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un artista francescano
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, ma un giovane imprenditore al servizio di quella
Confraternita. Che tutta la sua produzione tragga ispirazione e consistenza
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dalle
suggestioni provocate dall’esperienza del Santo di Assisi, è un fatto che
condivido, e che cercherò sommariamente di chiarire nel corso della seguente
trattazione, ma sono alieno dal forzarlo in categorie arbitrarie, di comodo. Il
Meccoli, sull’onda di un giustificato entusiasmo, in un articolo che risulta ormai
troppo datato, lega Giotto a Francesco in un fantomatico connubio amoroso
4
. Il
mio lavoro è, in un certo senso, finalizzato a ribaltare questo superficiale
romanticismo. Ci è escluso di sapere se Giotto avesse provato un sentimento di
affetto sincero per il Poverello. Abbiamo un suo scritto, una Canzone sulla
povertà, che non ci aiuta. Anzi. Se è possibile considerarlo un pittore, diciamo
così, “francescano”, bisogna concludere che è tale, io credo, senza saperlo,
condizionato anch’egli da quel rinnovamento spirituale, da quella nuova visione
della natura e dell’uomo che la vita secolare di Francesco ha reso praticabile e
operante. La Legenda Major è stata in questo caso un’occasione da non perdere.
Gli è stata concessa dalla classe dirigente dell’Ordine, la possibilità di trasferire in
pittura gli episodi significativi della vita del Poverello, accompagnandoli con un
grammatica pittorica tutta incentrata sul senso concreto, tangibile, delle cose. Se
Francesco ha laicizzato il sentimento religioso, l’artista ha fatto pressappoco lo
stesso, fornendo alla vista di tutti i fedeli le condizioni di possibilità affinché quel
sentimento potesse entrare con prepotenza nella pittura quale patrimonio
inestimabile per il suo successivo sviluppo. E’ vero, dunque, che tutta la poetica
giottesca è riconducibile allo stimolo francescano, ma non per un coinvolgimento
intimo e personale, ma per una intelligente comprensione di quel che il
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ANTONIO MECCOLI, Giotto e il francescanesimo, (313 -352) in, BOLLETTINO DI
INFORMAZIONI DI STUDI BONAVENTURIANI, anno XXIII, Viterbo, luglio 1976, p. 317
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Ivi, p. 317
4
“Certo grande era l’amore di Giotto per il Santo”, ivi, p. 3
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movimento incarnava. Poteva in cuor suo non provare nessuna stima per la scelta
del Santo, ed essere allo stesso tempo il più grande, per certi versi il solo,
sicuramente il primo artista a tradurre la gamma dei valori e delle gestualità in un
alfabeto finalmente moderno.
Non ci sarà, allora, banco di prova migliore quando il pittore toscano
accetterà l’oneroso incarico di affrescare le pareti della navata superiore della
Basilica di Assisi con un programma di ampia portata non più rivolto a circoli
ristretti, ma all’intera comunità dei pellegrini. Un aggiornamento della vita di
Francesco anche in chiave iconografica. Solo seguendo la linea di un attento
confronto tra gli episodi e le fonti relative sarà possibile riconoscere, al di là
dell’oculata vigilanza della committenza, quel filo sottile che riassume le
sollecitazioni scaturite dalla vita del Santo, superando il paradigma
bonaventuriano, in un opera che ne esalta i valori non per una adesione emotiva,
ma per una ragionata riflessione.
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…ma intervenne il culto dei santi,
fioriti in tempi prossimi a quello in cui
visse il pittore. Tali santi, in particolare,
furono prescelti da Giotto, spinto dalla
propensione per l’immediato presente.
G.G.F. Hegel
La primitiva iconografia.
