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Di norma diamo per scontato che le organizzazioni siano degli strumenti 
atti a produrre dei fini precisi, tramite procedure, compiti e prestazioni. 
Questa definizione è forviante e parziale, poiché le organizzazioni si 
presentano al loro studio indeterminate nelle logiche, nei fini e negli 
effetti che ne derivano.  
Cinque punti ci guideranno nella scoperta delle organizzazioni: 1) la 
prospettiva razionale-strumentale dell’organizzazione che è alla base 
delle teorie classiche, 2) la dimensione processuale delle organizzazioni, 
3) lo studio delle culture organizzative quindi le organizzazioni come 
processi di creazione di significati e di realtà, 4) i processi di 
trasformazione relativi all’apprendimento organizzativo, 5) le nuove 
forme organizzative: le organizzazioni a rete e le postburocrazie. 
 
1.2. La prospettiva razionale-strumentale. 
La concezione razionale-strumentale non solo è alla base dei modelli 
teorici classici, ma è anche profondamente radicata nei nostri modi di 
pensare e di fare le organizzazioni, le pensiamo quindi come delle 
macchine in grado di compiere in modo preciso gli obiettivi prestabiliti. 
L’ingranaggio come unità minima della macchina, è emblema ancora 
oggi della tecnologia e del lavoro tout court, metafora delle 
organizzazioni come macchine. L’idea stessa di organizzare e 
d’organizzazione ci fa pensare a relazioni ordinate fra parti date in modo 
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da costruire un insieme definito, pensiamo alle organizzazioni di lavoro e 
quindi al lavoro che vi è dentro come un orologio, ossia in modo 
routinizzato, efficiente efficace e prevedibile. Non si stanno attuando 
delle critiche alle funzionalità di tipo meccanico, che possono essere a 
volte condizioni ineliminabili d’efficienza, ma piuttosto critiche ad un 
“meccanicismo” ancora imperante nell’immaginario collettivo quanto in 
quello individuale; una delle sfide più importanti con cui si dovranno 
fronteggiare le moderne organizzazioni è proprio quella di ripensare se 
stesse al di fuori di un modello prettamente meccanicistico, razionale-
strumentale.  
Le metafore che si possono trovare in uno dei testi più antichi quale è la 
Bibbia, sono di tipo agricolo poiché si rivolgevano ad una società 
contadina, le nostre metafore, quelle del quotidiano, sono spesso prese in 
prestito dal mondo della meccanica, che c’invadono e ci pervadono, 
c’influenzano anche negli aspetti minimi della nostra esistenza. 
Proviamo a pensare solamente a quante volte nell’arco di una giornata, 
pigiamo un pulsante, oppure quante volte attiviamo una macchina, da un 
semplice elettrodomestico quale un televisore o una lavatrice, per 
passare ad un’automobile o un impianto industriale.  
Con l’invenzione della macchina a vapore e con il proliferare delle 
stesse, in occasione della rivoluzione industriale, le imprese sono 
percepite loro stesse come macchinine, acquisendo connotazioni 
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meccanicistiche. Possiamo immaginare il grande impatto della nuova era 
che si stava aprendo, sia nei confronti dei capitani d’industria, sia nella 
piccola borghesia, che incominciava a vedere con i propri occhi il 
benessere che la meccanizzazione delle imprese apportava; dall’altra 
parte c’era chi lasciava secoli di specializzazione artigiana ed ambienti 
rurali, per confluire nelle città, in ambienti ordinati a svolgere lavori 
totalmente svuotati del loro contenuto e di una specifica qualificazione. 
