5
Se, nonostante ciò, proponiamo questo lavoro proprio a conclusione di un
percorso che su tale materia, e su quelle limitrofe, si è soffermato assai
brevemente, non è né per ostinazione né per disinteresse verso le altre aree
disciplinari toccate. Al contrario, pensiamo che il complesso sistema di punti di
vista sul mondo di oggi offerto dall’eterogenea serie di corsi affrontata
rappresenti forse il migliore dei punti di partenza per riprendere in mano
l’interpretazione della teoria critica della Scuola di Francoforte fornita dal suo
più celebre esponente, che della sintesi interdisciplinare figlia del rifiuto della
“divisione del lavoro intellettuale” aveva fatto uno dei propri punti cardinali.
Economia, psicologia, antropologia, diritto, storia, se costituiscono le
componenti fondamentali di ogni teoria sociologica, trovano nell’opera di
Marcuse, e degli autori che ne ispirarono ed accompagnarono il percorso
intellettuale, una riqualificazione che ne fa qualcosa di più che semplici
strumenti: esse vengono integrate direttamente nell’analisi dialettica, interpellate
non solo nel metodo ma anche, e soprattutto, nel merito, coinvolte e modificate
con un’agilità e spregiudicatezza che, oltre ad aver fatto gridare allo scandalo i
puristi, ha costituito il fattore fondamentale a cui si deve la coerenza e la
pervasività del discorso teorico che ne risulta. Le materie oggetto
dell’intersezione fra l’area d’interesse della teoria critica e il nostro piano di
studi aumentano in questo modo cospicuamente. A ciò si deve aggiungere che i
media e il loro “indotto”, nonostante non compaiano esplicitamente negli indici
dei libri più famosi di Marcuse, rappresentano però una costante immancabile
nello sfondo su cui l’analisi si svolge; non potrebbe essere diversamente, dato
che la critica alla società del consumo di massa e dell’amministrazione di massa
ben difficilmente potrebbe prescindere da una piena consapevolezza del ruolo
che i mezzi di comunicazione di massa hanno giocato e continuano a giocare
nella sua edificazione ed evoluzione.
La ragion d’essere di questo lavoro è però un’altra. Non si tratta di dimostrare
la fitness dell’opera di Herbert Marcuse ad un’analisi d’impianto mediologico;
6
la qualità che di essa ci preme soprattutto evidenziare, di fronte alla negazione
più o meno unanime di cui è stata oggetto negli ultimi anni, è la sua attualità.
Vogliamo introdurre a questo proposito un concetto che ricoprirà una
considerevole importanza nei prossimi capitoli: quello di reificazione
(Verdinglichung). Esso è stato introdotto da Gyorgy Lukàcs, autore di Storia e
coscienza di classe, per indicare il processo di trasfigurazione delle
caratteristiche immanenti ad una società in condizioni date a priori, immutabili e
indiscutibili. Oggetto di questo processo, in una prospettiva marxista com’è
quella di Lukàcs e dei membri dell’Istituto di Francoforte, sono in primo luogo i
modi di produzione e i rapporti sociali che da essi dipendono. Nella ricerca
sociale, tale concetto porta con sé la necessità inderogabile di relativizzare
nuovamente queste condizioni, così come l’antropologia deve fare nei confronti
dell’etnocentrismo occidentale: prendere le distanze dal proprio oggetto di
studio, soprattutto quando questo è la realtà che più ci è familiare.
La critica che Marcuse muove alla società occidentale contemporanea, in mezzo
alle mille critiche che ne hanno condiviso l’inflazionato ambito, a nostro avviso
ha proprio in questo la sua superiorità: nella risoluzione a decomporre i costrutti
sociali che tengono assieme la più estesa civiltà della storia umana, a percorrere
a ritroso la filiera produttiva da cui è uscita la società industriale, evitando i
binari della Storia tradizionale e preferendole una ricostruzione certo eterodossa
ed eterogenea, ma singolarmente fertile e coerente. L’abbattimento della
reificazione che ha avvolto e protetto le strutture vitali di questa civiltà dallo
sguardo dei suoi componenti, integrati in un sistema di riproduzione del
consenso che non trova paragoni per portata ed efficacia, costituisce il punto di
partenza di un’analisi in grado di rivelare la continuità che unisce le democrazie
di massa con le precedenti forme di amministrazione basate sul dominio
dell’uomo sull’uomo, e contemporaneamente le ragioni che hanno consentito
l’eclissi di questo dominio. E’ questo l’unico modo in cui una critica marxista
può sopravvivere nel mondo attuale: partendo dalla constatazione che i sistemi
7
capitalistici sono riusciti a convincere miliardi di persone di stare producendo la
loro libertà, e a coinvolgerle completamente in questa produzione.
