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siamo allontanati dal significato che ruota attorno alla malattia. Il senso della malattia
non si è esaurisce con la spiegazione fornita dalla scienza medica, esso resta aperto e
porta con sé molti interrogativi.
Il Capitolo 2 è una revisione della letteratura psicoanalitica sul rapporto tra psiche e
soma, e sulla malattia intesa come fenomeno somatopsichico. Vengono considerati
innanzi tutto i grandi teorici di questa disciplina, come Freud e Winnicott, che hanno
considerato indirettamente questo rapporto, fino ad arrivare ad autori che, negli ultimi
trenta anni, hanno cercato esplicitamente di fornire nuovi modelli per pensare l’unità
mente-corpo. La malattia somatica è vista in relazione al processo di sviluppo realizzato
nel corso dell’esistenza: attraverso esso si giunge alla naturale integrazione tra psiche e
soma; nei casi in cui esso fallisce, invece, si determina un distanziamento tra le vicende
somatiche e i significati affettivi che vi sono collegati.
Con il Capitolo 3, entriamo nella dimensione del gruppo attraverso l’analisi del pensiero
di Bion. Questo autore introduce un nuovo concetto, il “protomentale”, che permette di
postulare l’esistenza di una dimensione indifferenziata nel campo del gruppo dalla quale
trarrebbero origine sia le manifestazioni emozionali che le malattie somatiche.Negli
sviluppi successivi della sua teoria, Bion si occupa del funzionamento del pensiero e
postula l’esistenza di una funzione alfa in grado di trasformare i fenomeni sensoriali del
corpo in elementi rappresentabili, rendendoli disponibili al lavoro di produzione onirica
ed immaginativa.
Il Capitolo 4 si occupa direttamente del gruppo per pazienti con patologia organica;
vengono considerati i fattori terapeutici di questo strumento e si sottolineano le
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caratteristiche in grado di favorire un percorso di riappropriazione identitaria
dell’esperienza somatopsichica che accompagna la malattia.
Al termine del capitolo, viene proposta un’analisi di tre esperienze di gruppo realizzate
all’interno di ospedali romani: un gruppo per pazienti cardiopatici, uno per donne con
neoplasia mammaria e infine un gruppo per bambini diabetici.
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Capitolo 1
La malattia
1. La malattia in medicina
Se cerchiamo la parola “malattia” in un comune dizionario (Garzanti, 2005), leggiamo
questa definizione: «denominazione generica di qualsiasi alterazione dell’integrità
anatomica e funzionale di un organismo». Si pone subito in evidenza una questione
importante: la malattia non è una realtà concreta, ma è un costrutto teorico che serve a
delimitare diversi tipi di alterazioni corporee. Essa è una denominazione attribuita
all’alterazione, non è l’alterazione stessa.
Se questa definizione è chiara a livello teorico, bisogna riconoscere che invece, a
livello pratico, nell’operare medico, c’è meno chiarezza.
1.1. La malattia come realtà o come concetto
Quando non si riflette sullo statuto della malattia, si corre facilmente il rischio di
identificarla con la realtà organica alterata del corpo; nel pensiero di “senso comune”
vengono spesso confusi due livelli differenti (un concetto e una realtà oggettiva) e si
propone una concezione ontologica della malattia. «Secondo la concezione ontologica
la malattia sarebbe un’entità reale, considerata in un primo tempo come un essere
concreto (ci riferiamo ai demoni, ai tempi più antichi), poi, in una versione più
raffinata, concepita come un tipo logico, un’idea. Anche se prodotto della nostra mente
questa idea sarebbe il riflesso obbligatorio del mondo reale» (Grmek, 1998, p. 16-17).
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Già nel mondo antico si possono trovare delle concezioni che sostengono lo statuto
concettuale della malattia, presso gli antichi medici greci essa è considerata un sistema,
una configurazione. Essi giungevano alla diagnosi realizzando una sinossi (che in greco
significa “vedere-insieme”) dei sintomi che presentava il paziente; come sosteneva la
scuola ippocratica di Cos del V secolo a.c.: «Una buona diagnosi è l’acquisizione dell’
èidos di un morbo. L’èidos intanto è una “forma” o “specie” della fenomenologia
morbosa, in quanto è una visione onnicomprensiva (sinossi) dei sintomi» (Voltaggio,
1992, p. 329). Mentre il malato è concreto, la malattia è una forma simbolica, è un
modo di pensare, di comunicare e di avere indicazioni su come procedere rispetto a
quello che sta succedendo (Neri, 2002).
