che non prevede coniugazione di verbi perché concepisce il “tu” e “io” come due
parti di un tutto unico.
L’approccio orientale allo studio della conoscenza è il punto delle conclusioni
tratte dalle credenze di fondo derivanti per lo più dalla dottrina buddista e dal
16
confucianesimo. Proprio le influenze di queste concezioni ha fatto sì che ci sia una
accentuata attenzione sulla parte tacita, corporea e soggettiva della conoscenza.
Nell’ambito dello studio filosofico occidentale sulla conoscenza, elementi di
innovazione sono apportati dal contributo di Polanyi (in Nonaka, Takeuchi, 1997,
p. 98).
Questo autore introduce per la prima volta una duplice dimensione della
conoscenza: l’esplicito e l’inespresso o tacito.
Polanyi afferma che gli esseri umani acquisiscono conoscenza attraverso l’azione
e l’interazione con gli oggetti del mondo. La conoscenza è quindi considerata
come un processo attivo di formazione dell’esperienza, processo che poi ne
determinerà definitivamente la configurazione nell’avanzamento della
conoscenza.
L’elemento di innovazione è rappresentato dal fatto che, in precedenza,
l’orientamento filosofico occidentale considerava la conoscenza come ciò che è
esprimibile a livello linguistico e quindi chiaramente distinguibile. L’autore
fornisce anche un contributo nella direzione del superamento della separazione tra
soggetto ed oggetto: secondo Polany, infatti, gli esseri umani, soggetti della
percezione, acquisiscono conoscenza attraverso l’analisi degli oggetti esterni.
Le analisi filosofiche sul concetto di conoscenza danno un importante contributo
anche in campo economico. In un contesto aziendale-organizzativo la
formulazione di teorie concernenti la conoscenza non può prescindere da uno
studio della concezione filosofica.
L’applicazione della conoscenza all’interno delle organizzazioni, infatti, richiede
una comprensione della sua natura, del suo significato e delle possibili fonti di
creazione.
1.3.La conoscenza nelle teorie economiche, organizzative e
manageriali
Nonaka e Takeuchi (1997, p. 66) hanno sottolineato come la separazione fra
soggetto e oggetto, mente e corpo, sé e altro da sé, sia alla radice delle scienze
17
sociali occidentali, comprese l’economia, il management (la scienza della
gestione) e le teorie dell’organizzazione.
Si descriveranno ora alcuni contributi riguardanti il significato attribuito alla
conoscenza nell’ambito delle teorie economiche.
Alfred Marshall (in Nonaka, Takeuchi, 1997, p. 68), noto economista
classico, è stato uno dei primi ad affermare l’importanza della conoscenza
nell’attività economica. L’interesse degli economisti neoclassici, dei quali
egli è stato precursore, andava all’utilizzo della conoscenza esistente
rappresentata essenzialmente dall’informazione sui prezzi di mercato. In
condizioni di mercato, ogni impresa dispone della stessa quantità
determinata di conoscenza che le consente di massimizzare i suoi profitti,
infatti, in un periodo caratterizzato da un ambiente esterno stabile, i prezzi
rappresentano un’informazione preziosa per le aziende, che possono
competere manovrandoli adeguatamente rispetto ai concorrenti. Elemento
di innovazione introdotto da questa teoria è quello di sostenere
l’importanza della conoscenza come fattore a sé stante.
La scuola economica austriaca, rappresentata da Frederich von Hayek e
da Joseph A. Schumpeter, (in Nonaka, Takeuchi, 1997, p. 68) sposta
l’attenzione verso una conoscenza di tipo ”soggettivo” cioè posseduta da
ciascun soggetto economico all’interno dell’organizzazione, sottolineando
come questa sia altamente mobile e difficile da catturare, rispetto alla
conoscenza comune condivisa dai diversi soggetti.
In particolare, Hayek (in Nonaka, Takeuchi, 1997, pp. 68-69) evidenzia
per primo l’importanza della conoscenza specifica del contesto e della
particolarità delle circostanze spazio-temporali, distinguendole dalla
conoscenza scientifica che concerne le regole generali. L’autore, pur
volendo formulare una tesi dinamica del mercato, inteso come processo di
cambiamento continuo delle circostanze che modifichino a favore dell’uno
o dell’altro le differenze fra gli individui in termini di conoscenza, approda
ad un’interpretazione “statica”, sostenendo unicamente la necessità di un
“utilizzo” efficiente della conoscenza “esistente”.