L’attualità di una simile impostazione, e l’interesse che rappresenta per il
nostro punto di vista, è evidente: la società occidentale del ventunesimo secolo
mostra, al netto delle inevitabili evoluzioni, una innegabile continuità strutturale
con quella analizzata da Marcuse. La scomparsa dello Stato visibile ed ingerente
completa quel processo di eclissi del dominio che sembra far dipendere sempre
più la coesione sociale dal mero consenso degli individui; accettare questa
versione, tenendo presente che non c’è stata nessuna rivoluzione che abbia
cambiato l’assetto politico-economico abbastanza profondamente da scioglierne
il legame diretto con le società fondate sulla coercizione e sulla repressione
esplicite, risulta abbastanza problematico. Dare il merito di questo risultato al
perfezionamento della democrazia parlamentare, soprattutto dopo il crollo
dell’interesse e della partecipazione dei cittadini sperimentato negli ultimi
decenni, ancora di più. Dunque, questo miracoloso equilibrio deve essere l’opera
di qualche altra enorme dinamica all’opera nelle nostre comunità, una dinamica
capace di agire contemporaneamente su tutti i livelli interessati: politico,
economico, culturale, comunicativo.
Attingendo al bagaglio concettuale fornito dal nostro corso di laurea, abbiamo
tentato di fornire una risposta, pur parziale e azzardata, al problema di dare un
seguito alla critica marcusiana, che dopo l’inaspettato successo incontrato negli
anni Sessanta è andata incontro ad un altrettanto rapido declino. Per fare questo,
abbiamo tentato di ricostruire, come in una perizia balistica, la traiettoria
diacronica dello sviluppo del pensiero di Marcuse, “campionandolo” in
corrispondenza di tre punti chiave, che saranno oggetto di altrettanti capitoli:
- Lo sviluppo della “teoria critica della società” in seno all’Istituto per la
Ricerca Sociale di Francoforte; prenderemo in esame l’articolo Filosofia
8
e Teoria Critica, pubblicato nel 1937 sulla Zeitschrift fur
Sozialforschung, la Rivista dell’Istituto.
- La sintesi di teoria psicanalitica freudiana e critica socioeconomica
marxista, uno degli obiettivi primari della teoria critica, compiuta nel
1955 con la pubblicazione di Eros e civiltà.
- L’estensione della teoria critica alla società occidentale del dopoguerra
nel suo insieme, parallelamente alla formulazione della tesi del blocco del
suo sviluppo e della realizzata preponderanza dei suoi elementi
conservativi e antidialettici, rappresentata da L’uomo a una dimensione,
del 1964.
Nel quarto capitolo tenteremo di prolungare questa traiettoria fino ai giorni
nostri, applicandone i criteri ad un ambito particolarmente significativo per
quanto ci riguarda, quello del marketing management e dei molteplici campi
in cui tale modello è riuscito ad imporsi, proponendosi come uno dei tratti
identitari più marcati della civiltà contemporanea. Nel far questo proveremo, pur
con la modesta competenza di cui disponiamo, a proporre un modello di analisi
che, giustapponendo gli elementi più recenti della nostra organizzazione sociale
a spunti presi da visioni quanto più ampie possibili, riesca a mostrare quanto i
primi, a dispetto della loro proclamata innovatività, rispondano a dinamiche
storiche che accompagnano l’organizzazione umana fin dalle prime forme di
civiltà, intesa nel più largo dei sensi come assetto basato sull’agricoltura e sugli
insediamenti stanziali. La bibliografia di questo lavoro raccoglierà
conseguentemente, oltre alle opere di Marcuse e degli autori da lui presi a
riferimento, testi fra i più eterogenei esistenti, come manuali universitari di
marketing impostati su un’acritica integrazione funzionale e pamphlet di scuole
radicali fondate sul completo rifiuto dei prodotti della società dei consumi.
