2
La mia tesi fa riferimento alle possibilità e alle sfide che si offrono ai governi
locali europei nell'ambito dello sviluppo della politica regionale europea.
Uno degli obiettivi primari dell'UE è la coesione economica e sociale, per il
raggiungimento della quale è importante anche e soprattutto il livellamento delle
differenze di sviluppo fra le varie regioni dell'Unione, fine ultimo della politica
regionale europea.
Nel primo capitolo ho tratteggiato lo sviluppo degli interventi comunitari in
materia regionale attraverso gli anni 60, 70 e 80, fino ai recenti accordi raggiunti
ad Edimburgo ed ad Amsterdam. Ho messo particolarmente in risalto come, per
far si che questa politica raggiunga efficacemente i suoi scopi, sia essenziale la
collaborazione con i vari livelli di governo subnazionale, per assicurarsi
l'accurata redazione dei progetti e la loro successiva implementazione (cap. II).
In questo ambito i governi subnazionali dei pesi nordici (sia a livello locale che
regionale) sono molto preparati per interagire con successo con le istituzioni
comunitarie, dato il grado minore o maggiore di autonomia che vantano,
appartenendo a stati centralizzati ma profondamente democratici; ciò li fa
essere buoni partners con cui Bruxelles può dialogare.
Ho esaminato in particolare il caso della Finlandia, partendo da un punto di
vista generale, ossia come nel nord Europa vengono affrontate le tematiche
regionali (cap. III), passando poi a tratteggiare un profilo della struttura politica-
amministrativa subnazionale finnica (cap. IV).
Questo paese presenta alcune particolarità. Prima di tutto è da notare come
non esista un livello di governo regionale. Intendo "governo regionale" come
una struttura politica di rappresentanza a livello intermedio. In Finlandia solo le
3
municipalità contemplano l'elezione diretta dei rappresentanti da parte dei
cittadini, mentre gli organi chiamati Makunnat (paragonabili alle nostre regioni)
sono enti amministrativi che si occupano fra l'altro di politica regionale (come
verrà meglio spiegato nel cap. IV).
Altra caratteristica peculiare della nazione finlandese concerne proprio la
politica regionale nazionale, ed è la pluralità di organi che intervengono in
materia; enti le cui competenze finiscono inevitabilmente per accavallarsi. Lo
stesso accade per la redazione e l'applicazione dei progetti comunitari.
Nonostante questi e altri problemi (cap. VII) il bilancio dei primi due anni di
interventi europei è sostanzialmente positivo, forse anche grazie alla collaudata
esperienza di questi organi subnazionali alla gestione delle problematiche
regionali.
I governi subnazionali finlandesi hanno ovviamente, come tutti gli altri organismi
analoghi nei diversi Stati membri, interesse nel procurarsi il maggior numero di
fondi disponibili da Bruxelles, anche se questo interesse non si esaurisce qui di
certo. Molteplici sono infatti le direttive europee che vedono coinvolti i governi
locali nell'applicazione, e svariati sono gli effetti di tali direttive che vanno ad
interessarli. Due sono modi attraverso i quali questi governi subnazionali
possono adire le istituzioni comunitarie: la via nazionale e quella della
rappresentanza diretta a Bruxelles.
Nel capitolo VI ho scritto di come i governi subnazionali influenzino il processo
di policy-making comunitario agendo a livello di Parlamento e Governo
finlandese, tentando attraverso il loro organo di rappresentanza nazionale
(l'Associazione Finlandese delle Autorità Locali e Regionali – A.F.A.L.R.), di far
4
presente le esigenze locali nel momento di decidere quale sarà la linea che lo
Stato finlandese terrà nei confronti dell'UE.
Nel cap. VII ho presentato invece le varie rappresentanze locali e regionali
finlandesi a Bruxelles. Esse operano attraverso: i vari gruppi non ufficiali di
rappresentanza regionale, l'organo ufficiale delle regioni e delle comunità locali
(il Comitato delle Regioni), qualche ufficio di lobby aperto direttamente nella
capitale europea. Questi uffici sono poco numerosi se si confrontano con quelli
di altri Stati membri come la Francia, ma come si vedrà in dettaglio nel capitolo
VII, la rappresentanza diretta è soprattutto affidata all'ufficio di Bruxelles
dell'A.F.A.L.R., contando sia sulle sue maggiori risorse economiche sia sul più
forte peso politico che le municipalità e regioni finlandesi sanno esprimere unite
attraverso un organo comune.
