Luca Franco
Il mock-documentary e la decostruzione del genere documentario
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Per inquadrare correttamente il problema ci avvaleremo del supporto di un
testo importantissimo Faking it. Mock-documentary and the subversion of factuality
1
.
Questo libro, oltre a tracciare un interessante percorso dal documentario al
mock-documentary, avvalendosi del contributo dei più sagaci studiosi del
genere, introduce e mette a disposizione dello studioso un altro
importantissimo strumento: il mock grade, traducibile provvisoriamente in
italiano come gradiente di finzione.
La traduzione è approssimativa perché l’aggettivo “mock” in inglese indica sì
qualcosa di finto ma anche qualcosa di ironico, più vicino allo scherzo e alla
trappola che alla mistificazione. E la caratteristica beffarda, oltre a quella
decostruttiva è proprio quella fondante del mock-documentary che
decostruisce il genere, attraverso una irresistibile ironia. Questa ironia non è
una caratteristica accessoria ma fondamentale perché nasconde una sottintesa
comunicazione con il pubblico. Il mock-documentary, infatti, è forse l’unico
genere di “spettacolo” che pretende una partecipazione “attiva” del suo
pubblico. Potremmo quindi affinare la nostra traduzione in livello d’ironia o
meglio in livello di beffardia.
Jan Roscoe e Craig Hight individuano tre livelli di beffardia nell’analisi del mock-
documentary: il primo livello (mock grade 1) è costituito dalla parodia e
comprende la stragrande maggioranza dei testi, il secondo livello (mock grade 2)
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Jan Roscoe e Craig Hight, Faking it. Mock-documentary and the subversion of factuality, Manchester
University Press, 2001
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è caratterizzato dalla critica quei testi che operano una critica feroce alla
comunicazione e spettacolarizzazione operata dai media.
Infine troviamo il livello più alto (il mock grade 3), dove secondo la studiosa
australiana e lo studioso neozelandese si opera una vera e propria
decostruzione del genere, capovolgendo completamente tutte i suoi elementi
fondanti.
I testi con queste ultime caratteristiche sono molto rari, i tre più importanti
2
sono Dave Holzman’s Diary (USA, 1967, 73’) di Jim Mc Bride, The falls (GB,
1980, 185’) di Peter Greenaway e Il cameramen e l’assassino (C’est arrivé près de chez
vous, Belgio, 1992, 95’) di Remy Belvaux, André Bonzel e Benoît Poelvoorde..
Una volta analizzati questi tre testi fondamentali e aver estrapolato le loro
caratteristiche di decostruzione tenteremo di portare la nostra analisi più
avanti, aggiungendo qualcosa di nuovo a ciò che fin qui è stato detto.
Cercheremo cioè di individuare le caratteristiche di un nuovo genere che che a
differenza degli altri possiede solo il nome di ciò che intende rappresentare, la
realtà.
La struttura di questo lavoro sarà organizzata come segue; nel capitolo 1 verrà
esposta una panoramica dei finti documentari, nel capitolo 2 si esporranno le
recenti trasformazioni del documentraio e si introdurrà il concetto di mock
grade, che sarà analizzato in dettaglio nel capitolo 3
2
Nel nostro paese l’unico che avuto una certa fortuna è l’ultimo. Gli altri due non sono usciti nelle sale, se non
rare apparizioni a festival o rassegne. Recentemente (novembre 2004) è uscito un cofanetto di DVD (Dolmen)
che comprende anche The falls di Greenaway.
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Nel capitolo 4, saranno analizzati in tre testi prescelti e ne sarà proposto un
quarto, ovvero Tribulation 99. Alien Anomalies Under America (USA, 1992, 48’)
di Craig Baldwin Infine nel saranno esposte le conclusioni del lavoro, ovvero
l’ipotesi che il mock-documentary in ultima analisi disveli la nascita di un
nuovo genere proprio più che del cinema, dei mezzi di comunicazione di
massa, vale a dire la realtà.
Seguirà una filmografia di tutti i finti documentari prodotti fino alla stesura
della tesi e un’ appendice con un’ampia documentazione sulla trasmissione
alla televisione neozelandese del mock-documentary Forgotten Silver di Peter
Jackson, una rassegna stampa su Il cameramen e l’assassino all’epoca della sua
uscita in Italia e il resoconto della corrispondeza via e-mail con Craig Hight
per l’inserimento del film Tribulation 99. Alien Anomalies Under America tra i
testi di categoria mock grade 3.