9
Speriamo con questa scelta metodologica di riuscire, oltre che a rispecchiare per
quanto possibile quella fatta propria dall’autore in questione in una disciplina in
cui l’impostazione dell’analisi contribuisce in maniera preponderante alla
determinazione dei suoi risultati, a dare un contributo per minimo che sia a
smontare quella stessa reificazione che ha reso la forma più avanzata di civiltà
mai realizzata meno autoconsapevole di quanto sarebbe lecito aspettarsi,
portandola come vedremo a correre rischi certamente evitabili; la stessa
reificazione che ha portato a classificare le rivendicazioni e le proposte espresse
da Herbert Marcuse, e dopo di lui da un numero considerevole di intellettuali
ufficiali e non, sotto il nome di utopia.
10
Capitolo 1
L’Istituto di Francoforte
La vostra scienza consiste solo di un insieme
di dati che raccogliete e incollate insieme
con teorie zoppicanti.
Ed è tutto così incredibilmente semplice che
non vale proprio la pena di occuparsene.
Isaac Asimov, Io Robot
E’ impossibile tentare di riassumere anche parzialmente il percorso intellettuale
di Herbert Marcuse senza prendere in considerazione collettivamente l’Istituto
per la Ricerca Sociale di Francoforte. Collettivamente, perché le tesi formulate
dall’autore non solo durante i molti anni di permanenza nell’ambito della
struttura, ma in tutta la sua carriera, denotano una parentela con quelle di coloro
che insieme a lui diedero vita alla cosiddetta “Scuola di Francoforte” ben più
profonda di quanto si verifica comunemente nei casi anche più stretti di
collaborazione fra intellettuali di estrazioni così diverse. Non sono tanto le
tematiche affrontate o la comune militanza nelle file di quel marxismo
indipendente di cui Korsch e Lukacs avevano appena posto le basi nelle scienze
sociali a decretare questa affinità, quanto l’adesione alla “teoria critica” fondata
da Max Horkheimer, direttore dell’Istituto, sul terreno del rifiuto della
metodologia e dell’impostazione “neopositivistica”. Per le sue peculiarità, la
teoria critica può ben essere considerata, più che una tendenza o uno
specialismo, una disciplina a sé stante, di fatto, la disciplina d’elezione degli
autori che contribuirono a delinearla, e di molti altri dopo di loro. I personaggi
che menzioneremo più avanti, infatti, senza mai riuscire ad imporsi nei campi in
11
cui la tassonomia delle scienze umane li classificava, hanno lasciato un marchio
profondissimo nel frammentario universo dell’antagonismo intellettuale e della
“controcultura” che, specialmente nel secondo dopoguerra, ha rappresentato la
coscienza critica dell’Occidente in via di sovrasviluppo. Di una parte di questa
prole, che va dai Situazionisti all’antropologia radicale contemporanea,
cercheremo di dar conto nel parallelo con lo sviluppo del pensiero di Marcuse,
che, a nostro avviso, resta l’interprete più coerente di quest’anomalia
epistemologica che trovò la sua principale ragione d’identità nell’umanistica
“aspirazione a una situazione senza sfruttamento e oppressione”
1
.
1
Max Horkheimer, Teoria tradizionale e teoria critica, in Enrico Donaggio (a cura di), La
scuola di Francoforte, Einaudi, Torino 2005, p. 61.
12
1.1 La nascita dell’Istituto
Nel 1924, quando Carl Grunberg, ex professore di economia politica
all’università di Vienna e fondatore dell’Archivio per la storia del socialismo e
del movimento operaio, venne chiamato alla guida dell’Istituto per la ricerca
sociale di Francoforte, appena sorto grazie alla donazione del mecenate Karl
Weiss, erano passati più di settant’anni da quando Karl Marx aveva formulato le
sue tesi. Settant’anni in cui il mondo aveva sperimentato la Grande Guerra e il
crollo dell’internazionalismo operaio, la fine degli imperi e la nascita dei regimi
autoritari populisti, la rivoluzione bolscevica e il suo riflusso stalinista,
l’emergere degli Stati Uniti come superpotenza globale e l’esportazione dei
nuovi modelli economici e culturali che vi avevano visto la luce. Eppure, niente
di tutto ciò sembrò lasciare traccia nei programmi e nei lavori dell’unico istituto
di indirizzo apertamente marxista della Germania di Weimar. Sulla scorta della
fiducia nell’imminente o addirittura già in atto “transizione dal capitalismo al
socialismo” che l’interpretazione “ortodossa” delle tesi marxiane decretava
inevitabile, l’istituto si dette il compito di archiviare e certificare la marcia del
proletariato verso l’instaurazione della società senza classi, incasellandosi di
fatto in una nicchia di lavoro specialistico, acritico, rigidamente fondato sul
rifiuto della contaminazione e della trascendenza in quanto minacce alla
scientificità e al rigore positivistico che ne costituivano gli obiettivi
irrinunciabili. Alla concezione di Grunberg del marxismo scientifico e del suo
ruolo nel mondo tuttora capitalista mancava completamente non solo l’interesse