Un'ultima particolarità che ho rilevato, della Finlandia e delle nazioni nordiche,
in tema di sviluppo regionale, è che se si parla di governi subnazionali e di
politica regionale non si può far a meno di accennare anche ai legami che essi
hanno con gli altri governi locali e regionali delle nazioni adiacenti. Nell'area è
infatti particolarmente sviluppato un grande senso appartenenza al gruppo dei
paesi nordici, che accoglie non solo le repubbliche scandinave, ma che è
allargato fino all'Islanda e alla Groenlandia, e anche ai territori contigui dei tre
paesi Baltici e di alcune zone situate in territorio russo (Karelia e dintorni di S.
Pietroburgo). Per ragioni storiche infatti queste sono sempre state aree di
grandi contatti commerciali e umani, certamente favoriti da una certa
omogeneità culturale, e dopo la caduta dell'Impero Sovietico le frontiere si sono
riaperte per un nuovo flusso di scambi. Contemporaneamente, questi territori
presentano peculiarità e problemi di particolare carattere ambientale che solo
5
una stretta collaborazione fra loro può riuscire a risolvere. Nel capitolo VIII ho
presentato per prima cosa i vari organi che riuniscono rappresentanze regionali
e locali di diversi paesi, interessate a favorire un comune e sostenibile sviluppo
nei territori del nord del mondo e, in secondo luogo, i progetti transnazionali,
interregionali e transfrontalieri che riguardano più specificatamente la Penisola
Scandinava e i territori adiacenti. Progetti che oltre ai fondi nazionali, ricevono
anche finanziamenti nell'ambito del programma comunitario INTERREG.
Sono convinta che, in materia di sviluppo regionale, l'approccio degli Stati
membri del nord Europa debba essere esaminato sotto tutti questi aspetti che
contribuiscono a chiarire il punto di vista nordico e il carattere dei loro interventi
nei confronti di questa problematica. Da qui possono venire interessanti
suggerimenti e nuovi spunti di collaborazione fra UE e stati scandinavi.
6
I - LA POLITICA REGIONALE EUROPEA
1 - DALLA NASCITA AL TRATTATO DI MAASTRICHT
Nel 1988 l’allora presidente della Commissione Jaques Delors usò per la prima
volta un concetto destinato a diventare molto famoso nelle stanze della politica
europea: quello di “Europa delle Regioni”. Le istituzioni europee si prendevano
ufficialmente carico anche dei numerosi problemi che affliggevano lo sviluppo
delle diverse entità territoriali che esistevano nel corpo degli Stati membri. Negli
anni 80 che la politica regionale europea è balzata per così dire agli “onori delle
cronache”, ma già fin dal tempo della fondazione delle Comunità Europee è
possibile comunque trovare un interesse dei governi per il problema di un
omogeneo sviluppo territoriale. Nel Trattato di Roma del 25 marzo 1957, anche
se non esiste uno speciale capitolo riferito alla politica regionale, vi possiamo
trovare “implicite ed esplicite referenze”
2
. Nel preambolo infatti gli stati fondatori
si dicono “Solleciti di rafforzare l’unità delle loro economie e di assicurarne lo
sviluppo armonioso riducendo le disparità fra le differenti regioni e il ritardo di
quelle meno favorite”, mentre l’articolo 2 che delinea la missione della Comunità
recita: “La Comunità ha il compito di promuovere…uno sviluppo armonioso ed
equilibrato delle attività economiche, una crescita sostenibile, non inflazionistica
e che rispetti l’ambiente, un elevato grado di convergenza dei risultati
economici, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il
miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e
sociale e la solidarietà tra gli Stati membri.”. Successivamente abbiamo sia
articoli che riferendosi ad adattamenti strutturali nella politica agricola, sociale e
dei trasporti (articoli: 39 par. 2a, 42a, 49d e 75 par.3), rimandano alle
7
preoccupazioni per le disparità regionali, sia altri (articoli 80 par.2, 82, 92 par.
3a e c, 93 par. 2c) che si riferiscono più specificatamente ad aree con
particolari problemi
3
. In ragione di questo veniva creato il Fondo Sociale
Europeo, il primo fondo strutturale consacrato ad alleviare le condizioni dei
disoccupati negli Stati membri.
Erano però solo cenni, una politica relativa solo ed esclusivamente al “problema
regionale” era ancora lungi a venire. Essa si è venuta a formare infatti “passo
dopo passo” a vari livelli, come effetto delle pressioni “dall’alto” e “dal basso”.