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CAPITOLO I
Una panoramica
.
Nel mondo realmente rovesciato il vero è un momento del falso.
Guy Debord, La société du spectacle, 1967
1.1 Una panoramica.
In questo capitolo non avremo la presunzione di trattare tutti i finti
documentari prodotti fino ad oggi, sia perché i confini tra finto
documentario e altre forme miste sono molto sfumati
3
, sia perché negli
ultimi cinque anni la produzione di mock-documentary è cresciuta in
maniera esponenziale e il genere ha acquistato sempre più interesse tra il
pubblico, gli autori e i critici.
Le ragioni di questo vero e proprio “boom” sta forse nel fatto che il mock-
documentary tocca tutti i temi più importanti della nostra quotidianità, e
permette una notevole riflessione sulla relazione tra la realtà e l’informazione
che ci viene propinata ogni giorno in maniera massiva dai nostri mezzi di
comunicazione, e perché forse per la prima volta toglie l’audience dal suo
stato di passività tipico dello spettacolo in generale.
3
Blurred boundaries è la loro definizione nel mondo accademico anglosassone, dal titolo omonimo di
un famoso libro dello studioso Bill Nichols. (Blurred Boundaries: Questions of Meaning in
Contemporary Culture, Indiana University press, 1994)
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Bisogna comunque notare che la forma più diffusa – o meglio il mock grade
più diffuso - è senza dubbio quella della parodia, la meno “decostruttiva” e
inoffensiva dei finti documentari, oltre che tra le più divertenti.
In questo capitolo tratteremo i testi e le tendenze più importanti cercando di
fornire una esaustiva panoramica del genere.
1.2 I precursori
La storia dei finti documentari in senso si può far iniziare dalla famosa
trasmissione radiofonica di Orson Welles del 30 ottobre 1938 (la sera di
Halloween) ispirata al romanzo La guerra dei mondi (1897) di H.G. Wells.
La scelta di Orson Welles di calare il romanzo nella realtà americana – o
meglio nella realtà della radio americana - permette di indicarla come uno
dei precursori del finto documentario vero e proprio. Il contenuto di fiction
del romanzo di fantascienza infatti è stato veicolato con la forma e con un
mezzo solitamente usati per rappresentare la “realtà”.
Se non è possibile sapere se il geniale autore di Citizen Kane avesse messo in
conto l’ambiguità dell’operazione, essendo egli senz’altro dotato della
consapevolezza del mezzo che stava utilizzando, è invece certo che egli si è
servito della forma del reportage – una serie di collegamenti in diretta e
interviste con testimoni oculari terrorizzati - per diffondere i contenuti di una
fiction, anzi una fiction “estrema”.
Il pubblico americano dell’epoca non avrebbe mai messo in dubbio la
veridicità e l’autorevolezza della radio – i primi a farlo, sono stati qualche
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anno più tardi i tedeschi T.W. Adorno e Max Horkhemeir nel famoso
capitolo sull’industria culturale del loro volume Dialettica dell’illuminismo – e fu
preso dal panico, con conseguente assalto ai centralini della polizia e delle
autorità.
Questa premessa, è molto importante perché permette di affermare che la
storia dei finti documentari (o mock-documentary o mokumentary come li
chiameremo da adesso in poi secondo la terminologia anglosassone) inizia
parallela allo sviluppo massivo dei mezzi di comunicazione di massa.
E’ importante soffermarci ancora su questo testo poiché le conseguenze e lo
sviluppo del fenomeno nella sua natura di “falso”, da cui Orson Welles ha
dovuto difendersi, sono molto importanti per introdurre una caratteristica
basilare del mock-documentary, ovvero la sua relazione privilegiata con il
pubblico o, in senso più esteso, con l’audience.
War of the Worlds (come altri mock-documentary che sono sembrati “veri”
4
),
faceva parte di una serie della radio americana dedicata ai racconti fantastici -
il Mercury Teathre on air - appartenente quindi alla fiction, con una
programmazione regolare e continuativa.
Nella conferenza stampa che Welles fu costretto a tenere il giorno dopo per
scusarsi con la nazione, fece notare che le date nel racconto erano sbagliate e
che ci furono due espliciti avvertimenti che ciò che seguiva era un
4
Forgotten Silver (Nuova Zelanda 1995) di Peter Jackson, ad esempio.
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adattamento di un romanzo di fantascienza, uno all’inizio del programma e
uno dopo 40 minuti di trasmissione.