e la capacità di espandere la sua portata col ricorso ad ambiti e strumenti esterni
e tuttavia affini che lo sviluppo delle scienze sociali, e basti menzionare l’ormai
affermata teoria psicanalitica, aveva dischiuso alla ricerca, ma persino la
capacità di cogliere nell’opera del suo stesso vate le illustri parentele filosofiche
e la reale dimensione della critica. Grunberg affermava che non era compito del
13
materialismo storico “alambiccare categorie eterne o cogliere la ‘cosa in sé’”
2
:
di fatto, ciò significava l’amputazione della dimensione filosofica e la
decontestualizzazione dell’opera di Marx, nata e cresciuta sul terreno
dell’idealismo tedesco, da cui si era affrancata non con la censura o il rifiuto, ma
nel superamento dialettico. Marx cessava dunque di essere uomo del suo tempo,
individuo storicamente e culturalmente determinato, come affatto
paradossalmente la sua stessa concezione lo qualificava, per divenire il dio
cartesiano necessario a reggere e giustificare un sistema solo superficialmente
antagonistico a quello dominante, un tradimento intellettuale simile a quello in
cui Sartre individuerà il peccato originale dello stalinismo.
2
A. Schmidt, La Scuola di Francoforte, De Donato, Bari, 1972, p. 14.
14
1.2 Horkheimer e il nuovo corso
L’indirizzo impartito da Grunberg all’Istituto non era destinato a durare a lungo.
Nel 1930, infatti, a causa di una grave malattia, fu costretto a lasciare l’incarico
a Max Horkheimer; un avvicendamento che avrebbe segnato profondamente non
solo il corso della struttura, ma anche la fisionomia del marxismo occidentale.
Fin dal discorso di insediamento, pronunciato il 24 gennaio 1931, fu subito
chiaro il principale elemento di discontinuità rispetto al predecessore: la
rivalutazione del ruolo della filosofia (il titolo era per l’appunto ‘La situazione
odierna della filosofia sociale e i compiti di un Istituto per la ricerca sociale’) e
la sua promozione a principio guida dell’attività interdisciplinare. Punto di
riferimento era Hegel, riconosciuto come principale ispiratore dell’impianto
teorico marxiano, anche grazie ad una radicale depurazione della sua opera dalla
strumentalizzazione che ne aveva fatto un pilastro dello stato autoritario e del
conservatorismo guglielmino. Il recupero della dialettica hegeliana si rivelerà la
base di una delle principali linee di continuità fra gli autori dell’Istituto, a partire
dalla quale la portata della critica francofortese potrà superare gli angusti
orizzonti dell’ortodossia contemporanea. Un altro punto cardine nella continuità
fra Hegel e Marx viene individuato nella diretta filiazione del materialismo
dall’idealismo maturo, dal quale lo distingue principalmente una concezione
della trascendenza radicalmente riposizionata. Dalla dimensione trascendentale
del “vero” idealismo scaturirà in seguito uno dei caratteri fondamentali della
teoria critica, formulata nei due saggi paralleli di Horkheimer e Marcuse che
esamineremo più avanti.
Un altro dei concetti filosofici introdotti dal nuovo direttore nello strumentario
della critica marxista è quello di ragione, e conseguentemente di razionalità, che
servirà come grimaldello per scalzare un impianto teorico che si pretendeva
antagonista dalla sostanziale accettazione delle basi strutturali borghesi e
15
capitaliste e riposizionarlo su di un’istanza di legittimazione sinceramente
umanista. La ragione che Horkheimer ha in mente, come esporrà vent’anni più
tardi
3
, si distingue decisamente da quella tipica del suo tempo, figlia della
degenerazione dell’illuminismo nel ‘cattivo materialismo’ positivistico, che non
ha altro valore che quello operativo né altra utilità che la massimizzazione
dell’efficienza dei fini rispetto ai mezzi. Sotto il regno di una ragione simile,
“l’affermazione secondo cui la giustizia e la libertà sono in sé migliori
dell’ingiustizia e dell’oppressione non può essere verificata”
4
. Per mettere la
civiltà al riparo dai rischi dell’autoritarismo scientifico e disumanizzante, che gli
orrori della guerra non hanno ancora privato del suo fascino su una
considerevole parte dell’ambiente intellettuale europeo, è necessaria un’altra
ragione, sovrana incomandata sugli obiettivi dell’organismo sociale e
sottomessa soltanto al bene dell’uomo. La non soggettività dei concetti di
felicità e soddisfazione, perlomeno all’interno di un considerevole nucleo, è
infatti una delle invarianti teoriche non solo di Horkheimer ma di tutti i suoi
collaboratori, e si rivelerà fondamentale nell’opera di Marcuse. La loro
relativizzazione verrà conseguentemente designata come uno dei fattori
responsabili della perpetuazione degli elementi repressivi negli stati democratici,
ed assumerà un ruolo fondamentale nella critica alla “società del benessere” nel
secondo dopoguerra.
