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Lo scopo pedagogico mira ad una strutturazione dell’intenzionalità, ossia la
capacità, anche creativa, di attribuire senso e significato al mondo e alla realtà,
giungendo così ad una riappropriazione soggettiva, all’adattamento sociale, al
reinserimento, all’entropatia.
L’intervento educativo ed anche psicologico sono volti ad ampliare l’orizzonte
qualitativo del mondo relazionale del ragazzo, al fine di costruire condizioni di
ripensamento della realtà, con l’obiettivo di rieducare e condurre all’ottimismo
esistenziale e colmare le carenze con pratiche di restituzione, come attraverso
l’educazione al bello, al difficile, all’impegno, al senso di responsabilità.
All’interno del libro “Fare male, farsi male” vengono testimoniati tre livelli
importanti su cui opera l’istituto di analisi dei codici affettivi “Il Minotauro” di
Milano: il livello della formazione ereditato da Franco Fornari che lasciò ai suoi
allievi il compito di portare un’ottica psicanalitica al di fuori del setting, ma di
utilizzare la teoria psicanalitica dei codici affettivi nei contesti gruppali ed
istituzionali. Questa è l’anima originaria del Minotauro, nato intorno al 1985,
con l’obiettivo di cimentarsi in progetti più ampi ed in qualche modo di portare
il soccorso, la consolazione e la comprensione che la figura psicanalitica può
dare, in un ambito culturale più ampio e non prettamente duale e clinico.
In questo libro è testimoniata una forte propensione del centro “Il Minotauro”, a
fare ricerca di base, anche spesso su vari argomenti su cui non è stato scritto
nulla e su cui non si ha un confronto bibliografico di supporto. Questa passione
per la ricerca si è attivata per partire dalla formazione: non si può praticare
formazione se non si conosce il gruppo, l’istituzione, il problema di cui si tratta.
Quindi la ricerca è a sostegno del lavoro istituzionale, ma essa ha assunto anche
un significato diverso, di sostegno alla clinica. In un’ottica psicanalitica
classica, quando si tratta di adolescenza, si considera la riedizione di tematiche
critiche della prima infanzia. In questo senso si reperiscono dei meccanismi così
originari e così antichi in qualche modo fondanti la concezione e costruzione
stessa del soggetto infantile, che se si rivede l’adolescenza come riedizione, non
è così importante conoscerla nella propria fenomenologia attuale, perché se i
meccanismi osservabili sono relativamente invarianti, riguardando la psiche
profonda, in un certo senso si può credere, nella ricerca, all’interno del setting
psicoanalitico, di conoscere già ciò che non si conosce, in quanto nei soggetti
analizzati si ritroveranno dispositivi affettivi, modalità di ripetizione,
comportamenti relativi alle difficoltà nel rapporto con le figure primarie di
riferimento. “Il Minotauro” non crede, al contrario, nelle riedizioni. Charmet in
un altro testo corale pubblicato nel 1990 “L’adolescente nella società senza
padri”, nell’introduzione vira decisamente con il discorso verso la clinica,
trattando di blocco dei compiti evolutivi e soprattutto di futuro e non di passato,
come regista dell’evoluzione adolescenziale. Forse lo stesso gruppo de “Il
Minotauro” non ha ancora integrato del tutto le potenzialità di queste
affermazioni blasfeme, perché in ambito psicoanalitico prendere in
considerazione il futuro come regista, colloca in una condizione difficile e
3
critica in cui è rischioso permanere. I consulenti e gli operatori de “Il
Minotauro”, partendo da questi presupposti, sono riusciti ad ampliare le
prospettive come nuova forma mentis ed ulteriori conoscenze. La comprensione
e la visione del futuro, passa attraverso una competenza anche fenomenologica,
per cui risulta indispensabile conoscere le culture adolescenziali, come si
declinano attualmente le rappresentazioni del sé degli adolescenti, attraverso
quali mode e modalità. Quando di fronte ad un taglio clinico che presenta un
nuovo problema, la mente del gruppo, spesso si attiva, iniziando una ricerca, il
nuovo paziente può porre un ulteriore quesito. Con la clinica classica si
potrebbe comprendere , capire e analizzare quel paziente, svelando le regole di
appartenenza ad un determinato contesto sociale o ad un certo carattere
culturale. La consultazione psicologica sembra l’unica all’interno della quale
vaste aree di adolescenti possono transitare utilmente, essendo la psicoterapia
dedicata ad una fetta marginale di adolescenti, tendenzialmente molto evoluti, e
di condizioni particolari.
Una conoscenza preliminare di affetti sociologici, di rappresentazioni culturali
tramite cui gli adolescenti esprimono il loro disagio e l’identità confusa, è un
passaggio davvero cruciale e fondamentale.
In questo testo, rispetto ad altri libri corali pubblicati, si avverte una presa di
distanza nel modo tradizionale di fare clinica, in particolare riguardante ragazzi
con maggiore difficoltà di simbolizzazione. Forse si tratta proprio di una clinica
che consente di operare in generale con gli adolescenti tramite un modello
analitico che può dare un contributo anche ad altre fasce d’età.