Iniziata la trasmissione, la musica venne subito interrotta da un giornalista
che annuncia che un enorme oggetto in fiamme è caduto su una fattoria nei
pressi di Grovers Mill nel New Jersey.
Chi si fosse messo all’ascolto in ritardo o chi avesse perso il primo annuncio
(che avvertiva che tutto ciò che seguiva era finzione) credette che il
programma che attendeva, il Mercury Teather on Air fosse stato ralmente
interrotto da un’edizione straordinaria del giornale radio.
Fu il pubblico quindi a contribuire all’inserimento del testo nella categoria
del mock-documentary, più che le reali intenzioni di Welles. Come già
accenato in precedenza, questo avvenne anche per un altro testo, Forgotten
Silver di Peter Jackson, che sottostimò la maturità della propria audience (e
anche lì ci furono vibranti proteste).
In un articolo apparso sul New York Tribune dell’epoca Dorothy Thompson
notava che la trasmissione svelava il modo in cui i politici avrebbero potuto
usare i mezzi di comunicazione di massa per manipolare il pubblico.
Del tutto inconsapevolmente Orson Welles e il Mercury Theather of Air
hanno realizzato una delle più affascinanti dimostrazioni di tutti i tempi.
Hanno provato che poche voci efficaci, accompagnate da effetti sonori,
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possono convincere masse di persone di un fatto totalmente irragionevole
e creare panico in tutta la nazione
5
.
Continuando cronologicamente la nostra storia arriviamo fino alla fine degli
anni cinquanta dove incontriamo un finto servizio del il 1° aprile 1957 della
BBC dove si mostravano dei contadini italiani raccogliere gli spaghetti dagli
alberi. Non possiamo proprio parlare di mock-documentary perché il
servizio in questione fu trasmesso, nel giorno tradizionalmente dedicato agli
scherzi, il primo di aprile.
Il riferimento alla BBC è comunque doveroso, perché proprio sul suo
standard serio di trattare “la realtà”, strutturato sull’etica dell’obbiettività si
baseranno una parte considerevole dei testi che prenderemo in esame.
1.3 The Rutles
Dalla parodia degli stereotipi dei media unita alla parodia degli stereotipi della
musica pop nascerà il successivo The Rutles (GB 1978, 71’)
6
di Eric Idle e
Gary Weis
Cronologicamente The Rutles è successivo ad altri due testi importantissimi,
Dave Holzman’s Diary (1967) di Jim Mc Bride e Prendi i soldi e scappa (Take the
5
Citazione riportata in War of the Worlds, Orson Welles, and The Invasion from Mars
(http://www.transparencynow.com/welles.htm). che fa parte dell’e-book The Age of Simulation. Phony
Transcendence in an Age of Media, Computers and Fabricated Environments
(http://www.transparencynow.com/tablesim.htm)
6
Il genere che potremmo battezzare mock’n’roll continuerà fino ai giorni nostri con Bad News Tour
(GB 1983) di Sandy Johnson, This is Spinal Tap (USA/GB, 1984) di Rob Reiner (e il suo sequel The
return of Spinal Tap (USA, 1992, 110’) di Jim DiBergi), More Bad News (GB 1987) di Adrian
Edmonson, Fear Of a Black Hat (USA, 1983) di Rusty Cundieff, sul rap e Hard Core Logo (Canada
1997, 92’) di Bruce McDonald sul punk, oltre al cortometraggio Non mi basta il successo più (ITA,
1998, 11’) di Massimo De Lorenzo e Giuliano Taviani , parodia di un classico cantante melodico
italiano da Festival di Sanremo. I tre componenti del gruppo Spinal Tap, Christopher Guest, Michael
McKean e Harry Shearer saranno i protagonisti del recente A mighty wind (USA 2003, 92’) di
Christopher Guest sulla musica folk statunitense.
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money and run, USA 1969, 85’) di Woody Allen, ma lo prendiamo in esame
adesso perché è direttamente legato al lavoro del gruppo comico Monthy
Python Flying Circus (MPFC) e dell’ormai leggendaria trasmissione
statunitense Saturday Night Live (SNL) sugli stereotipi dei media e
soprattutto della BBC.
Diretto da Gary Weis e Eric Idle, quest’ultimo integrante dei MPFC, e
interpretato, oltre che dallo stesso Idle, da George Harrison, Mick Jagger,
Dan Akroyd, Bill Murray e John Belushi, The Rutles è la parodia della
Beatlemania, degli stereotipi con cui venivano mitizzate le rockstar ma
soprattutto è una parodia dell’inchiesta televisiva stile BBC.