5
Per quanto riguarda la metodologia, la scelta del neodirettore cade su di una
interdisciplinarietà sostanziale che si pone come primo obiettivo la fecondità e
l’apertura, totalmente negata dal predecessore, ad ambiti e discipline eterogenei.
L’ortodossia specialistica ed il primato del rigore scientifico vengono sacrificati
in quanto espressioni della divisione del lavoro contagiata al sapere dal
capitalismo, a tutto vantaggio di una sintesi che, al netto di forzature e
distorsioni forse inevitabili per un approccio del genere, si dimostra capace di
3 Max Horkheimer, Il concetto di ragione, in La scuola di Francoforte, Einaudi, Torino 2005
4 Ibid., p. 204.
5 cfr. Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999
16
intuizioni sorprendenti. A determinare tale esito contribuisce senza dubbio la
scelta dei collaboratori. Se per Grunberg era esclusa “una spartizione della
direzione in generale, tanto più con persone orientate diversamente quanto a
concezione o metodo”
6
Horkheimer si circondò invece di persone che, al di là
del loro valore nei rispettivi campi, dimostrarono una capacità di confronto,
integrazione teorica e reciproco stimolo tale da realizzare e mantenere in vita per
anni ciò che è collettivamente passato alla storia come la ‘Scuola di
Francoforte’: l’economista Friedrich Pollock, il sociologo Leo Lowenthal, lo
psicanalista Erich Fromm, il filosofo Herbert Marcuse e, dal 1938, il critico
culturale Theodor W. Adorno. Basta guardare al catalogo delle discipline
rappresentate per farsi un’idea di cosa Max Horkheimer intendesse per ricerca
sociale; il collante della filosofia, depositaria della ragione intesa nei termini
sopra descritti, doveva coniugare i risultati empirici e le riflessioni prodotte da
punti di vista sulla società che abbandonavano la loro autolegittimazione in
quanto scienze esatte, e in ciò il modello negativo è Max Weber, per
sottomettersi all’unico obiettivo possibile per la scienza dell’uomo: la
costruzione della società realmente umana e la denuncia dei fattori che nel
presente la impedivano. Fondamentale sotto questo aspetto per il ruolo svolto
nel fornire un terreno di crescita e uno sbocco alle istanze di rinnovamento
legate a tale obiettivo fu la fondazione della rivista dell’Istituto, che merita di
essere analizzata in particolare.
6
Schmidt, op.cit., p13
17
1.2.1 La Rivista
Nel 1932 Horkheimer battezza la Zeitschrift fur Sozialforschung, Rivista per la
ricerca sociale, la pubblicazione ufficiale dell’Istituto destinata ad accoglierne la
produzione divulgativa. Concepita come il luogo ideale della sintesi
interdisciplinare auspicata dal direttore, la rivista diventa immediatamente anche
un’arena di confronto intellettuale, sia interno che esterno. La proporzione fra
indagini e saggi pubblicati si sbilancia infatti nettamente a favore dei secondi,
che sovente hanno per oggetto la recensione critica delle opere che vedono la
luce sia nella scienza sociale che nella sfera culturale in senso lato negli anni di
attività del periodico. Questa caratteristica, responsabile di molte delle accuse di
scarsa attenzione per la ricerca empirica rivolte all’istituto, deve comunque
essere contestualizzata in un momento fra i più peculiari della storia del sapere
umano, l’era delle ideologie e della loro applicazione su scala planetaria, in cui
il confronto teorico e le differenze di interpretazione, lungi dall’essere vuote
questioni di lana caprina, si riflettevano sulla vita di milioni di persone. La parte
più consistente delle pubblicazioni della rivista fu destinata a stabilire
chiaramente la struttura teorica e metodologica dell’istituto, regolando i conti
con i rapporti di parentela e affinità graditi e sgraditi che il percorso sviluppato
dai singoli autori in ciascuna disciplina rivelava nei confronti dei coinquilini.