In questa fase l’uomo è veramente l’appendice della macchina. Si andava 
configurando l’idea che un ambiente lavorativo dovesse essere costruito 
e pensato come una serie d’ingranaggi, e che quindi una fabbrica 
dovesse essere costruita intorno all’apparato meccanico; questo “deus ex 
machina”, era dettato soprattutto dalla necessità che le organizzazioni e 
quindi gli uomini in carne ed ossa, si adeguassero alle macchine per 
poterle sfruttare in modo ottimale, era necessario apportare dei 
cambiamenti radicali nell’organizzazione del lavoro e nei metodi di 
controllo. Ricordiamo i luddisti, alcuni dei primi “feroci” disobbedienti 
della storia industriale, coloro i quali volendo resiste ad una 
meccanizzazione della loro vita, ed alla perdita di senso nonché di posti 
di lavoro, danneggiavano e distruggevano le macchine industriali; il 
parlamento inglese varò una legge apposita nel 1769 che prevedeva la 
pena di morte per questo tipo di reati.   
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Con Weber rinveniamo l’idea che l’organizzazione sia uno strumento 
razionale per conseguire obiettivi prestabiliti, ed è proprio con Weber 
che si avvia la discussione sulle burocrazie. 
All’interno della visione razionale-strumentale delle organizzazioni, 
troviamo le burocrazie. Nell’immaginario collettivo le burocrazie sono 
organizzazioni poco o per nulla capaci, di raggiungere i loro scopi in 
maniera adeguata alle esigenze di chi vi lavora, e di chi si rivolge a loro 
per soddisfare i propri bisogni, generalmente identificate con uffici e 
servizi pubblici. Nella sua costruzione idealtipica del modello 
burocratico, Weber individua quattro caratteristiche distintive. 
La conformità alle regole è la prima caratteristica, essa consta di un 
corpo di regole formalizzate che stabilisce doveri e diritti, precisando le 
procedure alla quale attenersi e che di solito poggiano nel diritto. 
La divisione specializzata delle competenze, per ciascun addetto vi è una 
qualifica, una posizione, e le questioni specifiche su cui intervenire. 
La gerarchia è piramidale ed i diversi livelli della piramide sono collegati 
da linee verticali, esplicitando il preciso rapporto di subordinazione, un 
caso emblematico è il modello della gerarchia militare che risponde a 
queste precise caratteristiche. 
I lavoratori dell’organizzazione burocratica, non sono proprietari dei 
mezzi con cui svolgono le loro funzioni, sono di norma reclutati 
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attraverso prove che ne vagliano la preparazione, e sono ricompensati 
con uno stipendio. 
L’insieme di queste caratteristiche configurano due principi essenziali 
del modello burocratico, che si compenetrano fra loro: l’impersonalità e 
la competenza. Definiamo l’impersonalità come l’orientamento a fornire 
prestazioni standardizzate ed uguali per tutti. La competenza, ossia una 
conoscenza specialistica di tipo procedurale, volta all’applicazione di 
regole con procedure prestabile. La burocrazia incarna il tipo razionale-
legale di potere, che fonda la sua autorità nel diritto, attraverso leggi che 
sono universali ed impersonali, cioè valide per tutti i soggetti e per 
qualsiasi caso; quindi essendo le prestazioni amministrative indirizzate 
alla generalità dei cittadini, queste devono possedere le caratteriste della 
calcolabilità e della prevedibilità. Le burocrazie, come sostiene lo stesso 
Weber non riguardano solo il sistema amministrativo pubblico, anche le 
grandi imprese private posso essere organizzazioni burocratiche: con 
regole fortemente formalizzate, compiti specializzati ed organigrammi 
piramidali; quindi la burocrazia non coincide con le amministrazioni 
pubbliche e non è la causa della loro inefficienza. La burocrazia 
nell’impresa privata, soddisfa le condizioni della produzione di massa, 
dove il bene è standard, ed è quindi fortemente orientata alla calcolabilità 
ed alla prevedibilità. Le burocrazie, come qualsiasi forma organizzativa 
possiedono dei punti di forza e delle patologie, l’aspetto patologico delle 
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burocrazie è l’indifferenza alla concretezza dei problemi, ed una forte 
reticenza al cambiamento, quando esso è richiesto dalle mutate 
condizioni del mercato o dalle nuove esigenze dei cittadini.  
