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All’emergere delle difficoltà di realizzazione autonoma di sistemi di produzione
locali, possibili solo grazie alla sussistenza, viene studiata una linea strategica di azione
che riconosce all’agricoltura Europea il ruolo di tutore dell’ambiente attraverso una
moltitudine di modelli di produzione locali da orientare in funzione delle aspettative dei
consumatori, principalmente cittadini, che richiedono beni e servizi di elevata qualità e
dalle spiccate caratteristiche di tipicità. La riuscita del descritto approccio strategico
appare, quindi, simbionticamente e profondamente legato alla creazione di una nuova
coscienza ambientale da far acquisire al consumatore cittadino.
La nuova coscienza ambientale getta le sue fondamenta negli anni novanta del
Novecento, assume forma di movimento culturale e coinvolge un gran numero di
cittadini europei e del mondo. Si chiede di amplificare la sensibilità dell’uomo comune
ai problemi dell’ambiente coinvolgendo in maniera determinante tutti gli abitanti del
pianeta terra ai quali vengono fornite le conoscenze scientifiche relative al patrimonio
naturalistico, in passato esclusivo appannaggio degli studiosi.
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In Italia, nell’anno 1991 la Legge quadro sulle aree protette 394/91 istituisce 7
nuovi parchi nazionali che si sommano ai 5 vecchi parchi storici italiani ed ai 9 che si
aggiungono dal 1993 ad oggi, per un totale di 21 parchi nazionali.
Il Summit di Rio de Janeiro del 1992 aumenta in maniera rilevante la sensibilità
verso i problemi ambientali, evidenziando le responsabilità comuni nei confronti della
biodiversità presente in tutti i Paesi del mondo, quotidianamente a rischio per la non
corretta occupazione del territorio da parte dell’uomo. Pur tuttavia, appare evidente la
necessità di legare la gestione del territorio e quindi dell’ambiente ad un suo corretto
uso attraverso il connubio indivisibile tra agricoltura e natura che viene identificato con
il moderno termine di “Sostenibilità o di uso sostenibile delle risorse naturali.”
L’evoluzione delle politiche pubbliche tiene quindi in debito conto le necessità
economiche e sociali legate all’imprenditoria (industriale e agricola) ma inizia a
considerare con forza la richiesta della società civile moderna (società di massa e
società di alta segmentazione) per la protezione e la conservazione della biodiversità,
che chiede sempre più insistentemente di fondere cultura, colture e natura.
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Il riscaldamento globale, la scomparsa di numerosi habitat naturali e di un gran
numero di specie animali e vegetali, il prelievo indiscriminato delle risorse naturali, le
enormi esigenze di una crescente popolazione mondiale, l’aumento delle scorie passano
per la conferenza di Kyoto del 1997 e per il recente vertice di Johannesburg (2002) ed
indicano chiaramente che ad una crescita dell’informazione globale è necessaria una
rapida crescita tecnico-scientifica dei quadri dirigenziali e tecnici cui sono deputate le
attività di programmazione territoriale locale. In tal modo è possibile giustificare il
mantenimento di elevati livelli di sostegno a favore di un settore che peraltro
attualmente riveste un ruolo trascurabile in termini di contributo all’occupazione.
Da sempre l’agricoltura usa le risorse ambientali, ma negli ultimi anni si è reso
indispensabile comprendere l’insieme degli effetti negativi e positivi che le attività
agricole esercitano sull’ambiente, e codificare dei reference level in grado di
evidenziare il livello al di sotto del quale lo sfruttamento agricolo produce danno alla
collettività, e al di sopra del quale l’agricoltura produce dei servizi ambientali.
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Il livello di riferimento indicherebbe, quindi, fino a che punto la società si
attende che l’agricoltore cooperi al mantenimento dell’ambiente. Il sistema dei
reference level rappresenta il moderno sistema di gestione che la U.E. ha predisposto
per modificare le modalità di sostegno finanziario per il periodo 2000-2006: la società,
infatti, riconosce all’operatore agricolo un ruolo positivo ed è disposta a sostenerlo nello
sforzo se le sue attività sono sopra il livello, mentre sotto tale livello la società civile
imputa all’agricoltore il costo di un danno ambientale ed applica il principio “chi
inquina paga” (Polluter Pays Principle).
Alla luce di quanto esposto si evince come sia indispensabile che la politica
agricola sia impegnata ad agire sui meccanismi economici per ottenere produzioni
sostenibili che esercitino una minore pressione sull’ambiente (riduzione dei mezzi
chimici) ed allo stesso modo va considerato l’effetto che può avere la riduzione del
sostegno dei prezzi in aree con ecosistemi fragili (presenza di fenomeni di erosione e
franosità) dove l’agricoltura è possibile solo con sistemi tradizionali e si rende
necessaria per il mantenimento delle risorse naturali.