EDUCATORI DI PROFESSIONE
3
Pedagogia e didattiche del cambiamento nei servizi extra-scolastici
L’educazione come processo metabletico deve provocare cambiamento,
passaggio, transizione, trasformazione. L’autore analizza come tali istanze
influenzino i processi emotivi e cognitivi del soggetto e come l’operatore
sociale o comunque chi agisce in ambito educativo è tenuto ad innescare
dinamiche relazionali e metabletiche, appunto, che suscitino il rinnovamento nei
rapporti interindividuali e nelle istituzioni, la transizione emotiva e cognitiva,
una maggiore fluidità nell’apprendimento con una trasformazione finale, in
senso positivo ed olistico, ossia riguardante il soggetto educando in tutta la sua
globalità e complessità psicocognitiva. Dunque, l’educatore professionale in
ambito socioeducativo svolge attività basate sulla relazione pedagogica,
proponendosi di innescare processi e dinamiche che suscitino e stimolino il
cambiamento nella sfera cognitiva, corporea e relazionale, perché la pedagogia
è considerata scienza del cambiamento, quale componente empirica
dell’educazione, sottoposta nel testo ad un’analisi “metabletica”: ossia quanto
3
Recensione al libro di D.Demetrio, Educatori di professione. Pedagogia e didattiche del cambiamento nei
servizi extra-scolastici, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1990
4
l’educazione rivolge al cambiamento. L’atto di educare è di per sé metabletico,
per la componente emotiva e seduttiva che esso comporta (se-ducere, e-ducere).
Sussiste una sintassi metabletica che presenta un’architettura più profonda dei
processi di cambiamento di tipo educativo e il suo sistema logico-empirico e
generativo è ravvisabile nelle seguenti componenti costitutive:
La TEMPORALITA’: si cambia non in senso costante, ma a fasi alterne e non
equipollenti
La NOVITA’: il processo educativo prevede un’irruzione di eventi, incontri,
desideri. Questo si contrappone ai pedagogisti che sostengono un cambiamento
di tipo cumulativo, continuo e progressivo che si alimenta nel quotidiano e nella
consuetudine
La SPAZIALITA’: l’educazione si può svolgere nei luoghi più svariati
dell’esistenza e non di consueto negli ambiti e nelle istituzioni predisposte
all’educazione
La DIREZIONALITA’: il processo metabletico dell’educazione è intenzionale
o spontaneo, concetto contrapposto alla a-finalizzazione del cambiamento e
dell’educazione
La REVERSIBILITA’: il processo educativo può presentare stati cumulativi,
ma anche regressioni nella reversibilità di quanto si è costruito.
L’EMOZIONALITA’: il fare e essere in formazione è caratterizzato da moti
emozionali e sentimentali nel ricordare, attraverso la narrazione, che suscita
inevitabilmente dinamiche nostalgiche di esperienze di cambiamento e
rigenerazione.
La proposta di strategie metodologiche (terapeutiche, attivistiche,
cooperativistiche ecc…) e didattiche, (educazione all’immaginario, al rispetto
dell’ambiente, al rapporto con la materia e il movimento, il fare spettacolo, le
relazioni gruppali) circoscrivendo una dimensione innovativa della cultura
pedagogica, si apre agli approcci del pensiero psicanalitico, sistemico, socio-
organizzativo, al fine di raggiungere l’integrazione in una prospettiva di
ampliamento delle competenze degli educatori professionali.
L’EDUCATORE AUTO(BIO)GRAFO.
Il metodo delle storie di vita nelle relazioni d’ascolto.
4
Il metodo pedagogico della narrazione di sé e dell’autobiografia costituisce un
approccio educativo sostanziale ed efficace all’interno dei contesti dove si
presenta l’esigenza di instaurare relazioni d’aiuto tramite il racconto o la
scrittura della personale storia di vita. Gli educatori auto(bio)grafi applicano tale
metodologia comunicativa soprattutto all’interno dei luoghi adibiti
all’educazione, come i servizi per l’infanzia, la scuola, la famiglia o nell’ambito
4
Recensione al libro a cura di Duccio Demetrio, L’Educatore auto(bio)grafo. Il metodo delle storie di vita nelle
relazioni d’aiuto, Unicopli, Milano 2000
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della strada dove si presentano difficoltà esistenziali profonde legate
all’adolescenza in disagio. Il porsi in atteggiamento di apertura comunicativa
rispetto all’altro e in modalità di ascolto, è una posizione attitudinale di tipo
pedagogico o meglio, soprattutto, un ruolo etico che instaura dinamiche
relazionali con la facoltà di modificare e migliorare uno status mentale, un
comportamento, un modo di essere. L’azione del raccontarsi stimola sempre
nuovi processi cognitivi, inusuali capacità analitiche ed osservative, aprendo lo
sguardo verso un passato spesso costellato da disagio, da dolore, da
frustrazione. Il recupero pedagogico avviene sul fronte della presa di coscienza
di una rinnovata consapevolezza di sé, della propria identità, del proprio vissuto,
del passato personale, non limitandosi ad un approccio psicanalitico, con cui si
riscontrano similitudini, ma focalizzando le problematiche sul soggetto che in
prima persona scrive di sé, e da sé ed in sé trova le risorse per raccontare la
difficoltà e il disagio reconditi nelle cause primarie, per poi comunicare ad
“altri” la personale autoanalisi o meglio autobiografia e racconto interiore.