All’interno della prospettiva razionale-strumentale dell’organizzazione 
troviamo Taylor e la sua organizzazione scientifica del lavoro. Max 
Weber era ben conscio del potere delle burocrazie, che erano in grado di 
routinizzare e meccanizzare ogni aspetto della vita umana, svuotando il 
suo agire e facendo perdere ogni forma di senso e di spontaneità, 
parimenti non si può affermare dell’ingegnere americano, l’antesignano 
della cosiddetta “organizzazione scientifica del lavoro”, Frederick 
Taylor. Fermo fautore dell’uomo-macchina, o meglio come direbbe lui 
stesso dell’uomo bue, sciocco, ignorante, ma dotato di buona forza. I 
principi dell’organizzazione scientifica del lavoro hanno rappresentato 
per tutta la metà del secolo passato, un modello di riferimento 
fondamentale per i progettisti d’organizzazioni, molti dei quali sono 
validi ancora oggi. Non si critica in questa sede l’approccio Taylor-
Fordista per molteplici ragioni, la prima sta nel fatto che chi critica 
l’impasse tayloirista, dimentica forse le precedenti condizioni degli 
operai, le intuizioni di Taylor vennero poi ben accolte anche dalla Russia 
dei Soviet e di Lenin, e che quindi l’organizzazione scientifica del lavoro 
rappresentava innovazione e risposte al progressivo ingrandimento dei 
complessi industriali. Saranno quindi tracciate le linee generali del 
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pensiero taylorista, per arrivare poi ai primi accenni del fattore umano 
come variabile indipendente e come elemento cruciale della produzione; 
si tenterà di rinvenire l’universo valoriale storico ed emotivo 
dell’organizzazione scientifica del lavoro, che appare più che un modello 
integrato, una serie di principi che poggiano su una precisa concezione 
teorica. 
I principi essenziali sono: la standardizzazione, la gerarchia e la forte 
credenza che esista un modo unico di compiere le azioni in maniera 
ottimale “the one best way”. 
La standardizzazione, è per lo più esplicitata da un’ossessiva ripetizione 
dei tempi e dei modi di lavoro, nonché da una parcellizzazione delle 
operazioni, una scomposizione quasi infinitesimale, che poteva 
comprendere ad esempio la cronometrazione di un’azione singola, quale 
quella di alzare un determinato utensile più volte. Appare evidente la 
consonanza, con il modello della catena di montaggio, che verrà poi 
inveterato da Ford sulla scia dell’organizzazione scientifica del lavoro, 
per questa ragione a volte questo modello organizzativo è chiamato 
taylor-fordista. 
La gerarchia è piramidale, di tipo militare, il lavoratore non deve 
pensare, ma eseguire nei minimi dettagli un compito che gli è stato 
preventivamente esplicitato; la direzione aziendale quindi comanda e 
governa su tutto e tutti. 
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The one best way, esiste sempre e comunque un solo modo ottimale di 
compiere le azioni, quindi il metodo esiste in sé e va ricercato, non vi è 
alcuno spazio per l’improvvisazione né per la creatività del singolo. 
Sembra probabile che in ambienti altamente competitivi queste 
affermazioni abbiano vita breve, ma è pur necessaria una 
contestualizzazione di ordine sia storico sia spaziale. Le risposte che 
l’organizzazione scientifica del lavoro intendeva dare erano 
essenzialmente: la razionalizzazione dei processi e dell’autorità 
all’interno dell’impresa, l’aumento della produzione, la riduzione dei 
costi, il miglioramento dei tempi e dei metodi di lavoro. Taylor 
intendeva togliere, qualsivoglia discrezionalità sulle procedure di lavoro 
agli operai, lo dimostra il fatto che fosse ossessionato dal fenomeno del 
“soldiering”, ossia il rallentamento intenzionale e sistematico del lavoro 
da parte degli stessi operai. 
Come le burocrazie, l’organizzazione scientifica del lavoro possiede 
delle connotazioni di eccellenza ed è affetta da patologie, se i punti di 
forza possono essere rintracciati in una razionalizzazione del lavoro, ed 
un’attenzione alla riduzione dei costi, i problemi sono: l’eccessiva 
frammentazione del lavoro, la chiusura con l’ambiente sia interno che 
esterno, il “ritualismo” definito da Merton come la devozione 
iperconformistica ai regolamenti, in ultimo anche qui troviamo una 
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notevole difficoltà al cambiamento, sempre quando quest’ultimo sia 
richiesto da mutate condizioni.  