“Proprio in questo punto iniziò la storia dei Rutles” sono tra le prime parole
che pronuncia il giornalista (Eric Idle) per poi correggersi nello stile classico
dei MPFC “Bè,non proprio in questo punto, forse qualche metro più in là”.
Anche il modo di vestirsi, la pettinatura, il tono e la camminata riflettono il
classico stile BBC.
Su quest’ultimo punto si innesta una delle parodie più riuscite del film,
ovvero la classica camminata a seguire la telecamera, con il giornalista che
incede lentamente e incessantemente verso lo spettatore spiegando dove si
trova e che cosa è successo. La sequenza viene completamente snaturata dal
progressivo aumento di velocità del mezzo sopra cui è situata la telecamera,
tanto che il giornalista è costretto ad inseguirla disperato per non diventare
un puntino inudibile sullo sfondo dell’inquadratura.
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Questa parodia apparentemente innocente merita due osservazioni.
In primo luogo bisogna notare che la telecamera si rivela, in altre parole la
sua presenza si sente; oltre a ciò questa sequenza costituisce una metafora,
anche se in senso grottesco, della natura stessa dei media, ovvero il fatto
stesso che, se qualcuno vuole comunicare con noi e rendere autorevole una
notizia o un fatto, per prima cosa deve avere la possibilità di stare davanti ad
una telecamera, la sua voce si deve sentire bene e deve essere
sufficientemente vicino all’obiettivo, oltre naturalmente a possedere una o
più televisioni.
Il significato della corsa disperata sta forse proprio proprio lì, nel non
perdere la propria audience.
Il resto dei documentario è una scatenatissima e irriverente carrellata sui vari
luoghi comuni della beatlemania, accompagnata da un Eric Idle impassibile
che si aggira in impermeabile tra i vari luoghi del mito. Il tutto è
inframmezzato da interviste, video, filmati di repertorio e documenti
dell’epoca, (basti citare fra tutti un video sperimentale composto da una serie
di inquadrature di piedi in vari atteggiamenti, parodia del famosissimo Four
7
di Yoko Ono).
Ma la cosa più impressionante del film è la precisione e l’apparente
semplicità in cui vengono imitate le varie performance, inclusa la musica, dei
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Four, fluxfilm n° 16 (USA 1967) di Yoko Ono in cui sullo schermo sfilavano in sequenza i sederi di
diverse personalità artistiche
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Beatles. A parte i titoli degli album e le parole delle canzoni l’illusione è
perfetta, i Beatles potrebbero essere stati fatti a tavolino.
Nel 1990 avvenne qualcosa di simile con i Milli Vanilli, famoso falso
musicale pop, in cui i supposti cantanti erano in realtà due attori che
prestavano solo la propria immagine al gruppo, mentre la voce e la musica
erano fornite da altre persone. Lo scandalo che suscitò l’inganno ebbe
comunque il merito di rendere chiaro una volta per tutte che la nostra epoca
è caratterizzata dalla simulazione e dalla confusione, e che gli errori di
percezione tra un falso e ciò che imita, sono diventati uno dei suoi problemi
caratteristici
8
.
The Rutles si chiude con la più classica domanda finale dei documentari
biografici, ovvero “che fanno adesso i Rutles?”. Le risposte sono nello stile
surreale del film e sono una delle cose più esilaranti, insieme alla parodia (e
disvelamento anche qui) delle classiche interviste “per strada”, per vedere
che ne pensa la gente comune. Qui una donna viene costretta a suon di
schiaffi a rispondere che si ricorda dei Rutles, dopo aver inizialmente
risposto che non ne sapeva niente. Questo semplice gag suggerisce che lo
stesso effetto si può ottenere col montaggio, senza ricorrere agli schiaffoni,
in maniera molto più discreta e subdola, eliminando le sequenze che non si
vogliono far vedere.