Da una parte le istituzioni comunitarie che prendevano sempre di più atto delle
disparità regionali e si rendevano conto che senza un diretto coinvolgimento a
livello locale il gap tra regioni ricche e povere sarebbe aumentato, e l’impatto di
certe politiche comunitarie sarebbe stato impossibile; dall’altro gli stessi Stati
membri che sviluppavano proprie politiche regionali. Nelle stanze della politica
europea il dilemma da risolvere era sempre più spesso quello della
“convergenza”.
1.1 - I PRIMI PASSI
Negli anni 60 cominciano le prime iniziative. Nel 1961 a Bruxelles la
“Conferénce sur les économies règionales” pone per la prima volta l’accento
sulle serie disparità regionali a livello europeo; successivamente nel 1964 si
assiste alla pubblicazione del documento “Rapports des groupes d’expertes sur
la politique règionale dans la CEE” che tratta di tre argomenti: gli obiettivi della
politica regionale, l’adattamento delle regioni in difficoltà, gli strumenti della
politica regionale. Nel 1965 la Commissione presenta al Consiglio il suo primo
rapporto sulla politica regionale in cui si auspicava la necessità di azioni
8
coordinate con le autorità locali, attraverso la creazione di programmi di
sviluppo regionali. Finalmente nel 1968 viene creata la Direzione Generale per
le politiche regionali (DGVI)
4
.
Fino agli anni 70 non erano ancora comunque stati fatti significativi passi avanti.
Ma da quel momento fattori politici ed economici rilanciarono il dibattito sul
problema di un corretto sviluppo regionale. Nel 1971 viene infatti pubblicato il
Rapporto Werner. Il dibattito che ne seguì suggerì che l’esistenza di severe
disuguaglianze avrebbe pregiudicato la riuscita della piena Unione Monetaria
che veniva auspicata dal Rapporto. Anche se il piano venne poi accantonato il
progetto di un'unione economica e monetaria andava avanti e l’esistenza di
gravi disparità regionali soprattutto nei paesi di nuova adesione, Inghilterra e
l’Irlanda nel 72, era incompatibile con tale concetto. Il primo intervento della
Comunità in materia di coordinamento d'aiuto finanziario fu il regolamento del
Consiglio del 20 ottobre 1971.
Nel 1973 il Rapporto Thompson concernente i problemi regionali in una
Comunità allargata raccomandò ancora una volta la coordinazione delle
politiche regionali europee e quelle degli Stati membri. Solo due anni dopo la
Commissione presentò al Consiglio la proposta per la creazione di un fondo per
lo sviluppo regionale
5
. La fase delle negoziazioni fu molto difficile, con da una
parte i tre maggiori beneficiari Inghilterra, Irlanda e Italia, e dall’altra le
resistenze del maggiore contribuente: la RFT. E’ nel summit di Parigi del
dicembre 1974 che viene raggiunta una decisione. Il Fondo Europeo di
Sviluppo Regionale sarebbe diventato operativo nel 1975 e avrebbe coperto un
periodo di prova di tre anni. La Commissione, come stabilito nel regolamento
del fondo, avrebbe dovuto presentare al Consiglio nel corso del 1977 proposte
9
concernenti il futuro della politica regionale. A seguito di una decisione del
Consiglio del 6 febbraio 1979 la preparazione di questo rapporto divenne
periodica. Consisteva in un’analisi dello sviluppo socio-economico delle regioni
della Comunità e conteneva inoltre proposte di linee guida e priorità al Consiglio
sulla base dei dati presentati (Trattato CE art. 130b)
6
.
Tra il 1975 e il 1984 i finanziamenti agli Stati membri furono circa 11.537 milioni
di ECU. Nel 1984 il budget a disposizione del FESR ammontava a 2.320 milioni
di ECU
7
. Era un budget piuttosto ridotto, solo l’8% dell’ammontare di quello
comunitario, e di conseguenza non contribuiva significativamente alla
maggioranza dei progetti iniziati. Quello del bilancio non era in ogni caso
l’unico problema. Non meno del 98% dei fondi veniva incanalato in progetti
individuali mentre solo il 2% veniva usato per progetti di sviluppo generali.
“C’era il sospetto che gli Stati membri stessero usando i fondi come contributo
ai propri bilanci nazionali invece che usarli per progetti regionali addizionali”
8
.
Ciò era causato dal fatto che le aree da sviluppare erano in ogni caso designate
dagli Stati membri. Fu solo con l’apporto di successive riforme che si
raggiunsero finalmente due scopi: incrementare l’ammontare delle risorse, e far
inclinare la bilancia delle responsabilità in materia di sviluppo dagli stati alla
Commissione e alle autorità locali. Nuovi fattori economici rendevano
indispensabile infatti una riforma della politica regionale.