Nell’approccio razionale-strumentale delle organizzazioni, la valenza e 
lo spazio per le emozioni sembra minimo se non nullo, la procedura 
tecnica è il fuoco dell’analisi, che va eseguita nei tempi e nei modi 
prestabiliti; forse non v’è nemmeno il tentativo di comprimere 
l’emotività, le emozioni sono assenti dal punto di vista analitico. 
 
1.3. La dimensione processuale. 
Valutare le organizzazioni sotto il profilo processuale, significa rompere 
con l’idea di organizzazione come entità fissa immutabile e chiusa, per 
passare a quella di un fluire aperto ed incompiuto dei processi. Tre punti 
possono essere presi in considerazione per addentrarci nella dimensione 
processuale delle organizzazioni: la soluzione dei problemi, le decisioni, 
e le connessioni. 
Come si risolve un problema all’interno di un’organizzazione?, Un 
problema nasce quando è percepito all’interno di un quadro di 
riferimento teorico, concettuale e procedurale. Possono esistere problemi 
non percepiti, e possono essere percepite come problematiche situazioni 
che non lo sono. Le domande vengono poste sulla scorta delle risposte 
che si hanno a disposizione, quindi ad esempio se si ha un problema di 
origine elettrica, ma si possiedono solo strumenti idraulici, si tenterà di 
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rappresentare il problema come di natura idraulica e di risolverlo quindi 
con gli strumenti a disposizione. Se cominciamo invece a dubitare della 
soluzione che automaticamente ci è venuta in mente, facciamo spazio 
all’imprevedibilità, nell’esempio che si è fatto potremmo decidere di 
comprare dei nuovi strumenti. I problemi vengono nuovamente 
configurati o scoperti, quando diventano accessibili soluzioni alternative 
a quelle disponibili. Le emozioni sono nuovi strumenti per la risoluzione 
dei problemi?, Possono esserlo, dato che i problemi si configurano nelle 
teste, ma anche nei cuori delle persone con delle dinamiche ti tipo 
interattivo e retroattivo.  
La questione dibattuta sulla soluzione dei problemi ci porta al processo 
decisionale, la stessa parola processo deriva dal latino precessus, 
procedere, quindi andare avanti. Quando si parla di decisioni 
organizzative, ci si riferisce a scelte fra possibilità alternative, ed agli 
obiettivi che orientano queste scelte fra varie soluzioni, ed ai problemi ai 
quali si applicano. Nell’analisi della burocrazia weberiana le decisioni 
sono “giuste”, quando poggiano sulla possibilità di prevedere e valutare 
a priori fra i corsi alternativi d’azione, e quando le decisioni che sono 
prese risultano coerenti con gli obiettivi precedentemente esplicitati 
dall’organizzazione. Il modello razionalistico delle decisioni è quindi un 
modello: sinottico, aprioristico e strumentale; non tutte le decisioni prese 
si rifanno a questo modello, nella pratica reale si formano coalizioni fra 
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decisori, gli obiettivi si scoprono nel fluire del dibattito, ed a volte risulta 
complesso capire il corso e le motivazioni che hanno portato a quel tipo 
di decisione. I processi decisionali si configurano come interazioni, tra i 
soggetti dell’organizzazione e fra i soggetti e l’ambiente interno ed 
esterno. Questa scoperta apre uno spazio conoscitivo nel quale è 
possibile a giusto titolo inserire le emozioni. 
