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Per sapere come attrarre, motivare e incentivare gli insegnanti occorre
innanzitutto conoscere la loro condizione psico-fisica attuale. Sono
numerose le pubblicazioni che, sin dalla prima metà degli anni 80, si
sono occupate delle cosiddette Helping Professions, prestando
particolare attenzione alla sindrome del burnout negli insegnanti.
Tale condizione risulta caratterizza da:
- affaticamento fisico ed emotivo;
- atteggiamento distaccato e apatico nei confronti di studenti,
colleghi e nei rapporti interpersonali;
- sentimento di frustrazione dovuto alla mancata realizzazione delle
proprie aspettative;
- perdita della capacità di controllo degli impulsi.
La categoria degli insegnanti è sottoposta a numerosi stress la cui
natura, sia in generale che con specifico riferimento allo scenario
scolastico italiano, può essere ricondotta ad alcuni fattori riguardanti:
- la specificità della professione (rapporto con studenti e genitori,
classi numerose, situazione di precariato, conflittualità tra
colleghi, costante necessità di aggiornamento e di formazione);
- la trasformazione multietnica e multiculturale (crescita del
numero di studenti extracomunitari);
- l’introduzione di nuove politiche a favore dell’handicap (con
l’inserimento di alunni disabili nelle classi);
- l’evoluzione scientifica (con l’avvento dell’era informatica);
- il susseguirsi continuo di riforme (autonomia scolastica,
innalzamento della scuola dell’obbligo, ingresso anticipato nel
mondo della scuola);
- il passaggio critico dall’individualismo al lavoro di gruppo (che ha
comportato la scomparsa dall’insegnante unico con l’avvento
dell’insegnamento basato su una pluralità di docenti);
- l’inadeguato ruolo istituzionale attribuito/riconosciuto alla
professione (retribuzione insoddisfacente, risorse carenti,
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precarietà del posto di lavoro, mobilità, scarsa considerazione da
parte dell’opinione pubblica);
- la riforma del sistema pensionistico.
Nei primi due capitoli saranno descritti la sindrome del burnout, con i
principali modelli, le prospettive etiologiche e la sintomatologia, e il
concetto di motivazione, definito attraverso un breve excursus storico e
distinto nelle sue forme primaria/appresa ed Intrinseca/Estrinseca.
Nel terzo capitolo si delineerà la situazione scolastica degli insegnanti di
scuola primaria, entrando nello specifico della realtà italiana. Infine,
negli ultimi due capitoli sarà descritta la ricerca condotta sui docenti di
scuole elementari di Modena e Reggio Emilia e rispettive province, con
la relativa analisi dei dati.
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CAPITOLO 1
IL BURNOUT
1. Definizione
La prima pubblicazione sul Burnout risale al 1974: il fenomeno ha
quindi origini abbastanza recenti. Negli ultimi anni si sono moltiplicati
studi e ricerche e sono stati pubblicati moltissimi articoli e monografie
(Gabassi e Mazzon, 1995). « La caduta della motivazione nella
professione sociale (che comprende anche categorie tra loro diversificate:
assistenti sociali, insegnanti, educatori, …), la disaffezione e
l’irrigidimento affettivo ed etico, non possono, alla luce dei numerosi studi
suindicati, essere imputabili né solo a specifiche individualità, impiegate
in particolari e ristretti ambiti lavorativi, né rinviabili totalmente ed
esclusivamente a responsabilità esterne, quali la tipologia dell’utenza,
l’eccessivo carico di lavoro, la scarsa retribuzione e il riconoscimento
sociale » (Coniglio, 1994, p.50).
Una letteratura così vasta rende necessario che si cerchi di focalizzare
l’attenzione sui contributi più significativi. Tutta la letteratura
sull’argomento è concorde nell’affermare che il termine “burnout” nasce
nel 1974 con Freudenberger per descrivere una sindrome individuata in
operatori di servizi comunitari, particolarmente esposti allo stress di un
rapporto diretto e continuativo con un’utenza fortemente disagiata.
Dopo la diffusione dei modelli teorici più accreditati, però, gli sforzi dei
ricercatori si sono indirizzati quasi esclusivamente sulla catalogazione
dei fenomeni correlati alla sindrome, piuttosto che concentrarsi
sull’interpretazione e l’analisi della sua origine (Cafiso et al., 1996).