1.2 - LA STRADA VERSO IL 1988
La deindustrializzazione stava colpendo severamente zone che erano state il
motore economico europeo per più di un secolo, e il cuore della creazione delle
Comunità Europee nel 1957: Francia del nord, Rurh tedesca, Belgio, Inghilterra
10
centrale; in queste regioni importanti cambiamenti strutturali erano in atto e
incidevano sulla vita di milioni di persone. Industrie e paesi interessati
chiedevano a gran voce una politica che aiutasse la transizione
9
.
Nel corso del 1979 viene posta in atto una prima riforma. Venne creata quella
che è definita la “non-quota section”; una parte dei fondi (all’inizio solo il 5%)
era sottratta al controllo degli Stati membri in quanto operava attraverso progetti
multi annuali invece che individuali e poteva essere usata per assistere aree al
di fuori di quelle designate dagli stati. L’introduzione di questo meccanismo
portò ad un primo concreto accrescimento del potere decisionale della
Commissione
10
.
Ulteriori riforme si ebbero nel 1984. Indici socio-economici furono introdotti per
decidere le aree eleggibili per il finanziamento comunitari e furono abolite le
distinzioni fra “quota” e “non-quota section”. Nel nuovo regolamento un limite
inferiore rappresentava l’ammontare garantito allo Stato membro, mentre la
Commissione poteva decidere dall’allocazione dei fondi rimanenti
11
.
Purtroppo nessuna di queste due piccole riforme aveva però inciso
significativamente sulla conduzione della politica regionale, e ciò proprio mentre
gli interventi si allargavano con l’adesione di nuovi membri. Nel 1985 la
minaccia di veto della Grecia all’entrata nella Comunità di Spagna e Portogallo
per timore di troppa competizione nel settore agricolo portò, per compensarla,
al varo dei Programmi Integrati Mediterranei
12
. Il finanziamento a tali
programmi, oltre che dal FESR veniva anche da altri progetti di sostegno a
dimensione regionale: il Fondo Sociale Europeo e il Fondo Europeo di
Orientamento e Garanzia Agricola, e da strumenti finanziari come la Banca di
11
Investimenti Europea. I PIM richiedevano programmi annuali, in luogo di quelli
individuali, cooperazione con le autorità locali e collaborazione fra i tre Fondi.
La crescente importanza della politica regionale sia in termini di budget che,
come abbiamo visto in termini di competenze, richiedeva un serio mutamento di
rotta. L’imperativo era coordinare tutti questi strumenti di politica regionale e
dare alla Commissione più controllo sull’aspetto politico. Fino a quel momento
infatti le linee guida del suo operato erano state quelle di tentare di avere il
massimo controllo finanziario e di lasciare agli Stati membri “l’onore” della
direzione del lato politico
13
.
Riguardo a questo punto è secondo me più corretto dire che erano gli Stati
membri a preferire che la Commissione si occupasse del lato finanziario e non
interferisse nella sfera politica, ma era praticamente certo che con l’ampliarsi
degli interventi e quindi del peso della politica regionale aspetto finanziario e
politico sarebbero prima o poi venuti a collidere. Nella metà degli anni ’80 il
punto d’incontro era stato raggiunto.
I PIM erano stati il primo progetto in cui la direzione politica della Commissione
di concerto con le autorità locali si sostituiva a quella degli Stati membri
14
.
Questo spostamento dell'equilibrio a favore della Commissione venne ben
riflesso nella riforma del 1988 dei Fondi strutturali sotto la guida di Jaques
Delors. Lo scopo del presidente della Commissione ad un anno dalla ratifica
dell’Atto Unico Europeo era quello di fare della politica di coesione il
contrappeso del Mercato Comune; ciò in modo da bilanciare gli effetti del
sistema di competizione globale che si sarebbe instaurato all’indomani
dell’abbattimento delle frontiere, quando le imprese dei vari settori produttivi si
12
sarebbero “affrontate” senza più lo scudo protettivo delle leggi protezioniste
nazionali. Nel 1985 la Commissione aveva già toccato questo problema con la
pubblicazione del Libro Bianco, dove fra gli altri temi, riconosceva che come
conseguenza del completamento del Mercato Interno le disparità fra regioni si
sarebbero potute aggravare.
15
Il fine del progetto di Delors era quindi quello di
contrapporre “coesione” a ”libera competizione”. La politica regionale livellando
le disparità esistenti fra un’area territoriale e l’altra avrebbe non solo agevolato
una più profonda integrazione fra gli stati ma anche avuto l’esito di prevenire e
curare i danni che tale integrazione avrebbe provocato.