Alla linearità del modello razionale, si contrappone il caos dei processi 
concreti; Cohen, March e Olsen, mettono in luce le ombre del modello 
razionale decisionale. Si osserva che contrariamente dalle prescrizioni 
del modello razionale, le decisioni vengono spesso prese attingendo ad 
informazioni limitate, quando non contraddittorie; inoltre l’ambiguità 
degli obiettivi ed il collegamento fra mezzi e fini permea tutto il 
processo decisionale. La razionalità non è quindi assoluta ma limitata, 
sono limitate le conoscenze, le alternative d’azione e le loro 
conseguenze. Le decisioni non sono di conseguenza un’attività di calcolo 
e previsione su elementi dati preesistenti ed esterni, sono processi con la 
loro natura dinamica in cui: gli obiettivi si scoprono decidendo, i 
problemi vengono riformulati, le soluzioni sono il risultato dei tentativi 
degli errori e dell’apprendimento attraverso l’esperienza.  
Nel passaggio dalla razionalità strumentale, alla razionalità processuale, 
assistiamo a dei cambiamenti per cui: se la prima si presenta statica, la 
seconda appare invece dinamica; alla singolarità nei significati si 
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contrappone una pluralità; alla certezza si contrappone un’ambiguità 
negli obiettivi e negli esiti dell’azione decisionale; alla monade chiusa si 
affaccia un’apertura nella capacità di creare intersoggettivamente nuovi 
significati e nuove possibilità di corsi d’azione. 
Si evidenziato come la dimensione processuale della teoria 
organizzativa, sia dinamica ed interdipendente rispetto agli attori. I 
legami sono le connessioni che s’instaurano fra gli attori ed i rapporti di 
interdipendenza che sussistono fra le loro azioni. La struttura gerarchica 
e dei poteri può dare una prima intelaiatura del problema delle 
connessioni organizzative, le connessioni ed i legami travalicano sia 
gerarchie sia poteri formali o informali. Non è possibile ritenere che sia 
errata una valutazione che inserisca il livello emotivo nei legami 
organizzativi. La qualità del legame è condizione dell’efficace 
coordinamento degli attori ed una loro effettiva integrazione. I legami 
possono essere deboli o forti, nel primo caso i soggetti sono legati fra 
loro, ma possiedono al contempo una relativa indipendenza l’uno 
dall’altro, un possibile esempio di legame debole o lasco può essere la 
connessione fra insegnante e dirigente scolastico. I legami deboli 
possono favorire la flessibilità organizzativa, ossia le aperture e le 
capacità reattive dei sistemi organizzativi nei confronti dei propri 
ambienti. I legami deboli non costituiscono in sé, né un pericolo né un 
vantaggio, nella maggioranza dei casi le organizzazioni fanno coesistere 
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al loro interno legami deboli e legami forti o rigidi, individuare la giusta 
mescolanza di questi legami può essere un fattore di eccellenza per le 
organizzazioni. La questione aperta con l’accenno alla dimensione 
processuale, inserisce a pieno titolo il soggetto del nostro studio le 
emozioni, proprio per la dinamicità, l’imprevedibilità e l’ambiguità che 
caratterizzano questo tipo di approccio. 
Di sicuro interesse alla nostra ricerca è la parentesi sul tempo, e sui 
valori fondativi dell’industria e del capitalismo, che hanno plasmato le 
vite dei lavoratori, con un lento lavorio durato decenni e per taluni 
aspetti ancora in corso. I valori sono elemento cruciale delle “culture 
organizzative”, la definizione di tempo e il suo uso non sono per nulla 
avulsi ad un “sentire” inteso come “to feel”, basti semplicemente pensare 
alla fruizione di permessi e ferie, il riflesso del “tempo del non lavoro”.   
Ritengo sia indispensabile esplicitare le due colonne portanti del sistema 
capitalistico che sono il tempo e il mercato, sui quali fu fondato quello 
che Marx chiamò “il sistema di fabbrica”. Tutto ciò va letto nella chiave: 
“Ciò che si fa ha significato su ciò che si sente, anche in modo 
retroattivo”, corpo gesto e pensiero, non dovrebbero essere separati, se 
non per motivi d’analisi. Siamo su un piano in cui i valori fondativi del 
capitale e il passaggio dal tempo scandito dal sole e dalle stagioni, 
diventa il tempo rotondo della sirena della fabbrica, operando in maniera 
in parte conscia su ciò che è necessario sentire, su come sia adeguato