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Questo tema non a caso è tipico di P.K. Dick, uno dei più lucidi interpreti del secolo scorso e di Blade
Runner (USA, 1982) di Ridley Scott film tratto da un suo racconto
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L’ultima osservazione riguarda la chiusura quasi gestaltica della sequenza
iniziale in cui il cronista era costretto a rincorrere la macchina da presa che si
allontanava, chiusura che riguarda sempre la forma documentaria. Nel
commentare la copertina di uno degli ultimi dischi dei Rutles Shabby Road
(parodia di Abbey Road del 1969, con la famosa foto dei Beatles che
attraversano la strada sulle strisce pedonali davanti alla sede della Apple, la
loro casa discografica) Eric Idle si sofferma in mezzo alla strada enumerando
le diverse interpretazioni della fotografia della copertina, cosa scatenò
un’infinità di leggende metropolitane per il fatto che uno dei Beatles (Paul
McCartney) era a piedi nudi. La macchina da presa avanza lentamente verso
di lui, fino a che, al contrario della scena iniziale lo investe. Questa scena
disvela i meccanismi narrativi del documentario portandoli all’eccesso.
Invece di incalzare il commentatore con una carrellata a seguire, creando così
un effetto affabulante, la macchina da presa si rivela, insieme alla macchina
sopra cui è posta, travolgendo il giornalista. L’effetto è poi amplificato dal
montaggio a stacco sull’immagine di Eric Idle fasciato e ingessato
all’ospedale (gag questa tipica dei cartoon) che continua imperterrito a
commentare e intervistare come se nulla fosse. E l’effetto “disvelamento”
viene qui ulteriormente accentuato da una sua domanda estemporanea a
Mick Jagger a cui sembra porgere il microfono per la risposta. Il cantante
verrà poi montato a stacco e risponderà, ma è evidente che non è in presenza
dello sfortunato giornalista (da qui l’effetto comico).
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Va ricordato, per dovere di informazione che quando uscì in Italia, il disco
dei Rutles fu stroncato con veemenza su varie riviste specializzate che si
ribellarono quasi tutte scandalizzate che qualcuno provasse così palesemente
a copiare i Beatles. Quasi tutte iniziavano con il ritornello: “Ma chi si
credono di essere questi Rutles…”.
Ciò può essere una ulteriore soddisfazione per gli autori. La conseguenza
forse non voluta è il fatto che situa il nostro film in una zona diversa dalla
parodia. Chi non ha capito la natura del prodotto, lo ha inserito a forza fra i
gruppi e i dischi “veri”.
Continuando a esplorare il sottogenere “mock’n’roll” incontriamo un primo
vero classico del genere: This is Spinal Tap.
1.4 This is Spinal Tap.
This Is Spinal Tap (USA 1984, 82’) di Rob Reiner è ormai divenuto un classico
per quanto riguarda i mock-documentary sul rock. La parola rockumentary,
tra l’altro, venne usata una delle prime volte proprio in questo film e “Spinal
Tap” è diventato l’aggettivo inglese per definire i gruppi heavy metal
commerciali e adolescenziali.
This is Spinal Tap segue la tourneè americana di un gruppo heavy metal
inglese famoso negli anni’70. Lo stile è quello classico del reportage, con
frequenti interventi dei protagonisti in forma di riflessioni o ricordi. La
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camera a mano, i fuori fuoco, tutte le imperfezioni della “presa diretta” sono
esaltate e messe al servizio dell’apparenza di verità.
Un notevole ruolo nella costruzione della “veridicità” è la recitazione degli
attori, perfetti non solo nel proprio ruolo, ma sopratutto nei “tempi” del
documentario.
Questo aspetto è importantissimo perchè rende i membri della banda dei
personaggi credibili in cui è possibile identificarsi; sono infatti dei patetici
perdenti ma allo stesso tempo delle figure che creano empatia proprio e
rendono This is Spinal Tap il testo ideale per dimostrare l’ambivalenza del
documentario verso il proprio soggetto, cosa che costituisce un’aspetto
chiave della parodia
9
.
Come in The Rutles, anche qui il personaggio del documentarista assume
un’importanza particolare; è infatti colui che ci guida nella scoperta del
gruppo. A questo proposito è di grande interesse la sequenza iniziale, dove
Rob Reiner si presenta e, al pari di molti documentari e mock-documentary
di conseguenza, ci espone le ragioni per cui ha voluto fare il documentario.
Il più delle volte è “un caso” o una coincidenza a dare inizio all’opera.
Nel nostro caso Marty DiBergi, il cineasta americano regista di pubblicità
interpretato da Bob Reiner, sente per la prima volta gli Spinal Tap in un club
chiamato “The electric banana” e ne rimane così colpito che, diciassette anni
dopo, avendo saputo che il gruppo sta per fare una tourneè negli Stati Uniti
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Manchester University press, 2001. pag. 121