Se si esclude la prima immagine di Francesco conosciuta, quella del Sacro
Speco di Subiaco in cui il santo compare senza stimmate e senza aureola, la serie
delle tavole istoriate successive seguono uno schema che ha risonanze orientali,
pur nella novità dell’inserimento della cuspide e dell’utilizzo di una superficie più
estesa. Il dipinto occidentale su tavola – sottolinea il Belting – si è emancipato
con una rapidità inaudita, liberandosi fin dall’inizio da quel rigido vincolo con
tipi atemporali che in Oriente non vanno mai meno
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: la figura del poverello, a
partire dalle prime raffigurazioni, è modellata secondo una tradizione consolidata
(quella benedettina) che voleva il santo emaciato, smagrito e con la barba. Il saio
scuro e pesante, annodato all’altezza della vita con una grossa corda, i piedi scalzi,
il volto segnato dalla sofferenza, descrivono l’aspetto di un uomo che ha scelto la
povertà evangelica come modello di vita e nello stesso tempo rivendica un
modello ideale per i fraticelli. Il Vangelo sotto il braccio richiama la linea di
condotta di una comunità che ha deciso di abbracciare le virtù apostoliche.
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La differenza tra Occidente e Oriente, prosegue lo studioso, in merito alle icone, consiste più
sulla forma che sui contenuti. Per esempio in Occidente, la mancanza di una cornice stabile
permette ai pittori di dare diverse forme al tabellone a seconda della esigenze del caso. HANS
BELTING, Il culto delle immagini, Roma 2001, p 430.
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Intorno, lungo i lati del dossale, quasi una cornice ideale, la serie degli episodi più
importanti della sua vita. Da qui il nome, appunto, di tavole historiate. Perduta la
più antica, quella di san Miniato, datata 1228, la prima testimonianza risale al
dossale di Pescia (1235) attribuito a Bonaventura Berlinghieri. Ultime della serie
il tabellone di Orte (1282 c.) e quello di Siena (1285 c.). La confluenza della
imago e della historia, cioè della figura intera di Francesco e della cronologia
della sua carriera, oltre a presentarlo quale immagine da venerare, permette al
fedele di seguire le tappe della sua esperienza terrena, tanto vicina e viva nella
memoria dei contemporanei. La relazione tra l’immagine centrale e le storie
laterali non è una novità assoluta: anche in Oriente questa soluzione veniva usata
in occasione delle festività nelle quali si raccontavano virtù e miracoli del santo di
turno.
Agli inizi, gli episodi della vita erano molto ridotti: per esempio a Pescia ci
si limitò a quelli delle stimmate e a quello della predica agli uccelli, dedicando gli
ultimi quattro ai miracoli post-mortem, quelli commentati da papa Gregorio IX in
occasione della canonizzazione e perciò divenuti “ufficiali”. Nel corso dei
decenni, in linea con gli sviluppi dell’ordine e dei relativi aggiornamenti sulla vita
di Francesco, ci si concentrerà maggiormente sull’esercizio delle virtù, da ora
presupposto inalienabile per comprovarne la santità
6
. Come nella tavola Bardi di
Santa Croce a Firenze, ricca, come nessun‘altra di tante scene, alcune delle quali
non si ritroveranno più.
A che cosa è dovuto lo strepitoso successo dell’iconografia francescana, se
si considera che solo una parte esigua di una copiosa produzione non è andata
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Si tratta di un orientamento in linea con le scelte della Curia Romana più sollecita nel corso del
tredicesimo secolo a concentrarsi sulla vita degli Eletti agli altari piuttosto che sulla forza del
prodigio tutt’altro che comprovato, anzi, a volte suscettibile di inganno. La presenza dei miracoli –
sottolinea Vauchez – era una concessione alla semplicità popolare, ma non costituivano più una
prova di effettiva santità. ANDRE’ VAUCHEZ, La Santità nel Medioevo, Bologna 1989, p. 557
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perduta nel corso del tempo? E’ la stessa domanda che si è già posto lo storico
Klaus Kruger. La sua risposta è molto semplice: Francesco mise in moto
l’immaginazione dei contemporanei come nessun’altra figura del medioevo
7
.
L’immaginazione appunto. La sua esperienza personale ha alimentato la creatività
di molti artisti emergenti. Il suo successo, innanzitutto, dipende dall’inaudita
novità (falsa o presunta che sia) delle stimmate, e dal fatto che si trattasse in una
storia tutta da raccontare. La crescita esponenziale della Confraternita, il profilarsi
di un ruolo decisivo e di primo piano nella logica della politica papale, il carisma
di Francesco che cominciava a delinearsi in tutte le sue sfaccettature, non
potevano non essere seguiti da un frenetico desiderio di patrocinarne l’immagine.