1.3 - LA RIFORMA DEL 1988
16
Nel 1988 fu creato un nuovo sistema di finanziamento basato su 4 principi:
concentrazione, programmazione, collaborazione e addizionalità.
ξ Concentrazione: l’intervento diviene più mirato. Le regioni che abbisognano
di assistenza vengono selezionate attraverso indicatori economici e i
finanziamenti sono concentrati su 6 obiettivi prioritari;
ξ Programmazione: la procedura finanziaria ha alla base piani multi-annuali il
cui scopo è quello di coordinare nel tempo le iniziative comunitarie. Ciò per
conferire loro maggiore organicità, coerenza e flessibilità;
ξ Collaborazione: I piani vengono redatti, implementati, monitorati e valutati
con il concorso delle istituzioni comunitarie, delle autorità nazionali e locali.
Grazie alla riforma s'inserisce per la prima volta nella “lotta” fra Commissione e
Stati membri un terzo soggetto, un terzo polo in grado di aggiungersi agli stati
13
come unici interlocutori e di far arrivare in modo più diretto alla Commissione i
vari bisogni regionali;
ξ Addizionalità: i finanziamenti comunitari devono aggiungersi e non sostituirsi
ai finanziamenti regionali nazionali. Gli Stati membri devono mantenere per
ciascun obiettivo la propria spesa pubblica allo stesso livello del periodo
precedente.
La riforma implicò inoltre dal punto di vista finanziario un aumento del budget,
sul periodo dal 1987 al 1993, che andò a toccare il tetto dei 63 milioni di ECU,
più del 28% delle intere finanze comunitarie
17
. Nell’intento di coordinare meglio
la gigantesca macchina finanziaria, i tre fondi strutturali vennero uniti in uno
solo e venne attuata una riorganizzazione della DG XVI che divenne il
supervisore e coordinatore della politica regionale. Il suo ruolo era quello di
monitorare gli esborsi monetari, coordinare i Fondi fra loro e con gli altri
strumenti di politica regionale (PIM e BEI) e sperimentare tecniche innovative.
Nell’86 inoltre Delors, sempre per andare incontro a questo bisogno di
coordinazione amministrativa, aveva promosso la creazione di una nuova DG,
la XXII, con il compito di “guardiana della politica strutturale”. Fra le sue
attribuzioni vi era anche il potere di imporre sanzioni agli Stati membri e alle DG
incaricate di amministrare i Fondi. La nuova nata ebbe tuttavia vita breve. Le
sue facoltà che la ponevano in costante contrasto con le altre DG e il fatto che
non ottenne mai sufficienti finanziamenti ne determinarono l’abolizione nel
dicembre 1992
18
.
La nuova regolamentazione dei Fondi entrò in vigore il 1 gennaio 1989.
L’aspetto più eclatante della riforma, quello che più influì sul corso dei futuri
14
rapporti fra istituzioni comunitarie e Stati membri, fu proprio l’applicazione del
principio di collaborazione, che con il suo coinvolgere attivamente le autorità
locali in un processo così delicato come quello della pianificazione dei fondi,
aggirava il controllo statale e stabiliva un rapporto con le istituzioni subnazionali
come non si era mai verificato prima, eccettuato il programma PIM.
Quest’ultimo era comunque un progetto di impatto limitato, riguardante solo i
paesi dell’area mediterranea e come tale non aveva suscitato nessuna critica;
la nuova regolazione coinvolgeva invece le autorità locali di tutti i paesi europei.
A seguito della nuova dimensione sub-nazionale della politica di coesione la
Commissione istituì sempre nel 1988 il Consiglio Consultivo delle Autorità
Regionali e Locali.
1.4 - LE ULTIME RIFORME. DALL’88 A MAASTRICHT
Alcuni Stati membri (principalmente Belgio e Germania) avevano nel frattempo
sviluppato una forte impronta federalista e i vari governi locali avevano quindi
un importante ruolo istituzionale. Secondo questi enti il ruolo del Consiglio
Consultivo non era affatto proporzionato al crescente desiderio di partecipare
più attivamente al processo di policy making comunitario, che ormai con la
riforma dei fondi strutturali li interessava in prima persona.
Durante le CIG sull’Unione Monetaria ed Economica e sull’Unione politica del
dicembre 1990 a Roma fecero pressioni a favore dall’istituzione di un organo
più influente
19
, richiesta che venne accolta nel vertice di Maastricht del
dicembre 1991. Nella cittadina dei Paesi Bassi sulle rive della Mosa il Consiglio
Europeo espresse il proprio accordo al trattato sull’Unione Europea che
sarebbe entrato poi in vigore nel novembre 1993.