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Di conseguenza il burnout è stato rilevato presso ambiti lavorativi
eterogenei, sino ad appiattire il significato del termine, per cui si parla
di burnout degli sportivi, degli avvocati, dei poliziotti, ma anche dei
bancari e dei manager.
Alcuni autori hanno semplificato il problema, forse banalizzandolo,
affermando che tutte le attività che implicano contatti interpersonali
possono comportare rischi di burnout (Volpi et al., 1993).
Ritornando alle origini del percorso di studio e cioè alle intuizioni di
Freudenberger, si ritiene utile “centrare” la nozione di burnout nel
contesto specifico delle professioni d’aiuto nelle quali:
ξ si è costantemente in rapporto con le persone e con i loro
problemi, e nelle quali è richiesto un impegno emotivo: per questo
le Helping Professions rappresentano il caso più tipico, l’esempio
per eccellenza di un lavoro ad alto stress professionale (Sirigatti e
Stefanile, 1993);
ξ gioca un fattore decisivo la sensazione che il proprio star meglio si
realizzi indirettamente attraverso lo star meglio degli altri (Del
Rio, 1995);
ξ da un punto di vista sociologico, sembrano non aprirsi molti spazi
per una sorta di corporativismo professionale, né sul piano
culturale, né su quello economico (Catarsi, 1995).
2. Principali contributi
2.1. I modelli internazionali
È la letteratura americana che ci offre i modelli teorici considerati più
significativi, tra i quali possiamo individuare quelli di Cherniss (1983) e
di Maslach (1992), oltre a Freudenberger, primo studioso
dell’argomento.
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Fin dagli inizi degli studi e delle ricerche emergono, tuttavia, due
tendenze teoriche: una più legata alla “clinica” e quindi prevalentemente
orientata alle dinamiche individuali (in cui rientra Freudenberger);
l’altra più focalizzata su paradigmi psico-sociali e caratterizzata da una
maggiore attenzione alle necessità di studi empirici (Santinello e
Furlotti, 1992). Ed è proprio quest’ultima tendenza che si riferisce a
Maslach, Cherniss e Pines, autori che sottolineano il ruolo degli
elementi organizzativi del lavoro come causa della depersonalizzazione
nella relazione con l’utente e, in prospettiva, dell’esaurimento
dell’operatore.
Cherniss definisce burnout una strategia di adattamento che ha
conseguenze negative sia per la persona che per l’organizzazione; si
tratta di una modalità errata di adattamento allo stress lavorativo,
messa in atto da operatori che non dispongono delle risorse adeguate
per fronteggiarlo; è una sorta di ritirata psicologica del lavoro in risposta
ad un eccessivo stress o insoddisfazione, per cui ciò che un tempo era
sentito come “vocazione” diventa soltanto un lavoro. Non si vive più per
il lavoro, ma si lavora unicamente per vivere: siamo, quindi, nell’ambito
della motivazione, con perdita di entusiasmo, interesse e senso di
responsabilità per la propria professione (Cherniss, 1983). Questa
“inabilità” a far fronte allo stress è determinata sia da fattori personali,
sia da variabili relative al lavoro in sé e alla sua organizzazione.
L’autore, inoltre, indica che il burnout è un processo che si svolge in un
arco temporale definito e sottolinea che la sindrome, nel suo stadio
terminale, può portare l’individuo ad uno stato depressivo conclamato
(Venturi et al., 1994).
Secondo Cherniss lo sviluppo del burnout nelle professioni d’aiuto
segue tre stadi:
a) l’operatore avverte uno squilibrio tra richieste e risorse
disponibili, tra i fini che si pone e i mezzi propri
all’organizzazione;
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b) l’operatore avverte stanchezza, fatica psicologica, facile irritabilità,
demotivazione, tende a spostare i propri obiettivi personali più
verso la struttura che verso gli utenti;
c) l’operatore sviluppa atteggiamenti di rigidità, cinismo, distacco
emotivo e tende a trattare gli utenti in modo meccanico e
impersonale.