Entrambe le concezioni (realtà o concetto) sono sopravvissute parallelamente nel
mondo scientifico attraverso molti secoli, e la disputa decisiva è avvenuta nei secoli
XVII e XIX.
Dopo la rivoluzione scientifica, i naturalisti riuscirono a classificare numerose specie di
piante e animali, «si sperava allora di fare anche una classificazione “naturale” delle
malattie, una classificazione non arbitraria, ma fondata sulle caratteristiche
fondamentali degli stati e dei processi patologici. Malgrado tutti gli sforzi degli
specialisti settecenteschi e ottocenteschi della nosologia, quest’impresa non riuscì e non
è riuscita fino ad oggi» (Grmek, 1998, p. 17-18).
Alla fine di questa disputa è prevalsa la concezione di malattia come èidos, già presente
nella concezione greca di malattia. Questa linea di pensiero è presente anche nelle
moderne classificazioni mediche, sia in quella fornita dall’Organizzazione Mondiale
della Sanità, che nel DSM. Le malattie non sono considerate come “cose in sé”, ma
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rappresentano dei clusters: raggruppamenti di sintomi che si presentano insieme con
elevata frequenza. Esse si basano, quindi, su una concezione nominalista e operazionale
della malattia, e non su una concezione ontologica.
1.2. Tre vertici di osservazione: clinico, anatomico, eziologico
Con il progredire della scienza medica nel corso del tempo, la malattia è stata osservata
secondo diverse prospettive, fino ad ora ho considerato prevalentemente un vertice:
quello clinico-descrittivo, che definisce la malattia come un insieme di sintomi clinici
osservati al letto del malato (kliné in greco significa “letto”). Nell’antica Grecia la
malattia era considerata come una alterazione dell’equilibrio (discrasia) degli umori
presenti nel corpo: sangue, flegma, bile gialla e bile nera (Voltaggio, 1992) ed era
interpretata facendo riferimento ad un elaborato sistema teorico che, tuttavia, non era
stato supportato da osservazioni empiriche, in quanto la dissezione dei cadaveri non era
consentita. Nel II secolo d.c. Galeno, che era invece un chirurgo e conosceva
l’anatomia, cercò di collegare queste concezioni sui fluidi con delle particolari
costituzioni fisiche osservate nelle persone (sanguigno, flemmatico, collerico,
melanconico).
Per arrivare all’intuizione che le malattie potessero essere considerate in relazione agli
organi, si è dovuto attendere altri millequattrocento anni, infatti solo nel XVI secolo
compariranno i primi trattati di chirurgia (Arecco, 1999). Si arriva così alla concezione
anatomo-patologica: le malattie rimandano a delle lesioni di organi.
Bisogna precisare che ogni nuova concezione della malattia non ha mai abolito la
precedente, ma si è sovrapposta ad essa.
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La terza dimensione di osservazione è quella eziologica, «con l’invenzione del
microscopio, nel secolo XVII, nacque la microbiologia […] La scoperta dei microbi
come causa di molte malattie mette in luce la dimensione “eziologia” della definizione
degli stati patologici. Per esempio, la tisi è un vecchio concetto clinico, che si trasforma
in un concetto anatomo-patologico, prima organico (quello di una polmonite con
caratteristiche particolari), poi istologico, con cambiamenti tipici nel tessuto
(tubercoli); si aggiunge poi il concetto eziologico della tubercolosi (che è vista come un
effetto dell’azione del bacillo di Koch)» (Grmek, 1998, p. 17-19).
1.3. La malattia per il medico e per il paziente
La malattia è una realtà complessa perché presenta una dimensione oggettiva
saldamente legata ad una soggettiva: essa può essere disturbo che viene osservato
dall’esterno, con gli occhi del medico, oppure un malessere esperito personalmente, da
parte del paziente. La lingua inglese raccoglie in maniera significativa queste differenze
semantiche e utilizza il termine disease per parlare della malattia vista oggettivamente,
mentre il vissuto della malattia è espresso con i termini sickness e illness (Grmek,
1998). Secondo Balint (1957) la malattia è una “co-costruzione” generata all’interno del
rapporto tra medico e paziente, si definisce progressivamente con le “offerte” di sintomi
da parte del paziente e le “risposte” da parte del medico.
