3
Sin dagli inizi della civiltà occidentale i filosofi hanno cercato di individuare in che
cosa consista la conoscenza completa di un fatto e di un evento, sottolineando tre
aspetti in particolare: essi sono la determinazione strettamente fattuale o il che
(latinamente, il quia), la comprensione della struttura o modalità dell’evento, ossia il
come (quomodo), ed infine la scoperta delle ragioni dell’evento (il propter quid).
Sintetizzando terminologicamente tali aspetti si può parlare rispettivamente di
descrizione del fatto, interpretazione del fatto e spiegazione del fatto.
Già gli antichi erano consapevoli delle difficoltà che si incontrano nel volere
affrontare in modo esaustivo ciascuno di questi tre punti per ogni ambito di realtà che
si voglia analizzare. Nei casi in cui ciò non fosse stato possibile essi non parlavano di
scienza ma di un sapere più limitato, che si potrebbe definire classificatorio o
descrittivo.
1
La spiegazione veniva definita come una “conoscenza che coglie le cause” ed è per
questo che quando oggi si parla di spiegazione si fa riferimento alla ricerca delle
ragioni, dei motivi di un fenomeno.
Aristotele aveva stabilito la famosa distinzione delle quattro cause, ovvero quella
efficiente, materiale, formale e finale. Con lo svilupparsi della moderna scienza
naturale si sono lasciate cadere le ultime tre rappresentazioni della causa per
concentrarsi su quella efficiente, ovvero quella che produce l’effetto.
Leibniz, filosofo e scienziato tedesco vissuto a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo,
formula la nozione di causalità attraverso il principio della ragion sufficiente,
affermando che “nulla accade senza una ragione”.
La tesi di Leibniz, secondo cui tutto ciò che accade non può essere immaginato come
casuale bensì come causalmente determinato, induce a ritenere che si possa
rispondere alla domanda circa il perché di un dato evento solo se si è in grado di dire:
“se succede questo allora ne deriva logicamente tale conseguenza”. Per quanto utile
possa essere stata l’analisi leibniziana, essa appare ancora troppo generica per poterle
attribuire il merito di avere sviluppato un concetto definitivo di causa.
Kant (Königsberg 1724 – ivi 1804) distingue nettamente il piano dell’essere, ovvero
della cosa in sé, da quello della conoscenza, dell’intelletto umano. Secondo il
filosofo, il primo non è conoscibile dall’uomo e quindi, se è vero che è assolutamente
1
E.AGAZZI, La spiegazione causale di eventi individuali (o singoli), in Riv.it.dir.proc.pen.,1999,
p.93.
4
necessario che un certo evento debba avere una causa e che pertanto, se noi
esprimiamo una relazione causale tra eventi, questa debba essere intesa come
necessaria, tuttavia tale necessità deve essere pur sempre relativizzata al contesto
epistemico.
2
La cultura del positivismo ottocentesco, diffidente verso la metafisica, condusse ad
una sorta di eliminazione del concetto di causa nelle scienze. A partire da Comte,
padre del positivismo, lo scopo della scienza fu ridotto allo scrupoloso accertamento
descrittivo dei fenomeni e alla constatazione di eventuali regolarità tra essi.
Ben diversa è dunque la sua posizione rispetto a quella di Kant, il quale parlava del
nesso causale come di una relazione necessaria. Per i positivisti le leggi naturali non
sono altro che la traduzione in enunciato delle regolarità che lo scienziato può
riscontrare, senza quindi alcuna finalità esplicativa o interpretativa. La scienza
diviene così una mera descrizione di fatti, senza alcuna ambizione di spiegazione ed
esegesi del mondo reale.
Nel Novecento vi è stato chi ha ritenuto desiderabile l’eliminazione della nozione
“causa” dal vocabolario, poiché i concetti causali sarebbero ormai irreperibili nelle
scienze ed in particolare in quelle avanzate come la fisica: “la ragione per cui la
fisica ha smesso di ricercare le cause è che, di fatto, non esistono cose con questo
nome”.