L’autore, infatti, adotta un approccio centrato sulla convinzione di una
sistematicità allargata della formazione della sindrome, ovvero di una
processualità intesa non come effetto lineare di un rapporto stimolo-
risposta, bensì come costruzione di nuovi comportamenti interattivi con
l’organizzazione nel suo complesso. La reazione, all’interno della quale
si produce e si risolve la sindrome, si allarga, in questo caso, a
comprendere la situazione organizzativa da un lato e l’ambiente socio-
culturale dall’altro.
Nell’ipotesi di Cherniss, quindi, ci si riferisce alla trilogia fattoriale
organizzazione-individuo-ambiente, quale ambito di incubazione e
sviluppo della sindrome (Coniglio, 1994), utilizzando una chiave di
lettura sociologica che va oltre l’aspetto psicologico del problema.
Alla luce della sua analisi che, comunque, non esclude la componente
psicologica, il burnout può essere letto come la richiesta, più o meno
esplicita, di nuove e più elevate aspettative nei confronti del lavoro.
Maslach, pur precisando che il burnout non colpisce soltanto i soggetti
impegnati in specifiche professioni socio-sanitarie, ma tutti coloro che
lavorano a stretto contatto con persone per lunghi periodi di tempo, ne
sottolinea, tuttavia, la specificità per tutte le professioni d’aiuto
(Maslach, 1982). La sua rielaborazione è di tipo psicodinamico e adotta
l’approccio che oggi sembra influenzare maggiormente i ricercatori
(Agostini et al., 1991).
Ciò che più interessa non è tanto l’esito di stress che si produce
nell’operatore affaticato, bensì il processo di “conversione” dello stress
in atteggiamenti di distacco emozionale e di meccanicità dei
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comportamenti dell’operatore: si fa strada l’ipotesi che il fenomeno non
sia soltanto limitabile alla produzione di uno stress emotivo, di un
esaurimento fisico o psichico, bensì che comprenda anche e soprattutto
un nuovo comportamento di tipo “costruttivo” o “elaborativo”, volto alla
predisposizione di meccanismi di difesa, tali da permettere alla persona
di ergere attorno a sé una sorta di “barriera immunitaria”.
In questo quadro viene utilizzato un approccio di tipo sistemico, tuttavia
ancora circoscritto alla relazione diadica ego-alter, ovvero, nel caso
specifico, tra operatore e utente.
Il modello di Maslach scompone il concetto di burnout in tre
dimensioni:
ξ Esaurimento Emozionale: svuotamento delle risposte emozionali,
sensazione che non si abbia più niente da offrire a livello
psicologico;
ξ Depersonalizzazione: atteggiamenti di distacco e cinismo, ostilità
nei confronti della gente con cui si lavora;
ξ Ridotta Realizzazione Personale: crollo dell’autostima e del
desiderio di successo, dovuto alla percezione della propria
inadeguatezza al lavoro.
Quest’ultimo costrutto teorico sembra enfatizzare i fattori personali e le
relazioni sociali nell’analisi delle cause del burnout. Sua diretta
espressione è il Maslach Burnout Inventory, il primo e ancora oggi più
accreditato strumento diagnostico di rilevazione (Cafiso et al., 1996).
Pines e Aronson (1981) hanno arricchito il quadro sintomatologico della
sindrome suggerendo che, oltre a sentimenti di impotenza e
disperazione, svuotamento emotivo, sviluppo di un concetto di sé
negativo e di ostili atteggiamenti verso il lavoro, il burnout è
caratterizzato da esaurimento fisico.
Con Edelwich e Brodsky (1980) si può dire che il burnout è una
progressiva perdita di idealismo, energia e scopi, vissuta da operatori
sociali, professionali e non, come risultato delle condizioni in cui
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lavorano. È la condizione in cui un operatore sociale assume
atteggiamenti rigidi e distruttivi e non solo rifiuta il suo lavoro, ma
anche la ragione e lo scopo dello stesso. Egli viene quindi a perdere quel
qualcosa che gli permette di rispondere, nel modo migliore, più attento e
più disponibile, alle richieste di coloro ai quali è diretta la sua
professione (Cifiello e Pasquali, 1988).
Anche Farber (1983) ricorre all’assunzione che il burnout non è un
evento, ma un processo che si sviluppa diversamente in ogni individuo
a seconda delle caratteristiche del lavoro, delle caratteristiche di
personalità e del contesto sociale.