Tramite il lavoro autografo, l’allievo, il ragazzo, la persona può decidere anche
solo di tenere lo scritto come valore insito e nascosto nel piacere di scrivere le
proprie esperienze e riflessioni, e tutta la personale storia di vita, solo per sé.
Nel contesto storico attuale, costellato di odi razziali e xenofobie pretestuose, di
intolleranze etniche e religiose, con il cui vessillo, ostentato in nome della difesa
e della protezione dell’occidente “superiore”, si erigono muri e barriere di odio
e intolleranza, di guerra e di pregiudizio misantropo, si vuole offuscare il valore
precipuo ed imprescindibile del dialogo, del confronto e quindi il significato
umanistico ed il senso profondamente etico e culturale del raccontarsi, del
narrare, del ripensarsi, dello stare insieme, in quanto ogni individuo ha un
valore in sé e per sé. Il valore del dialogo interiore, dell’importanza dell’analisi
del vissuto individuale e dell’inconscio, sono fattori introdotti dal metodo
psicanalitico agli inizi del ‘900 che aprì le porte alla libertà di pensiero
dell’analisi degli aspetti più ancestrali della mente umana, al valore
dell’indagine del disagio della civiltà e dell’umanità, alla luce della libertà e
della felicità, contro i nazionalismi imperanti, gli sciovinismi, il militarismo
della società e l’imperialismo coloniale (ma non solo) e contro il concetto di
autoritarismo che unito alla militarizzazione delle masse infervorava le menti
calcolatrici degli alti gerarchi delle nazioni europee, all’origine degli orrori che
il ‘900 riverserà sul mondo e su tutta la società civile.
6
EDUCARE ALL’INTERIORITA’
Recensione al testo di D. Demetrio, L’educazione interiore. Introduzione alla
pedagogia introspettiva, La Nuova Italia, ottobre 2000
L’educazione interiore risale, da un’antica tradizione ascetica, agli sviluppi più
recenti della psicanalisi. In pedagogia si è smarrita la dimensione che si rivolge
allo studio e all’analisi dell’interiorità, dell’anima (in accezione junghiana) e di
tutto quanto è recondito nelle istanze dell’inconscio. Attualmente le scienze
dell’educazione volgono la propria attenzione ad una pratica dal retaggio
remoto: l’autobiografia, quale libera e spontanea anamnesi della vita.
L’autobiografia nasce come genere letterario, fino ad approdare, in chiave
pedagogica, a molteplici sviluppi di carattere psicosociale, attraverso la
considerazione ed analisi emotiva di storie di vita (biografie), giungendo a porsi
all’attenzione accademica e ai più svariati esiti psicopedagogici, come chiave di
espressione dell’interiorità e porta di accesso ad una dimensione nascosta
dell’anima, per riscoprire quella dimensione più genuina, creativa e meditativa
legata al mondo intrapsichico dell’immaginario.
L’educazione interiore non è soltanto un percorso ascetico e spirituale, ma quale
pratica di contemplazione, meditazione e autoriflessione, costituisce,
laicamente, un programma che uomini e donne hanno sempre intrapreso e
perseguito al fine di sviluppare le potenzialità del pensiero introspettivo, per poi
ampliare l’acume intellettivo, giungendo ad un contatto più stretto, ad un
rapporto più viscerale e sentito con il proprio sé e creare, plasmare, un io più
emancipato, maggiormente predisposto alle interrelazioni, sviluppando rapporti
profondi e proficui con le persone. Attraverso l’esplorazione di
un’autobiografia, ogni individuo che intraprende il percorso di conoscenza del
proprio sé giunge a recuperare una maggiore attenzione per la dimensione
affettiva di moti emozionali latenti e ad arricchire l’immaginazione creativa. Il
testo si rivolge agli operatori sociali, agli educatori, agli insegnanti e a tutti
quanti pongono alla base delle dinamiche educative l’importanza del ritorno a
se stessi, del rimembrare degli eventi nell’introspezione, nella narrazione di sé e
autobiografica, per creare nelle istituzioni, negli ambiti predisposti alla
diffusione di cultura e alla pratica educativa, un ampio margine di riflessione, da
parte di ogni individuo, sulla propria storia, l’esistenza, analizzando le vicende
belle o tristi o dolorose, rivivendo frustrazioni affettive o gioie d’amore,
ripercorrendo successi o insuccessi formativi ed emotivi, riscoprendo ansie,
delusioni, felicità piccole e grandi e tutte le amenità del vivere quotidiano.
Dunque questo stimolo culturale volto al recupero del proprio mondo interiore
dovrà investire gli spazi della cultura e dell’educazione per creare molteplici
agorà di riflessione, al fine di permettere alle persone di “sentirsi persone” di
nuovo con la ripartecipazione di se stessi con gli altri. In contesti esistenziali
dove prevale la logica schiacciante del pensiero unico con i miti del successo e
7
dell’effimero, con il primato dell’economico, in metropoli che diventano lo
specchio decadente di un ormai fatiscente capitalismo ed un erroneo progresso,
occorrerebbe il rilancio del senso della polis e della piazza. Ma per ritornare a
questo è giunto il momento di ripensarsi, riesplorare gli errori e le inquietudini
di ogni singolo, per recuperare un senso collettivo e globale dell’essere in
questo mondo.