Non c’è da stupirsi se al tramonto del secolo XIII, quando l’Ordine sembra aver
raggiunto una parvenza di solidità ed una diffusione capillare in tutta l’Europa, si
sentisse l’esigenza di modificare anche l’iconografia aggiornandola alle mutate
condizioni. Di fatto, le prime tavole seguono il modello bizantino ingigantendo a
dismisura la figura del Santo, quasi fosse una presenza reale, una reliquia vivente.
Questi enormi tabelloni mobili venivano utilizzati solo in occasione della liturgia
e posizionati in prossimità del presbiterio.
La prepotente comparsa della Pala d’altare (questa d’ora in avanti ubicata
definitivamente), il febbricitante aggiornamento della vita del Santo e le prime
soluzioni ad affresco, resero questa espressione non più in linea con i tempi.
Inoltre, le tavole dipinte, portavano con sé alcune carenze, diciamo così, narrative.
Un problema non trascurabile se si considera che si doveva dar notizia della vita
di un uomo contemporaneo: il registro dell’icona bizantina, infatti, chiude i
soggetti in uno schema compiuto e senza compromessi, nel quale ogni atto è per
la verità definitivo, emblematico, nel suo colloquio infinito. Quasi simbolo ideale,
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KLAUS KRUGER, L’immagine di san Francesco nelle tavole del Duecento, in AAVV,
Francesco d’Assisi e il primo secolo di storia francescana, Torino, 1997, p. 148
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incorporeo, lo spazio sembra tradire tempo e luogo: in un bagno d’oro vengono
ritagliate figure dall’eternità, presenze vive e pulsanti che guardano e controllano
il docile fedele. Il Santo di Assisi, invece, stimolava la fantasia e la curiosità di
molti artisti per la sua caratteristica di essere non solo un uomo salito in fretta agli
altari della chiesa, ma più ancora per la sua straordinaria popolarità e vicinanza
alla gente comune: Francesco era non solo un contemporaneo, ma anche un
Santo di nuovo tipo, per il quale non andava più bene la canonica iconografia
(…) Giotto si trovava – conclude il Belting – non solo di fronte al compito di
delineare un immagine di culto adeguata ma, con l’occasione, si cercava di
descriverlo esattamente come l’ordine aveva piacere di vederlo
8
. Giotto, seguito
dai suoi collaboratori, sarà deputato a questo compito delicato: dar notizia
attraverso una nuova forma della vita carismatica di un Santo moderno. Non
poteva esserci scelta migliore: un ordine innovatore ricorse ad un pittore
innovatore
9
.
Quello che qui è importante sottolineare, e avrò modo di verificarlo nel
corso del lavoro, è come il pittore abbia ridotto ai minimi termini questo scarto,
cioè il grado di iconicità (Argan) di Francesco, per dare allo spazio una regola
approssimativa, se vogliamo di convenienza, in conformità con il decreto carolino
secondo il quale di una immagine non si accetta il culto ma la sua funzione
didattica. Ed il fedele alle soglie del XIII secolo aveva bisogno di questo: non di
“presenze vive”, ma di “materia morta” che deve essere guardata, di un ritratto
dalla parvenza popolare dal quale l’affettività potesse scaturire non per un atto
coercitivo, ma per una scelta personale, per il suo grado di comprensione e di
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HANS BELTING, ivi, p. 467. Questa stretta vicinanza risulterà la formula vincente in termini di
consenso popolare: Il culto dei Santi – dice Vauchez – discese dal cielo in terra e, diventato fatto
di popolo, ebbe in certo modo a volgarizzarsi. Ai Santi tradizionali i laici preferivano intercessori
più vicini nello spazio e nel tempo e cioè Santi moderni e locali. VAUCHEZ, ivi, p. 81
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UMBERTO MILIZIA, Il Ciclo di Giotto ad Assisi. Struttura di una leggenda. Anzio 1994, p. 31.