3
Tuttavia questo è un auspicio davvero singolare se si considera che, se è vero che in
certe scienze progredite come la fisica matematica la nozione di causa è
assolutamente superflua, è altrettanto indiscutibile che essa sia assai utile in altre
branche della ricerca, essendo divenuta una nozione comune del nostro linguaggio e
della quale non possiamo fare a meno; è infatti inevitabile guardare agli eventi che ci
circondano chiedendoci “perché è successo?”.
Nell’ambito del diritto penale non esistono dunque delle valide ragioni che ci
impediscano di utilizzare la parola “causa” e pur tuttavia appare improprio e
semplicistico pensare che il termine di cui si sta trattando coincida con un’idea
“pura” di causa, come se quest’ultima avesse le medesime caratteristiche in filosofia,
nelle scienze, nelle materie giuridiche e nello specifico in quelle penalistiche.
2
E.AGAZZI, op.cit., p.395.
3
B.RUSSEL, Misticismo e Logica, Roma, 1970, p.171.
5
E’ d’altra parte convinzione della dottrina odierna premettere che il nesso causale
implicato nel diritto penale sia collocato su un piano eminentemente pratico rispetto
a quello delle discipline scientifiche e filosofiche.
4
Dopo avere posto la fondamentale premessa dell’impossibilità e, per meglio dire,
inutilità della ricerca della nozione “pura” di causa, appare opportuno che il giudice
penale si ponga alla ricerca del concetto di causa nel diritto penale. Nel fare ciò,
come ogni ricercatore o studioso che investighi non su tutte le cose, bensì su quelle
porzioni di realtà che più lo interessano, egli deve porsi nel compimento della sua
indagine dal punto di vista che ritenga essere più rilevante. Infatti ogni persona,
vedendo la situazione globale dal proprio punto di vista, isolerà una determinata
condizione e a questa darà il nome di “causa”. Pertanto è esclusivamente il punto di
vista specifico prescelto dal ricercatore che guida quest’ultimo nella sua opera:
usando una metafora esso potrebbe essere paragonato ad una lente di vetro che
assume diversi colori a seconda della prospettiva in cui si pone l’osservatore.
Allo stesso criterio “valutativo” deve quindi ispirarsi l’indagine sulla causalità nel
diritto penale, affinché si possa stabilire quale sia l’interesse che guida il giudice nel
reperimento della nozione più idonea di causa e quale sia la finalità di tale
operazione.
5
In generale la causalità giuridica si prospetta come un complesso di criteri e di limiti
per attribuire un evento ad un soggetto. L’evento può essere definito come un
accadimento temporalmente e spazialmente separato dall’azione e che da questa è
causato. Più precisamente, essendo esso un elemento del fatto di reato (che nella cd.
sistematica quadripartita rappresenta uno dei quattro aspetti caratterizzanti il reato
insieme ad antigiuridicità, colpevolezza e punibilità), il nome di “evento” spetta
solamente a quella o quelle conseguenze dell’azione che sono espressamente o
tacitamente previste dalla norma incriminatrice.
6
L’evento può consistere in una modificazione della realtà fisica (si pensi alla morte,
prevista nel delitto di omicidio ex art. 575 c.p.) o della realtà economico-giuridica
(ad es. il danno ed il profitto nella truffa, ex art. 640 c.p.) o ancora nell’alterazione
4
G.LICCI, Teorie causali e rapporto di imputazione, Napoli, 1996, p.255.
5
F.STELLA, La nozione penalmente rilevante di causa: la condizione necessaria, appendice a Leggi
scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, 2
a
ed., Milano, 2000, p.p.334-335.
6
G.MARINUCCI, E. DOLCINI, Manuale di diritto penale (Parte generale), Milano, 2004, p.115.
6
della realtà psichica (ad es. la costrizione, quale risultato della violenza o della
minaccia nel delitto di violenza privata ex art. 610 c.p.) o infine in un comportamento
umano (come avviene quando una persona è costretta a fare, tollerare o omettere
qualcosa nel reato di violenza privata).