Inizi dell’esperienza d’insegnamento
PATOLOGIA E PREVENZIONE
Le potenzialità di cambiamento, di trasformazione e di recupero
La fisiologia dello sviluppo tra normalità e patologia. La valutazione come
strategia di prevenzione.
Elaborato in occasione dell’incontro di presentazione de IL MANUALE
DELL’ADOLESCENZA, autore Il Minotauro, F. Angeli, presso la CASA
DELLA CULTURA, novembre 2004
Sussiste una continuità tra normalità e patologia nell’ambito del disagio in
adolescenza, laddove nell’ottica più psichiatrica, più tradizionale, ossia
superata, la situazione consiste nel considerare i due ambiti tra normalità e
patologia ben distinti, ben differenziati, con tendenziale patologizzazione del
disturbo adolescenziale. Molte osservazioni, molti studi e lavori intrapresi con
adolescenti e genitori, hanno condotto la ricerca psicologica a privilegiare
un’idea di continuità, di una visione secondo cui i problemi si aggravano, si
addensano e si amplificano, ma vanno proprio riferiti ad un percorso situato
nella fisiologia dello sviluppo.
Questa è un’idea che porta anche alla visione di una prospettiva dell’adulto e
dell’operatore psicologico che è portato a comprendere dentro questo tracciato
relativo allo sviluppo, le problematiche anche gravi dell’adulto e
dell’adolescente. Da questa analisi si percepisce il significato che le
problematiche presentano nel contesto famigliare, ma più ampliamente nel
contesto sociale, nel porre l’accento su quello che appunto avviene nel processo
di interiorizzazione di informazioni, di comunicazioni a livello più superficiale,
più interattivo, ma in modo più profondo, di identificazioni, di proiezioni, di
meccanismi che hanno strettamente a che fare con l’inconscio e con il nostro
sistema conscio. Tutti questi fenomeni e processi psichici stratificano lo
sviluppo adolescenziale e possono presentarsi anche in termini di osservazione
generale, nel momento stesso in cui sono compresi, ovviamente, in maniera
clinica, quando il ragazzo si presenta con un problema in una stanza di
consultazione o di terapia, ma prima ancora nella volontà della visualizzazione
di un problema e di una difficoltà.
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Così risulta utile mettersi in contatto, anche nel senso della prevenzione con
quelle che sono le possibilità di capire e comprendere profondamente le radici
del problema, per cercare di prevenire gli sviluppi più gravi di una patologia o
di un disturbo psichico. Tutto questo risulta ben presente come filo rosso
nell’esperienza dei centri psicologici operanti sul territorio, che tengono ben
presente il punto di vista psicanalitico e tutte quelle conoscenze che sono in
gioco dalla formazione dell’identità, alla costruzione dell’immagine corporea,
alla dimensione fondamentale delle relazioni sentimentali e dell’integrazione
del corpo sessuale.
Gli aspetti più problematici e le questioni principali che i clinici si trovano ad
affrontare nel momento stesso in cui sono chiamati in causa nella stanza
dell’analista terapeuta, iniziano con una descrizione dettagliata dei disturbi della
condotta alimentare, oppure con tentativi di suicidio, fino a episodi di
antisocialità e tutte le problematiche connesse all’agire trasgressivo e violento
dell’adolescente, in una linea di continuità che va dal bullismo ai fenomeni di
emarginazione, dai limiti della normalità, fino ai casi più gravi e disastrosi. Per
poter fare una prevenzione non solo del disturbo psichico, o in senso lato della
malattia mentale in adolescenza, ma anche in età adulta, andrebbe condotto un
intervento di prevenzione proprio in epoca adolescenziale, laddove si
presentano maggiori potenzialità, per il soggetto, di cambiamento, di
trasformazione, nella possibilità di recuperare la propria storia di vita nella
sofferenza e, per certi aspetti, di contribuire a riscriverla, uscendo anche da
situazioni traumatiche molto gravi e riuscendo a riparare dei fallimenti evolutivi
che tenderebbero a fossilizzarsi, cristallizzarsi e cronicizzarsi, diventando
stabili.
Per condurre una prevenzione ben fatta in adolescenza e in preadolescenza o
anche in epoche precedenti dello sviluppo, risulta importante una valutazione
che permetta all’analista di riconoscere sia su un gruppo, sia su un individuo,
quelle che sono le caratteristiche del problema, situando la manifestazione, il
fenomeno patologico in un panorama più ampio che certamente coincide con le
frustrazioni e gli stress del mondo attuale, ma anche con conflitti e blocchi
evolutivi e arresti cognitivi. Appunto, la valutazione tiene conto del significato
sociale e culturale della nascita, della formazione di un determinato sintomo, sia
nel soggetto, sia nel gruppo, come manifestazioni psicotiche e depressive che,
dal punto di vista epidemiologico, stanno diventando sempre più incombenti e
pervasive nella società contemporanea.
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ADOLESCENZA STUPEFACENTE.