Nell’epoca delle ortodossie e delle riletture cortigiane a sostegno dei nuovi
poteri forti, l’istituto si trovava infatti a dover lottare con le sue sole forze per il
proprio spazio intellettuale, avendo scelto di rifiutare i sostegni di partito che
permettevano la sopravvivenza e la diffusione di altri indirizzi marxisti
contemporanei. Di questa indipendenza non tardò a fare le spese, visto che
l’ascesa al potere di Hitler portò all’esilio del gruppo a Ginevra e della rivista a
Parigi, dove continuò ad essere pubblicata in tedesco; una scelta dettata non solo
dall’orgoglio e dalla volontà di custodire altrove la lingua e la cultura che
18
adesso servivano la propaganda nazista, ma anche dal tentativo di proporre agli
altri esuli con la forza persuasiva del precipitare degli eventi la validità di tesi
che li avevano in larga parte previsti. Con la caduta di Parigi, l’istituto si
trasferirà negli Stati Uniti presso la Columbia University e la rivista vedrà gli
ultimi quattro numeri, fino al 1941, uscire in inglese.
Compito vitale della rivista è, dunque, definire l’identità e l’autonomia del
lavoro dell’Istituto, la cui autonomia istituzionale e, almeno fino a una certa
data, economica, non poteva certo compensare l’isolamento e l’ostracismo, dato
che i suoi membri da marxisti “rivoluzionari” quali erano non potevano
rinunciare all’obiettivo del mutamento della società reale tramite un’egemonia
culturale dialetticamente raggiunta. Ad incaricarsi del compito di tracciare e
diffondere le linee guida del collettivo è sempre Max Horkheimer, avvalendosi
dei contributi, coerentemente col ruolo da lui attribuito alla filosofia, dei soli
Marcuse e Adorno.
Nel breve articolo di presentazione del primo numero, Horkheimer si preoccupa
soprattutto di chiarire le questioni di metodo ed i rapporti con le categorie delle
scienze sociali “borghesi”. Anzitutto, il termine ‘ricerca sociale’ viene designato
come denominatore ontologico, a garanzia della non riduzione ai singoli
specialismi che negherebbe “una conoscenza dell’intero corso della società”
7
Fondamentale è poi la sottolineatura dell’intenzione di distinguersi “tanto dalla
mera descrizione dei fatti, quanto da costruzioni estranee all’empiria”
8
. Qui
risiede uno dei principali fattori dell’originalità dell’impostazione francofortese,
e contemporaneamente della sua continuità con quella marxiana. Ponendosi a
metà strada fra scienza e filosofia, o più correttamente nel processo del continuo
rimando e condizionamento reciproco dall’una all’altra, essi intendono
rispecchiare il conoscere dialettico che vedono rifiutato dal positivismo
7
Max Horkheimer, L’istituto per la ricerca sociale e la sua rivista, in La scuola di
Francoforte cit., p. 5
8
Ibid.
19
borghese e tradito dal dogmatismo dei marxismi contemporanei. L’interesse per
la “teoria della società” sostituisce l’ossessione per il rigore empirico o
logico/formale e diventa il collante e la ragion d’essere dell’attività
gnoseologica. Le “scienze” menzionate sono, ovviamente trattandosi di
un’impostazione marxista, la sociologia e l’economia. Ad esse viene però
aggiunta, e anche questo punto si rivelerà fondamentale, la psicologia, che
all’epoca è ancora lontana dall’essere uscita dalle controversie che ne hanno
accompagnato l’emergere ma che viene individuata come il vero tassello
mancante del pensiero di Marx, capace di risolverne molte delle aporie che ne
minano l’applicabilità al comportamento reale degli esseri umani; la costruzione
di “una psicologia sociale all’altezza della storia” viene dunque messa fra “i
compiti peculiari della rivista”
9
. L’ultimo dei distinguo viene significativamente
dedicato alla politica, e, contestualmente, ai numerosi intellettuali cortigiani
dell’epoca, ai quali viene ricordato che la ricerca sociale “deve affermare
l’autonomia delle sue pretese gnoseologiche nei riguardi di tutte le prospettive
politiche e di tutte le visioni del mondo”.
9
Ibid., p. 6