Negli ultimi anni il focus delle ricerche si è spostato, centrandosi sul
confronto tra diverse modalità di sviluppo della sindrome e sulla più
precisa definizione del contributo fornito da aspetti organizzativi e di
personalità, nella sua insorgenza e nel suo decorso. Inoltre emergono
gruppi di ricerca anche europei che iniziano a confrontarsi e a creare
sinergie sempre più rilevanti.
2.2. Gli studi italiani
Anche il quadro italiano offre notevoli spunti di riflessione. Tra i
contributi più interessanti, Del Rio (1989) sottolinea un ambito di
riferimento prettamente psicologico e introduce il concetto di
“Personalità Helper”, dal quale si deduce che il concetto di burnout si
collega non tanto al contatto diretto con l’utenza, quanto al rapporto
affettivamente significativo che si instaura con l’utenza e che è
esattamente ciò che viene meno con il burnout stesso. Secondo Del Rio
(1989, p.17), il burnout è una « sindrome che coinvolge aspetti
psicologici, somatici e comportamentali, presente specificatamente in
coloro che svolgono una professione sociosanitaria-educativa lavorando a
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diretto contatto con l’utenza in condizioni stressanti e affettivamente
coinvolgenti, per tempi prolungati e in modo inadeguatamente protetto o
supportato; si ritiene che a determinare tale sindrome contribuiscano
fattori di natura soggettiva, ma che vi abbiano importanza rilevante, se
non determinante, le condizioni ambientali in cui tale lavoro si svolge,
nonché quelle storico-politico-sociali ».
Contessa (1982), che tra i primi in Italia si è interessato all’argomento,
facendo riferimento agli studi di Edelwich e Brodsky, propone la
metafora del cortocircuito, secondo la quale l’operatore in burnout è
come cortocircuitato: esiste un circuito in cui due conduttori sono stati
messi in contatto erroneamente, oppure che è sovraccarico, e pertanto il
dispositivo ha smesso di funzionare. Questa lettura della metafora del
cortocircuito evidenzierebbe un’altra anima del burnout, per cui esiste
un ambiente, e più specificatamente quello lavorativo, in cui il
fenomeno si determina (Del Rio, 1990). La sua ipotesi di studio è che
l’operatore sociale in senso lato (colui che lavora in organizzazioni di
servizi sociali e con responsabilità di “aiuto” all’utente) è pagato a livelli
minimi, sottoposto a straordinari pagati male o per niente, spesso in
condizioni di lavoro precario o nero, privo di prospettive di carriera,
socialmente poco valorizzato, bassamente professionalizzato, più volte
colpito da vere malattie professionali; egli si guadagna un salario non
solo prestando la sua opera di “custode”, ma anche immolando l’unica
vera ricchezza di cui dispone: l’equilibrio psicofisico. L’autore mette
quindi in evidenza una forte idealizzazione del lavoro sociale, unita ad
una grossa identificazione con il soggetto sofferente.
Pedrabissi e Santinello effettuano una serie di ricerche in diversi ambiti
professionali: insegnanti (1991), infermieri (1988), operatori impegnati
con soggetti handicappati (1991), utilizzando il Maslach Burnout
Inventory, con lo scopo di dimostrare che il burnout non è
principalmente dovuto a particolari tratti di personalità, ma soprattutto
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a problemi posti dalla condizione lavorativa e riconducibili al contesto
culturale nel quale viene svolto un determinato ruolo professionale.
Infatti, l’ipotesi della loro ricerca trova conferma nei risultati, dove la
percezione della realizzazione lavorativa appare come l’indicatore
maggiormente discriminativo tra i campioni presi in esame (Gabassi e
Mazzon, 1995).
Sirigatti e Stefanile presentano numerose ricerche volte a verificare la
validità del Maslach Burnout Inventory e ne utilizzano una versione
modificata per analizzare la sindrome in relazione a variabili individuali,
ambientali e atteggiamenti in diversi ambiti di ricerca: nei confronti del
lavoro (Sirigatti et al., 1988), in operatori socio-sanitari (Sirigatti et al.,
1988), negli infermieri (Sirigatti e Stefanile, 1993) e negli educatori
(Sirigatti e Stefanile, 1992). I risultati di tali studi mettono in luce
connessioni di rilievo tra burnout e aspetti di personalità (fattori
connessi con aspettative personali, motivazione e atteggiamenti verso il
lavoro), nonché tra burnout e motivazione estrinseca al lavoro, bassa
motivazione pro-sociale, aspettative legate ad un interesse per un lavoro
poco impegnativo, insoddisfazione sul lavoro (Pierro e Fabbri, 1994).