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1.4. Rapporto tra la parte e il tutto
Un ulteriore aspetto della complessità del concetto deriva dal fatto di poter considerare
la malattia localizzandola in una parte del corpo, oppure guardando l’organismo malato
nella sua globalità, questo porta a una questione: «Quando uno soffre, per un mal di
denti o un dolore al dito, che cos’è che è malato? E’ malato l’uomo e la malattia si
concentra su questo dito, oppure è malato il dito facendo soffrire l’uomo intero? I due
punti di vista sono giusti e contraddittori» (Grmek, 1998, p. 28).
Nella medicina greca si credeva che la malattia fosse dovuta ad un’alterazione
dell’equilibrio armonico dei fluidi: è quindi il “tutto” ad essere alterato e gli effetti di
questa alterazione sono i sintomi che si manifestano nelle “parti”. Con il punto di vista
anatomo-patologico ci si è spostati, invece, verso una maggiore rilevanza data alla
“parte” malata.
Attualmente, con la scoperta della centralità di sistemi generali come quello ormonale e
quello immunitario «paradossalmente si ritorna, in un certo senso, ai punti di vista
antichi, perché [...] si vede l’importanza di meccanismi di regolazione dell’insieme» (p.
19). Si sta tornando ad una concezione della malattia che valorizza la globalità della
persona: essa viene interpretata come un malfunzionamento del “tutto” piuttosto che
individuarla in un fenomeno che interessa una parte del corpo; ogni malattia, coinvolge
l’integrità psico-somatica della persona che ne è affetta.
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1.5. Un sistema in evoluzione
Nella scuola di Cos le malattie sono ritenute «sistemi in evoluzione contrassegnati da
una relativa indipendenza dal soggetto in cui si manifestano […] e da una sorta di
implicito finalismo […]. In [questa] prospettiva […], guarire non significa tanto
rimuovere decisamente il male, “scacciarlo”, quanto favorire una strategia spontanea
messa in atto dall’organismo stesso» (Voltaggio, 1992, p. 345). Se vista in questo
modo, anche la terapia cambia il suo significato, essa cessa di essere un’aggressione
diretta verso agenti patogeni; per essere curata, la malattia deve essere canalizzata verso
una evoluzione favorevole, e non annullata. L’organismo è visto come parte non solo
del processo di malattia, ma anche di guarigione e tale concezione diverrà un punto
fondamentale dalla terapia psicoanalitica.
2. La malattia in psichiatria e psicoanalisi
2.1 La psichiatria
Essendo una disciplina medica essa riferisce il disturbo mentale ad un dato organico e lo
chiama appunto “malattia mentale”: essa corrisponderebbe ad una alterazione
funzionale o anatomica localizzabile a livello cerebrale la quale determina un alterato
funzionamento mentale.
I progressi fatti dalle neuroscienze hanno portato ad individuare i correlati biologici di
disturbi come le nevrosi e le psicosi; inoltre ormai è accertata l’esistenza di una
interconnessione tra il sistema immunitario, il sistema ormonale e il funzionamento
mentale e psichico; il legame tra il somatico e il mentale non è più in discussione,
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piuttosto si cerca di vedere in che modo le due aree si influenzano a vicenda. Tuttavia,
nonostante questi sviluppi, si nota che la nosografia psichiatrica non è mutata; essa non
si basa su criteri eziologici o anatomo-patologici ma fa riferimento principalmente
all’osservazione clinica di sintomi e di conseguenza la diagnosi psichiatrica è
caratterizzata da questa “debolezza”. Essa effettua una classificazione sintomatica e
comportamentale che adotta un criterio più sociologico che psicologico; si è
abbandonato l’ideale illuminista di classificare i disturbi in base a dei segni visibili e ci
si limita alla descrizione del comportamento del paziente nella relazione con il medico
correndo il rischio di produrre giudizi morali (Grmek, 1998; Augé, 1983; Focault,
1961).
2.2. La psicoanalisi
Un nuovo modo di intendere la malattia è stato portato dalla psicoanalisi negli ultimi
cento anni, nonostante questa disciplina non si occupi propriamente di malattie
organiche.
Il primo cambiamento è avvenuto a carico della “dispositivo terapeutico”, il rapporto
medico-paziente: Freud ha rivoluzionato la situazione di cura riscoprendo l’importanza
delle comunicazioni del paziente analizzato, attribuendo ad esso un ruolo attivo nel
processo di cura; nel rapporto tra analista e analizzato ha eliminato il distacco proprio di
un rapporto inteso oggettivamente con criteri scientifici positivisti, andando a
recuperare modalità di cura presenti nei procedimenti terapeutici più antichi in cui il
“guaritore” era coinvolto totalmente nel rituale terapeutico, come Ellenberger (1970) ci
ha mostrato nelle sue ricerche.