I giovani e le droghe
Elaborato dell’incontro con Alfio Maggiolini ed Elena Rosci del ciclo
IL DISAGIO INVISIBILE presso LA CASA DELLA CULTURA di Milano-
novembre 2004
Il problema “droga” riguarda una certa invisibilità dove si determina e si
manifesta l’assenza di regolamenti specifici su come la scuola deve agire e
comportarsi per intervenire circa la questione spinelli e droghe. L’assenza di
una regolamentazione di questo tipo significa che persiste la mancanza di
cultura, di modi di ragionare e di porsi, su come affrontare la situazione “droga”
tra i giovani. Gli insegnanti tendono a vedere determinate condizioni e
situazioni in modo abbastanza condiviso, ad esempio, per quanto riguarda il
problema spinelli: la questione va trattata all’interno dell’interazione e relazione
educativa dell’intervento pedagogico, mentre la famiglia va convocata in un
secondo tempo, come se il primo passo fosse un trattamento della questione
all’interno della relazione educativa con lo studente, che agisce un
atteggiamento generale riguardante una “scarsa motivazione”. Il trattamento
educativo dovrebbe essere regolato tramite un attento controllo, se la scuola
tiene presente che la questione va trattata anche con l’aumento della
prevenzione, probabilmente si otterrebbero dei risultati motivanti anche
indipendentemente da denunce, da sanzioni, da multe. Le risposte dei ragazzi
rispetto a quali provvedimenti adottare sono orientate verso la dimensione
sanzionatoria che gli insegnanti esercitano meno, privilegiando appunto
l’intervento educativo. I ragazzi sono sempre più rigidi quando si ragiona sulle
trasgressioni e si pongono dal punto di vista di chi deve intervenire. Tutti
manifestano l’idea che l’intervento della denuncia, delle forze dell’ordine, sia
qualcosa che viola la cittadella della scuola e la preziosità della relazione
educativa. Spesso l’idea di ricorrere alla denuncia concerne gli spacciatori
esterni, fuori dalle mura della scuola e dall’alveo della famiglia. Questo
orientamento si scontra con questioni legali molto complesse sul consumo e lo
spaccio di droghe. Nell’ambito dell’argomento della visibilità o invisibilità,
della comunicazione o non comunicazione, su queste problematiche sussistono
molte riflessioni, ma il problema consiste nel confrontarsi vicendevolmente. I
ragazzi producono rappresentazione e idee sempre in movimento rispetto alla
cultura delle droghe che risale agli anni ’70. Nella transizione adolescenziale le
sostanze possono costituire una prima esperienza che ad un’età più avanzata
può portare al consumo di sostanze più gravi e mortali. I fattori motivazionali
che determinano la scelta delle varie sostanze sono differenti. Quando pensiamo
all’uso in adolescenza di sostanze, siamo culturalmente invasi da uno stato
d’allarme e di ansia perché la nostra cultura ha recepito il fatto che nell’arco
degli ultimi venti anni, l’utilizzo delle sostanze in adolescenza è aumentato in
10
modo molto consistente. Questo tipo di allarme che compare spesso sulla
stampa, nei testi divulgativi, tra le conversazioni, non produce una vera
conoscenza del fenomeno. Affermare che l’uso di sostanze in adolescenza è
aumentato in modo vertiginoso, non significa sapere molto su qual è la
relazione fra gli adolescenti e l’assunzione di sostanze. Da un lato l’utilizzo
della cannabis è davvero diffusissimo, dall’altro la relazione tra l’adolescenza e
queste droghe può essere di tipi diversi. L’uso di sostanze in adolescenza non è
dipendente, ma nel corso evolutivo giovanile sono presenti degli stili di utilizzo
delle sostanze tra cui l’assunzione dipendente risulta assente. L’uso di sostanze
di tipo dipendente si presenta maggiormente nella fascia d’età giovane-adulta
ossia dai 20 ai 30 anni. D’altra parte è vero che le sostanze illegali subiscono un
andamento di utilizzo che presenta il suo apice tra i 20 e i 30 anni e poi decade
drasticamente. Mentre le sostanze legali come alcool, nicotina e psicofarmaci
sono droghe dell’età adulta, ossia permangono nell’utilizzo per tutto il corso
della vita. Nell’universo dell’assunzione di sostanze sussiste una gamma di
vicinanza alle droghe che va da un contatto episodico, sporadico, di poco peso,
in modo progressivo, differenziato, fino ad un utilizzo molto critico che
riguarda un numero di soggetti limitato, prefigurando una situazione per cui nel
corso della prima adolescenza l’uso più frequente è di tipo esperienziale, ossia il
contatto con la sostanza riguarda la possibilità di praticare nuove esperienze in
tutti gli ambiti della vita tramite l’evasione e le trasgressioni. L’utilizzo della
cannabis, insieme all’alcool e alla nicotina, sono talmente diffuse tra i giovani
anche se spesso in forme appunto non gravi, così da diventare degli elementi
della costruzione dell’identità giovanile. L’estrema diffusione di queste sostanze
fa diventare le droghe psicoattive appunto, uno dei tanti elementi su cui ogni
adolescente si confronta. Nella generazione degli anni 70 un ragazzo che voleva