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Così come qualsiasi attività agricola comporta una trasformazione della natura,
anche la cura e la manutenzione del paesaggio si rende responsabile di una certa perdita
di biodiversità ed è per questo che una corretta gestione del territorio rurale e/o naturale
dovrà tenere in stretta considerazione le complesse relazioni tra ambiente, attività
agricola, servizi ambientali-ricreativi ed i possibili danni ambientali. Alla stessa stregua
va considerato che l’abbandono del territorio precedentemente antropizzato è soggetto a
fenomeni di successione e competizione che prima del raggiungimento di un equilibrio
subirà un lungo periodo di degrado. Si rende pertanto indispensabile una adeguata
formazione degli operatori del settore per vigilare sulle possibili esagerate forme di
attenzione ambientaliste e sulle distorsioni nella distribuzione delle risorse (troppo
spesso soggette a difficoltà di controllo ed a pressioni politiche incongruenti alla
gestione).
Non vanno escluse quindi l’adozione di tecniche a basso impatto ambientale ed i
miglioramenti ambientali di diverso tipo ma comunque assoggettati al sistema di
incentivazione e disincentivazione economica.
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Pur tuttavia, gli agricoltori appaiono molto sospettosi nei confronti di ipotesi a
“sostegno condizionato” ma non potendo ignorare le nuove tendenze di mercato spinte
dalle nuove categorie di consumatori, orientate sempre più verso i prodotti “a valenza
ambientale”, sono loro malgrado costretti a considerare la definizione del livello di
riferimento unico in grado di ridurre le differenze di margine economico tra le aziende
che praticano tecniche intensive, molto dannose per la natura, e quelle che adottando
metodi di coltivazione non convenzionali.
L’U.E. sembra aver scelto, almeno per il momento, un sistema molto elastico
basato tra la “buona pratica agricola“ e la tutela ambientale attraverso il controllo del
prelievo.
Il Regolamento n° 1259 del 99 prevede che gli Stati Membri, per poter
beneficiare dei finanziamenti previsti dalle OCM, devono adottare misure appropriate in
materia agroambientale e quindi devono provvedere a:
- fissare requisiti obbligatori di carattere generale e di carattere specifico, in materia
di ambiente.
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- erogare aiuti in cambio di impegni precisi.
Purtroppo nel regolamento non si parla di disciplinare o codice di produzione,
ma solo di “buona pratica agricola normale” (BPAn), definita come “l’insieme dei
metodi colturali che un agricoltore diligente applicherebbe nella regione interessata”,
necessaria alla concessione degli aiuti possibili solo a condizione che “i beneficiari
rispettino i requisiti minimi in materia di ambiente, igiene e benessere ambientale”.
Per la variabilità estrema delle caratteristiche del territorio Italiano, i concetti di
BPAn e di requisiti minimi, potranno assumere veste di standard solo se si provvederà
alla loro definizione con sufficiente dettaglio sia da un punto di vista territoriale, sia
rispetto agli ambiti di applicazione.
L’opinione pubblica, sempre più sensibile alle problematiche ambientali,
vorrebbe che le attività agricole non avessero un impatto ambientale negativo ma,
contemporaneamente, che gli agricoltori non abbandonassero territori spesso marginali
ed a redditività bassa o inesistente. In quest’ottica e per rendere conciliabili la esigenze
dei consumatori e dei produttori, vengono strutturate le nuove politiche territoriali.
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Numerosi territori svantaggiati o marginali, sono stati inclusi in aree protette ed
in essi l’agricoltura assume un ruolo ancora più importante in quanto rappresenta
contemporaneamente fonte di reddito per molte famiglie, mezzo di conservazione di
antiche tradizioni agricolo-gastronomiche e potente strumento per la tutela paesaggistica
e ambientale.
Gli interventi di politica economica programmati, non possono limitarsi a
stabilire solo vincoli ambientali per le produzioni agricole poiché allontanerebbero
drasticamente le popolazioni residenti favorendo solo coloro che già applicano metodi a
basso impatto e pietrificando, di fatto, le condizioni di marginalità.
Le nuove politiche ecologiche (Agenda 2000) sono pertanto improntate
sull’applicazione di regole comuni opportunamente modificate in funzione delle
distorsioni di interpretazione e degli effetti contrari riscontrati in passato, prevedendo
strumenti correttivi per il riequilibrio e, principalmente, per il coordinamento
territoriale.
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E’ necessario, pertanto formulare proposte che tengano conto non solo delle
opportunità di finanziamento pubblico, ma anche dell’integrazione con i soggetti che
operano nei comparti collegati al settore primario; industrie alimentare, turismo,
artigianato, commercio, ecc.