Prima si è parlato dell’evento come di un accadimento determinato dall’azione. La
definizione è corretta ma non completa: esso può essere infatti causato anche da
un’omissione, da un “non fare”, in parole povere da una situazione di inerzia. Nei
reati omissivi impropri, cioè quelli nei quali la legge punisce il mancato compimento
di un’azione doverosa imposta dall’ordinamento per impedire il verificarsi di un
evento lesivo, l’evento è un elemento costitutivo del fatto.
Delle caratteristiche di questo tipo di reato e delle differenze che lo
contraddistinguono rispetto ai reati di azione e ai reati omissivi propri, ci sarà modo
di approfondire più avanti.
In conclusione di questa premessa si può affermare sinteticamente che la causalità
occupa un posto fondamentale nella storia del diritto penale, poiché segna il
passaggio dalla responsabilità per fatto altrui alla responsabilità per fatto proprio,
ponendo le basi per un diritto penale a base oggettivistica, in cui il problema
eziologico non si confonde con quello pure importante, ma distinto, della
colpevolezza.
7
Con la Costituzione entrata in vigore il primo gennaio del 1948 viene consacrato in
modo solenne il principio per cui “la responsabilità penale è personale” (art. 27
comma 1), che altro non vuol dire se non che la responsabilità penale per fatto altrui
non ha diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento (oltre ad indicare, secondo
l’interpretazione datane dalla Corte Costituzionale, la necessità dell’elemento della
colpevolezza): tra il comportamento delle persone incriminate e l’evento deve essere
presente un filo immaginario che noi denominiamo “causalità”.
Se poi si tiene presente che tale principio è sancito dalla Costituzione, ossia la fonte
suprema del nostro ordinamento, si capisce di quale resistenza all’abrogazione esso
sia dotato, considerando che solo attraverso complesse procedure parlamentari ed
eventualmente anche tramite la partecipazione popolare mediante l’istituto del
referendum esso può essere eliminato o modificato (art. 138 Cost.).
7
F.MANTOVANI, Diritto Penale (Parte generale), Padova, 2001, p.145.
7
Non sembra affatto retorico affermare che il principio della causalità costituisce
un’imprescindibile esigenza in un diritto penale moderno, civile e razionale.
8
1. LA CAUSALITA’ OMISSIVA : PROFILI GENERALI
1.1. LE PRINCIPALI TEORIE SUL NESSO DI CAUSALITA’
L’articolo 40 comma 1 del codice penale sancisce che “nessuno può essere punito
per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da
cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione”.
L’accertamento del nesso causale è finalizzato ad emettere un giudizio di
responsabilità: la causalità funge quindi da criterio di imputazione oggettiva del fatto.
Sussistendo infatti il nesso di causalità si può affermare che non solo l’azione ma
anche l’evento lesivo che da questa deriva è attribuibile all’agente il quale, se sono
presenti anche i necessari requisiti psicologici, sarà chiamato a risponderne
penalmente.
La necessità dell’esistenza del nesso di causalità nei reati di evento (nei reati di mera
condotta il problema non si pone poiché l’evento non è elemento della fattispecie) è
possibile desumerla anche dalle singole figure di reato, per le quali il legislatore
spesso usa termini quali “cagionare” (es. art. 575 c.p.), “produrre” (es. art. 583 c.p.),
“derivare” (es. art. 422 c.p.). Come già è stato detto, le preoccupazioni del legislatore
sono quelle di porre a carico di un soggetto solo quegli accadimenti che possono
essere a lui attribuiti.
Sull’articolo 40 comma 1 (ma anche sul secondo comma, di cui si avrà modo di
trattare nel secondo paragrafo) sono state elaborate moltissime teorie, ognuna della
quali orientata a fornire una diversa interpretazione della volontà del legislatore.
Le teorie che più di tutte hanno destato interesse sono quelle della “causalità
naturale”, della “causalità adeguata”, della “causalità umana”, ed infine quella
maggiormente apprezzata della “causalità scientifica”.