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Schumpeter, al quale si deve la teoria dinamica del cambiamento
economico, approfondisce il tema delle modalità per far fronte alla
difficoltà di gestione della componente soggettiva della conoscenza,
dovuta alla dinamicità ambientale. Egli, infatti, afferma che “il capitalismo
[…] è, per natura, una forma o un metodo di cambiamento economico e
non è mai né può mai essere stazionario” (in Nonaka, Takeuchi, 1997, p.
69), rilevando, quindi, che l’ambiente economico è in continua evoluzione.
Schumpeter evidenzia l’importanza di una ricombinazione continua della
conoscenza esplicita e nota come l’emergere di prodotti, di metodi di
produzione, di mercati, di materiali e di organizzazioni innovative sia
l’esito di nuove “combinazioni” di conoscenza.
Mentre Schumpeter considera l’intero sistema economico, il contributo di
Edith P. Penrose (in Nonaka, Takeuchi, 1997, pp. 69-70) sposta
l’attenzione sulla singola azienda, considerata come deposito di
conoscenza. L’autrice fa notare, nella sua teoria economica dell’impresa,
come siano di cruciale importanza le risorse, sia umane che materiali, di
cui l’impresa dispone e che assumono valore solo nel servizio che rendono
quando una conoscenza adeguata le mette in movimento.
Il valore d’uso della conoscenza è considerato il “motore” principale
dell’attività aziendale. Questo contributo mette al centro del sistema la
gestione delle conoscenze ma tralascia la possibilità di creazione delle
stesse.
Anche la teoria evoluzionistica del cambiamento economico e tecnologico,
elaborata da Nelson e Winter (in Nonaka, Takeuchi, 1997, p. 70)
considera l’impresa come depositaria di conoscenza, immagazzinata sotto
forma di “schemi di comportamento regolari e prevedibili” delle imprese
economiche, dagli autori denominate “routine” e paragonate ai “geni”
umani.
L’innovazione è una “mutazione” strutturalmente imprevedibile di routine.
Nelson e Winter hanno anche formulato il concetto di “traiettoria naturale”
a designare il particolare percorso di sviluppo tecnologico deciso dal
“regime tecnologico”, a sua volta definito come l’insieme delle “credenze
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cognitive su ciò che è fattibile o per lo meno degno di essere tentato” e
come insieme degli imperativi tecnologici. Essi riconoscono che l’essenza
della tecnologia va posta nella conoscenza, ma non giungono ancora a
definire un collegamento esplicito fra creazione della conoscenza
tecnologica e processi organizzativi complessi.
Gli economisti sono propensi ad accettare la visione cartesiana della conoscenza,
che separa la conoscenza economica dal soggetto che produce. Un orientamento
analogo ha interessato le teorie manageriali e organizzative.
Si espongono ora alcuni contributi in riferimento alle teorie organizzative.
Il management scientifico sviluppato da Frederick W. Taylor (in Nonaka,
Takeuchi, 1997, pp. 71-72) rappresenta il primo tentativo radicale di
estrapolare le conoscenze incorporate nel processo di lavoro che l’autore
definisce “scatola nera”.
Il suo intento è quello di operare una razionalizzazione completa del
processo lavorativo, sia per le macchine, che per gli uomini. Infatti, Taylor
prosegue la formalizzazione delle abilità empiriche e le esperienze dei
lavoratori per tradurle in conoscenza oggettiva e scientifica riutilizzabile.
Egli non riesce però a cogliere il rapporto tra questo patrimonio
conoscitivo e la creazione di conoscenza, ponendo sotto la responsabilità
della direzione il processo di creazione di metodi innovativi di lavoro.
La teoria delle relazioni umane di Elton Mayo (in Nonaka, Takeuchi,
1997, p. 72), contrapposta alla diffusione del taylorismo (applicato come
un metodo disumanizzante finalizzato ad un mero aumento dell’efficienza
del lavoro) rivaluta il ruolo dell’elemento umano e l’importanza del
“contesto” in cui questo viene a trovarsi nel management.
Mayo, insieme ad altri studiosi, conduce una serie di esperimenti presso lo
stabilimento di Hawthorn della Western Electric che dimostrano
l’importanza del fattore morale, del senso di appartenenza al gruppo e
delle capacità relazionali, come elementi capaci di incrementare la
produttività dell’azienda.