3. Prospettive etiologiche
Studiare le cause del burnout significa confermare quanto si tratti di un
fenomeno altamente complesso; individuare tali cause nell’individuo, o
nel suo ambiente, o nelle relazioni che intercorrono tra di essi, significa
individuare i diversi approcci di studio al problema: clinico in
Freudenberger e psicosociale in Maslach e Pines.
Nella ricerca contemporanea emerge una linea teorica che ravvisa nel
burnout un fenomeno multidimensionale, ove interagiscono fattori
socio-ambientali e personali. Anche Farber (1983) sostiene che il
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burnout può essere considerato funzione dello stress innescato da
fattori individuali, lavorativi e sociali contemporaneamente.
3.1. Componenti individuali
Le ricerche condotte sul burnout hanno riguardato, inizialmente, il
ruolo svolto dai fattori ambientali. Solo negli ultimi anni si è fatto strada
l’interesse per le connessioni tra burnout e caratteristiche di personalità
(Sirigatti e Stefanile, 1993).
Diversi autori sottolineano che le persone maggiormente soggette al
rischio di tale sindrome sono quelle che, a parità di condizioni
organizzative e sociali, avvertono più fortemente il contrasto tra la
passione ideale, l’entusiasmo, la motivazione altruistica che le aveva
spinte verso certe professioni, e la delusione connessa agli ostacoli
esterni, i limiti personali, l’impossibilità di aiutare tutti o di “cambiare il
mondo” (Volpi et al., 1993).
Farber (1983) rileva che c’è un consenso generalizzato sul fatto che i
soggetti a rischio burnout siano empatici, sensibili, umanitari,
impegnati, realistici e people oriented, ma anche ansiosi, introversi,
ossessivi, altamente entusiastici e suscettibili di identificarsi fortemente
con l’altro. Secondo questa linea di studio si tratta, quindi, di diverse
modalità di risposta alle situazioni stressanti in rapporto a
caratteristiche di personalità e stili di vita acquisiti (Sirigatti et al.,
1989).
Maslach (1982) suggerisce che il lavoratore particolarmente vulnerabile
al burnout sia piuttosto debole e remissivo nei rapporti con gli altri,
incerto nel distinguere i limiti tra coinvolgimento personale e
professionale. Controlla con difficoltà i propri impulsi ostili, può
rivelarsi impaziente e intollerante, viene facilmente frustrato dagli
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ostacoli. Questo quadro, che trova conferme nei già citati lavori di
Cherniss e Freudenberger, può includere una scarsa fiducia in se
stessi, dipendenza e ricerca di approvazione, che, a loro volta, possono
condurre ad un coinvolgimento eccessivo nel proprio lavoro (Sirigatti e
Stefanile, 1988).
Maslach e Jackson (1982) suggeriscono che delusioni e fallimenti,
sperimentati all’inizio del proprio iter formativo o lavorativo da parte del
personale sanitario, possono costituire fattore non trascurabile ai fini
dell’insorgenza del burnout. Si può, infine, osservare che motivazioni
personali irrealistiche, soprattutto fra i giovani, sembrano svolgere un
ruolo abbastanza rilevante nell’acquisizione del senso di impotenza, con
i suoi negativi correlati sotto il profilo dell’efficacia e dell’efficienza
personale (Sirigatti et al., 1988).
Secondo Gala et al. (1993) i giovani sembrano essere più suscettibili al
burnout, oltre che per lo spiccato idealismo e il bisogno di gratificazioni
immediate, anche per la tendenza odierna ad individuare nel lavoro una
delle fonti principali di soddisfazione e identità personale. Gli stessi
autori sottolineano che esistono soggetti con una struttura di
personalità particolarmente rigida che si mostrano eccessivamente
disponibili di fronte alle richieste dell’ambiente di lavoro, si
sovraccaricano di ruoli e, addirittura, scelgono di lavorare in situazioni
che presentano condizioni stressanti prolungate e ripetitive.