Alcuni autori si richiamarono all’antico brocardo “in iure non remota causa sed
proxima spectatur”. Tra questi l’Ortmann, il quale sosteneva che potesse essere
denominata “causa” solo l’ultima condizione, ovvero quella che, completando la
9
serie degli antecedenti, determina senz’altro il risultato
8
. La teoria della “causa
prossima” però non regge, se si pensa che in moltissimi casi il diritto attribuisce
l’evento a chi ha posto in essere un antecedente che non ha le caratteristiche
dell’ultima condizione. Peraltro è stato fatto da alcuni notare che tale concezione di
causalità è propria di un periodo storico in cui la società era scarsamente sviluppata
da un punto di vista tecnologico ed era quindi assai raro che si frapponesse una
notevole distanza temporale tra condotta ed evento. Oggi invece potrebbe benissimo
darsi che una macchina industriale costruita diversi anni addietro esploda, uccidendo
alcuni operai: secondo la suddetta teoria, l’erronea costruzione della macchina non
potrebbe essere ritenuta causa dello scoppio.
Oltre a questa furono elaborate molte altre teorie “minori” sulla causalità, che non
sembra però opportuno indicare, apparendo assolutamente superate ai nostri giorni.
E’ invece opportuno cominciare ad illustrare la teoria della “causalità naturale”, dal
momento che le altre citate in precedenza possono essere considerate impostate su di
essa. La teoria della causalità naturale, detta anche della condicio sine qua non, fu
enunciata per la prima volta dal criminalista tedesco Von Buri
9
nel XIX secolo e si
basa su un concetto di causa di tipo logico-naturalistico, affermando che nella
scienza penalistica, come in qualsiasi altra scienza, la nozione di causa è quella
propria delle scienze naturali. Affinché sussista il rapporto di causalità è necessario
che l’uomo abbia realizzato una condizione qualsiasi dell’evento, la quale costituisca
però un antecedente indispensabile per il verificarsi del risultato. Tale teoria viene
denominata anche della “equivalenza”, poiché parifica tra loro tutti quei fattori che
sono antecedenti causali dell’evento.
Il passaggio logico che è alla base di tutta questa impostazione è costituito dalla cd.
eliminazione mentale. Esiste un modo sicuro, si faceva notare, per verificare che una
azione (un’omissione, vista sotto il profilo della causalità omissiva, ma in questo
caso il procedimento logico è l’esatto opposto, come si avrà modo di dire nel
secondo paragrafo) sia condicio sine qua non, ovvero condizione indispensabile di
un evento: se dalla somma degli antecedenti si elimina con il pensiero la condotta
dell’agente e l’evento si verifica ugualmente, a buona ragione si può concludere che
quella condotta non è un antecedente necessario, venendo dunque a cadere il nesso di
8
F.ANTOLISEI, Manuale di diritto penale (Parte generale), 16
a
ed., Milano, 2003, p.238.
9
VON BURI, Über kausalitat und deren verantwortung, 1873, citato in F.ANTOLISEI, op.cit., p.240.
10
causalità e con esso la responsabilità del soggetto incriminato. Se, viceversa,
eliminando mentalmente l’azione si osserva che l’evento viene meno o che
comunque, pur non scomparendo, si verifica con modalità diverse, allora è possibile
ritenere esistente il nesso causale. Come è stato fatto notare, queste considerazioni
relative all’eliminazione mentale sono state formulate per la prima volta dal Glaser
10
e non è dunque corretto ritenere che sia stato Von Buri a formularle per primo.
In sintesi, dunque, la concezione dell’eliminazione mentale o meglio della condicio
sine qua non (in inglese meglio nota come causa but for) può essere espressa tramite
un doppio enunciato: “la condotta è causa dell’evento se, senza di essa, l’evento non
si sarebbe verificato” (enunciato positivo) e “la condotta non è causa dell’evento
quando, eliminandola mentalmente, l’evento si sarebbe verificato ugualmente”
(enunciato negativo).