fare uso di cannabis doveva cercarla attivamente con una forte motivazione per
reperire un gruppo adatto con cui condividere l’esperienza e naturalmente uno
spacciatore. Invece ai ragazzi di oggi questo tipo di sperimentazione avviene in
modo facilitato perché sempre nella loro cerchia amicale, scolastica e sociale
possono accedere a queste sostanze senza dover fare scelte molto motivate e
drastiche. E’ più difficile per gli adolescenti dover decidere di non provare
l’esperienza, piuttosto che accettarla, perché provare la cannabis è un rituale
assai diffuso. I soggetti impulsivi, poco riflessivi, con scarsi supporti famigliari
possono avere più occasioni e possibilità di scadere nella devianza con l'utilizzo
di sostanze come esperienza fondamentale nella propria vita, ma se si osserva il
fenomeno in un’ottica clinica, la discriminante principale tra un utilizzo
sporadico, blando, occasionale, che si potrebbe definire come non significativo,
e un utilizzo problematico, frequente che può mettere in difficoltà un soggetto,
riguarda essenzialmente la questione della decisione di una strategia d’azione
per cui la sostanza con effetto psicoattivo viene a far parte di una forma di cura
di sé che permette di integrare il principio psicoattivo nella propria vita, quasi
come se si assumesse uno psicofarmaco. Questo elemento di cura di sé prevede
11
una certa frequenza e assiduità nell’assunzione. Il giovane senza un uso
continuativo e consistente non muta il suo equilibrio fisico e psichico, ma
trasforma solo la propria immagine sociale. Si intende per cura di sé un
palliativo alla difficoltà di tollerare l’ansia e i pensieri turbolenti del processo di
crescita, nell’ambito di un senso di fragilità e vulnerabilità della propria
immagine interna che genera il dolore mentale della percezione di sé come
personaggio incerto, instabile, insicuro in continua transizione.
Esperienze in diverse realtà scolastiche
IL PRIMO E L’ULTIMO DELLA CLASSE
Il disagio invisibile
Ciclo di incontri presso la CASA DELLA CULTURA di Milano, in
collaborazione con IARD, Il Minotauro, e con il patrocinio dell’Ufficio
Scolastico per la Lombardia e la Regione Lombardia
La prima citazione è da “Ex catedra” di Domenico Starnone, in cui si legge
all’inizio “nessun insegnante ama davvero, senza riserve, i primi della classe”.
Il ritratto del primo della classe non risulta impositivo, ma rappresenta tutto ciò
che non ha l’ultimo della classe. Esiste un testo di Dino Provenzali intitolato
“Manuale del professore perfetto” edito nel 1921, in cui si ritrovano in maniera
allarmante molti dei problemi aperti attualmente nella scuola. Tutte le volte che
vediamo riprodursi i problemi quasi identici non significa che niente cambia,
che il mondo è sempre uguale, ma che un tempo vi erano enormi problemi
aperti all’origine e che per quanto si sia fatto nel giro di un secolo non si è
ancora trovata soluzione.
Gli ultimi della classe sono in qualche modo una sintesi dei problemi aperti a
livello sociale e scolastico.
Il primo della classe è come un problema risolto, una questione che non sussiste
più per gli insegnanti, mentre l’ultimo della classe è un fardello di
contraddizioni e di interrogativi continuamente irrisolti. L’ultimo della classe
rappresenta la prova tangibile che in un gruppo di scolari, il lavoro di un
insegnante si scontra sempre con difficoltà onerose. L’area a cui viene rivolta
l’attenzione degli insegnanti è quella dei mediocri, che nei consigli di classe
viene sommariamente definita e presentata in questi termini “la classe per
andare bene, va… c’è un piccolo gruppo che lavora molto, molto bene. C’è un
gruppetto che disturba moltissimo e prima ce ne sbarazziamo e meglio è, e al
centro c’è una palude di gente che lavora e non lavora, stenta a studiare” però
quella “palude” è il gruppo su cui l’insegnante si è impegnato maggiormente,
perché sul primo della classe non occorrono interventi, l’ultimo della classe sta
quieto e non è un problema, è lì, nella “palude”, che l’insegnante si concentra e
sperimenta la fatica e la difficoltà di insegnare.
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Quando comincia ad avvilirsi, a perdere colpi, allora inizia a dire che sussiste
un’area di mediocri: sono le frasi fatte degli insegnanti che non vanno prese
come un abbassamento della figura docente, ma segnalano dei problemi. Lì
viene indicato che ciò che l’insegnante vorrebbe fare e gli obiettivi prefissati,
ogni anno sono falliti. Ogni anno scolastico l’insegnante scopre che la fatica
intrapresa e il desiderio di ottenere risultati migliori, sono, in qualche modo,
andati al disotto delle aspettative. Proprio in quell’area di mediocri sussiste la
realtà della scuola, mentre invece il primo e l’ultimo della classe sono
veramente figure per molti aspetti simboliche e rappresentative. Il primo della
classe per l’insegnante è un ragazzo che se anche non avesse frequentato
sarebbe sempre stato così.