Se si prendono in considerazione gli strumenti di politica agricola destinati ad
essere attuati nei Parchi e nelle Aree Protette, ci si rende conto che ben poco è stato
fatto: le Politiche Ambientali riguardano ‘tout ensemble’ vaste aree tra cui rientrano
anche quelle protette limitandosi, in alcuni casi, a differenziare i tassi di aiuto o ad
aumentare di qualche punto nella valutazione delle domande di finanziamento senza
mettere in atto un vero meccanismo di programmazione degli interventi pubblici,
mentre la concentrazione degli interventi è l’unico strumento che possa conseguire un
risultato evidente. Le attuali Politiche Agrarie premiano ancora lo ‘status’ di agricoltore
indipendentemente dall’uso che fa delle risorse ambientali a sua disposizione e, se le
domande di finanziamento sono correlate alla densità di popolazione, nelle aree protette
dove minore è la pressione ambientale,sarà minore anche la possibilità di accedere al
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finanziamento pubblico Lo sviluppo agricolo è, pertanto fortemente condizionato dai
vincoli naturali e,nelle aree protette, in molti casi l’abbandono resta l’unica alternativa,
con evidenti riflessi sulla bellezza del paesaggio e sull’uso razionale del territorio.
Le politiche per lo sviluppo rurale rappresentano la vera novità di ”Agenda
2000” infatti le politiche il regolamento n° 1257/99, dedica particolare attenzione alle
zone svantaggiate e/o alle zone soggette a vincoli ambientali, prevedendo un regime di
compensazioni capace di garantire un uso continuato delle superfici agricole e favorire
il mantenimento di una comunità rurale vitale in queste zone con un impegno della
durata di 5 anni durante i quali dovranno essere attuate le buone pratiche agricole in
grado di salvaguardare l’ambiente e conservare il paesaggio.
Gli aiuti sono modulati anche in base a specifici problemi ambientali ed alla
zona di localizzazione aziendale, con l’intento di favorire l’estensivizzazione dei sistemi
di pascolo a scarsa intensità e quindi con un minore impatto ambientale, la tutela di
ambienti di alto valore esposti a rischi, la salvaguardia dei paesaggi e delle
caratteristiche tradizionali della produzione agricola.
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CAPITOLO 2
STRATEGIE DI PIANIFICAZIONE DELLE ATTIVITA’
AGRO-SILVO-PASTORALI SUL TERRITORIO
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L’AGRICOLTURA NELLE AREE PROTETTE
Gli obiettivi di conservazione, caposaldo della gestione di un’area protetta,
potranno essere realmente raggiunti con la coniugazione tra la protezione e
l’ecosviluppo. Tale connubio appare l’unico in grado di rendere accettabili ai residenti
le regole ed i vincoli necessari alla protezione della biodiversità disponibile anche ai
visitatori.
Tra i compiti istituzionali di un parco nazionale, è chiaramente segnato che
appartengono al suo patrimonio il bosco, i corsi d’acqua, le specie vegetali spontanee, la
fauna selvatica ma anche l’agricoltura, le specie coltivate ed allevata, l’uomo, le opere
da lui prodotte, la sua storia e le sue tradizioni.
L’uomo ha svolto da sempre le attività di agricoltura e forestale, nonché
l’allevamento delle specie da reddito agricolo che, nei Parchi, conservano ancor oggi gli
aspetti delle forme del passato.
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Prima di promuovere nuove forme di agricoltura e di allevamento, occorre
trovare i mezzi tecnici ed economici per la sopravvivenza di quelle forme tradizionali
che, senz’altro, appaiono più rispettose dell’ambiente, e quindi eco-compatibili. Pur
tuttavia, non è ipotizzabile che gli anziani agricoltori si aggiornino in maniera rapida
rispetto alle nuove opportunità fornite dall’evoluzione dell’agricoltura moderna, occorre
perciò stimolare l’ingresso in agricoltura di giovani coltivatori e sostenere i più anziani
contro la concorrenza di mercato. Attualmente, i parchi hanno subito una forte pressione
ambientalista che ha osteggiato anche le forme di agricoltura ed allevamento presenti
sui territori protetti. Non è infrequente trovare amministrazioni che utilizzano i pascoli
come mezzo di limitazione della presenza di animali domestici sul proprio territorio atto
che crea attrito con i residenti.
Un vero progetto di sviluppo sostenibile del territorio dovrebbe essere basato
sulla comune intesa fra Parco, Comunità del Parco, Comunità Montane e le comunità
degli allevatori ed agricoltori residenti in zona Parco.