Certamente la teoria condizionalistica, così formulata, ha il merito di avere posto in
primo piano l’importanza del cd. giudizio controfattuale, ovvero del giudizio che
avviene pensando assente (mentre nella realtà essa è presente; per questo si dice
“controfattuale”, perché va contro i fatti, contro la realtà concreta) una determinata
condizione e chiedendosi se in tal modo la conseguenza che si è effettivamente
verificata verrebbe meno. Bisogna cioè domandarsi se si è concretizzata la massima
sublata causa, tollitur effectus.
Il giudizio controfattuale non è solo uno strumento essenziale nelle mani del giudice
penale; in realtà anche negli altri campi di ricerca, siano essi scientifici o storici, è
impiegato un processo di astrazione, quell’astrazione che si compie pensando assente
una condotta per verificare cosa sarebbe successo in sua assenza.
E’ possibile dunque riassumere quanto sin qui detto sulla teoria della causalità
naturale o teoria condizionalistica ponendo dei punti fermi.
Come nella vita ordinaria e nella scienza, così anche nel processo penale è necessario
disporre di un criterio di imputazione e tale criterio è rappresentato da un processo di
astrazione definito “eliminazione mentale”. Quest’ultima serve, nello specifico
ambito del processo penale e quindi dal punto di vista del giudice, ad imputare
l’evento ad una condotta umana, affinchè sia possibile applicare la norma penale. Da
ciò si ricava come la nozione penalmente rilevante di causa consista nello stabilire se
10
GLASER, Abhandlungen aus dem österreichischen Strafrecht, 1858, p.298, citato in F.STELLA,
Leggi scientifiche, op.cit., p.5 (nota 4).
11
una specifica condotta costituisca una condizione contingentemente necessaria per il
verificarsi dell’evento.
11
Tuttavia la teoria in discussione, così come enunciata, non è esente da critiche.
Queste ultime peraltro sono state alla base dello sviluppo delle teorie della causalità
adeguata e della causalità umana, delle quali si parlerà in seguito.
Prima però si vogliono analizzare le osservazioni che costituiscono il fondamento
della cosiddetta causalità scientifica, della quale il massimo esponente, perlomeno in
Italia, è Federico Stella, lo studio delle cui opere è imprescindibile se si vuole
approfondire quella concezione del nesso eziologico che da molti anni permea la
giurisprudenza italiana. I sostenitori della causalità scientifica non hanno come
obiettivo quello di “demolire” i punti fondanti della causalità naturale, bensì quello di
mettere in luce la limitata efficacia euristica del modello condizionalistico.
Si rileva, infatti, come in alcuni casi, celebri quelli delle “macchie blu” e del
talidomide (dei quali si farà cenno in seguito), non si riesca a fornire indicazioni
probanti in merito all’esistenza del nesso eziologico, giacchè mancano le
indispensabili conoscenze che costituiscono il presupposto del procedimento di
eliminazione mentale. In parole povere, l’uso del criterio dell’eliminazione mentale
è necessario, ma dire che esso è necessario non vuol dire che sia sufficiente. Infatti il
procedimento di eliminazione va compiuto solo dopo che si sia in grado di stabilire
se l’azione in questione appartiene al novero di quelle che sono generalmente in
grado di produrre effetti uguali o simili a quelli osservati.
12
Ci si chiede però in che modo si possa affermare che un’azione è generalmente in
grado di produrre certi effetti. Ciò è possibile, dice Stella, sulla scorta di criteri
oggettivi che rendano l’art. 40 comma 1 interpretabile secondo i principi di legalità e
tassatività: in caso contrario si scivolerebbe pericolosamente verso una valutazione
discrezionale del nesso di causalità.
13
Apparentemente sembra facile concludere che il principio della certezza del diritto
prevarrà sicuramente sul soggettivismo indiscriminato della decisione, ma non
bisogna giungere a facili conclusioni se è vero, come è vero, che non troppo
11
F.STELLA, La nozione penalmente rilevante di causa: la condizione necessaria, appendice a Leggi
scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, 2
a
ed., Milano, 2000, p.371.
12
FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, ult.ed., Bologna, p.204.
13
F.STELLA, Leggi scientifiche, op.cit., p.75.