L’ultimo della classe è un ragazzo di cui presto l’insegnante si convince che
doveva venire a scuola, ma è come se non ci fosse mai stato. “La scuola serve
nella sostanza a chi non ne ha bisogno”: è una battuta brutta, cattiva, ma
significativa, indica quanto in realtà gli insegnanti per testimoniare un buon
lavoro, andando ad indagare sul gruppo di mediocri, scoprono che sicuramente
alcuni di loro, magari non tutti, avrebbero dato magnifici risultati anche senza
l’ausilio del corpo docente, allora si scopre una situazione avvilente che porta
quel meccanismo di frustrazione in cui la realtà scolastica ha imperversato fino
ad oggi. Nella letteratura scolastica si ha l’impressione che la scuola sia stata
permanentemente in crisi; si avverte che l’insegnante sembra aver vissuto la
propria professione sempre come un fallimento. Gli insegnanti scrivono molto
sulla scuola nel momento in cui subentrano grandi mutamenti. Nel momento in
cui l’istituzione scolastica appare stabile, per esempio, sotto il fascismo, è
difficile trovare produzioni letterarie critiche sull’insegnamento e il modo di
fare scuola.
Appena cominciano i momenti di ebollizione, come il ’68, ma anche per
esempio il primo grande passaggio da una scuola elitaria a un progetto di scuola
di massa, nei primi anni del 900, si sferra un attacco frontale alla scuola in
cambiamento e che sta introducendo gente meritevole di starsene al di fuori. La
nuova tendenza strisciante all’interno della realtà scolastica è il presupposto che
l’insegnante è libero di professare la lezione e uscire dall’aula, quando ha finito,
ma non è mai stato così, perché la scuola pubblica è un’entità complessa, è un
progetto molto complicato nato con l’illuminismo e che continua ad andare
avanti in una fase in cui l’illuminismo è decaduto. Quindi si assiste ad un
“progetto scuola” che avanza, mentre la società intorno oscilla continuamente
tra dittature e culti dell’uomo della provvidenza e culture dei massmedia. E’
chiaro che la scuola muovendosi tra queste oscillazioni si trova in crisi
permanente.
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Primi accostamenti al problema del disagio in classe
Disagio sovraindividuale
La classe dimostra scarso interesse e patente abulia relazionale e cognitiva verso
ogni proposta didattica innovativa e propositiva che scade inesorabilmente nel
rifiuto e nell’avversione totali verso l’impegno di studio e di metodo. L’idea di
impegnarsi con assiduità su un copioso numero di verifiche variegate nel
contenuto e nelle modalità di svolgimento viene respinta per la scarsa volontà,
per l’immotivato zelo nell’agire a favore di forme di gioco monotone, stupide e
dettate dal bieco consumismo dei mezzi di comunicazione di massa che denota
in modo evidente un basso tasso di valorialità personale pressochè incentrato
sull’estetica, per le ragazze, e sul principio di forza, per i ragazzi. La proposta di
percorsi didattici di contenuto educativo valoriale veniva respinta in nome di
emblemi e simulacri di personaggi ben più importanti da perseguire e da
innalzare a idoli del momento, di uno spaccato di classe povero di idee, banale
negli interessi dove un certo tipo di consumismo fondato su meccanismi
mercificatori biechi fa presa per la futilità, la vacuità e l’inanità dei messaggi la
cui fruizione non implica per niente un cospicuo investimento di energia
intellettiva. Tale disinteresse per pratiche metodologiche, didattiche, di
contenuto, di riflessione ed il rifiuto verso un impegno intellettivo, collegiale
basato sul confronto, il dialogo e l’interscambio costruttivo di opinioni
ingenerano sempre individualismo, opportunismo e disinteresse verso l’altro, in
tutte le accezioni di alterità, implicanti differenze, divergenze e diversità, per cui
il ragazzo non attribuisce, secondo un’ottica di ottimismo esistenziale, senso e
significato al mondo, alla realtà nella relazione con l’”altro e con tutti gli “altri”.
In queste situazioni i genitori non sanno intervenire, ma si arrogano il diritto di
sapere, di potere, di essere in grado di risolvere la situazioni con interventi
incoerenti, impertinenti e soprattutto incompetenti, creando ulteriore confusione
e difficoltà.
L’avvenimento di crisi, di rottura, di separazione e volontà di presa di distanza
dalla personale professione (disagio dell’educatore) si è manifestato con la
completa e assoluta incapacità di gestire una classe estremamente vivace,
ineducata e alquanto disagiata.
Non è stato solo un momento o un evento di sconforto e perdita di fiducia nelle
personali competenze e capacità, ma una catena di avvenimenti che hanno
messo in discussione le parti del ruolo di docente.
Non credevo più nel valore e nell’importanza della trasmissione del sapere alle
giovani generazioni, in quanto la mia esperienza è stata messa in discussione da
atteggiamenti sconfessanti, distruttivi, lesivi, egocentrici e catalizzatori verso
determinati atteggiamenti favorevoli nei confronti di elementi leader interni al
gruppo classe.
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La catena di eventi si è evoluta in senso negativo e nella mia decisione di
scegliere un’altra scuola.
Le questioni chiave che si presentavano consistevano nella scarsa accettazione
della sottoscritta e scaturivano dal confronto con l’insegnante precedente e la
completa assenza del supporto dei colleghi, del consiglio di classe stesso e del
dirigente scolastico.
Il presente dell’azione si riproponeva e si ripresentificava sempre più alienante e
terrificante ogni mattina, ingenerando in me sfiducia, smarrimento, perdita di
coscienza del ruolo e abbandono della fiducia nelle personali capacità, il tutto
trasposto in un “presente critico” che mi sfidava quotidianamente.
Da questa esperienza traumatizzante rispetto alla fiducia della costruzione di
una mia professionalità, ho appreso la necessità di pensare l’azione formativa
nella sua posteriorità, ossia riqualificare il valore futuro dell’agire educativo,
come sostiene Donald Schön nel saggio “Per una nuova epistemologia della
pratica professionale”.
Disagio individuale
Francesco è un preadolescente carismatico all’interno del gruppo classe.
Il disagio del ragazzo presenta fattori di esistenzialità come la difficile ricerca di
un’identità che trova nell’identificazione con i supereroi della lotta libera con
conseguente immedesimazione ed emulazione della pratica violenta che si
ritorce anche sui compagni stessi. La forza fisica diviene la compensazione ad
un insuccesso scolastico sconfortante da cui deriva un’insoddisfacente
immagine di sé. L’interiorità del ragazzo si proietta costantemente su figure
vittoriose di supereroi e si confronta con una realtà veritiera e spesso
conflittuale, opprimente e frustrante, come quella della scuola e dei pari. In una
realtà di pattualità e negoziazione il supereroe presenta un senso di mancata
realizzazione e una sensazione di inadeguatezza perché la forza e la violenza
non hanno campo dove prevalgono il dialogo, il confronto, la ragione della
condivisione. Sussistono probabili origini nella sfera famigliare e affettiva, in
quanto il padre del ragazzo ha dichiarato di aver vissuto un’infanzia molto
difficile, travagliata e contaminata di espedienti per sopravvivere. Entrambe le
situazioni (padre e figlio) manifestano un difficile percorso di conquista di
autonomia e di paura di crescere, rifugiandosi in un infantilismo aggressivo e
superomistico e immedesimandosi nel boss o nel supereroe di turno propugnati
dalla televisione. Si avverte un eccesso di delega o procrastinazione delle scelte
importanti, come il cambiare i propri atteggiamenti al fine di conseguire un
auspicabile successo scolastico, che sancirebbe il passaggio, la transizione più o
meno metaforica ad una condizione di maturità tanto agognata, in seguito ad
un’adolescenza vissuta in modalità davvero problematiche, che hanno
comportato disagi a genitori, insegnanti e al ragazzo stesso che intimamente
matura un sensazione di inferiorità dettata dai continui e ripetuti insuccessi
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scolastici. Francesco esercita poteri di comunicazione, di controllo, di influenza
non positivi e poco costruttivi, incentrati a volte all’azione violenta che
dissemina incomprensioni, angherie e soprusi all’interno delle dinamiche
interrelazionali.
Il ragazzo presenta comunque a tratti stimoli all’apprendimento e alle procedure
didattiche con volontà ed impegno a livello cognitivo dimostrando acume
intellettivo.
Francesco quest’anno intraprenderà un percorso di laboratorio autobiografico
focalizzato sulla narrazione di sé e della propria storia di vita e di formazione, al
fine di tentare un recupero del suo vissuto di disagio ingenerato ed accresciuto
da un provvedimento di bocciatura che ha costituito un incidente critico,
traumatico e insanabile nella vita scolastica e comportamentale di Francesco.
Tipologia e caratteristiche del disagio
IL DISAGIO INVISIBILE E LE DINAMICHE RELAZIONALI DEL
GRUPPO CLASSE
Il concetto di disagio e i suoi indicatori
Il disagio adolescenziale rappresenta ed interpreta un passaggio di transizione
esistenziale verso un processo di autonomia ed un percorso di progressiva
emancipazione dalle figure cardine della prima infanzia, non privo di arresti, di
stasi, di drammatici regressi e rifiuti di crescita tramite trasgressioni,
sconfessioni di norme e criteri precostituiti e confutazioni di punti di vista più o
meno imposti ed impositivi.
La percezione di inadeguatezza adolescenziale comporta la volontà di
superamento dei modelli della fanciullezza, dei suoi affetti, delle sue norme, dei
suoi tabù e divieti, ma anche degli agi, cercando, in opposizione, i continua
apicali del rischio, della sfida contro qualsiasi tipo di ostacolo. Comunque
rimane aperta la questione dell’indagine del disagio sia attraverso le dinamiche
dell’attore, sia nelle modalità del sistema, sia nei fattori e negli indicatori
dell’ambiente. Anche alla luce del tirocinio che sto conducendo di carattere
“riabilitativo” rispetto a un disagio straordinario di cui si conoscono solo in
parte le cause, sembra opportuno trattare di tematiche affini.
Risulta interessante osservare come l'azione di incentivo alla stima di sé, anche
tramite la modalità del conseguimento di risultati positivi a scuola, influenzi
anche le dinamiche del gruppo classe (Palmonari) e come subentrino forme di
compensazione all’insuccesso scolastico quali lo sport, l’altro sesso, la
popolarità, l’aspetto esteriore, ossia incentivi e stimoli di riscatto per la perdita
di stima nei confronti dell’ambito didattico, disciplinare e quindi della sfera
cognitiva del pensiero, che riflette una forma nota di disagio ordinario.