iv
delle attribuzioni e delle competenze alla luce di una pretesa indipendenza e
“terzietà” di tali soggetti rispetto allo Stato, per arrivare all’esigenza di
determinare un centro di imputazione delle attività in parola, un soggetto
responsabile a livello di diritto lato sensu internazionale, tra l’empowerment nel
potere di relazioni di Regioni ed altri enti e la cognizione del fatto che, pur
assodato che la democratizzazione del “potere estero” ha portato a capacità
estensive in capo ad altri soggetti al di là del Governo nazionale, le nostre
autonomie non possono arrivare a conquistare un’indipendenza, in senso atecnico,
tale da permetterne la configurazione come “altro” rispetto allo Stato stesso, con
ciò che proprio a quest’ultimo consegue in termini di poteri di coordinamento,
controllo, responsabilità. Si arriva a questo punto, dopo aver tratteggiato in linea
generale tutta una serie di problemi preliminari per permettere di costruire un
quadro della situazione e sceverare, poi, le questioni poste, a partire dai
condizionamenti di principio che sottendono la spinta verso relazioni di tal fatta,
poste in essere da soggetti eterogenei di cui si cerca di dar conto per il loro
incardinarsi a diverso titolo nel sistema in analisi.
La disamina procede con l’inquadrare il discorso nel contesto specifico di
riferimento, ossia la qualificazione normativa delle attività poste in essere dagli
enti periferici di cui si tratta, i vari generi in cui si esplicano tali attività, cioè
rapporti di cooperazione e partenariato a livello transfrontaliero e decentrato,
comunitario, europeo ed internazionale. Un excursus sulle istanze federalistiche
che spingono ad una appropriazione da parte delle autonomie di spazi politici e
giuridici sempre più ampi per lo svolgimento di tali relazioni, prelude all’analisi
ed alla critica di questi “spazi”, in relazione all’attuazione e, non solo, anche alla
partecipazione in fase giuridico – costitutiva di programmi per la realizzazione
degli obiettivi in primis tracciati proprio dalla Comunità, rispetto all’attività
statale ed all’evolversi normativo e costituzionale della loro configurazione e dei
rapporti. Si conclude con l’analisi di prassi e dottrina per individuare indirizzi,
innovazioni e prospettive di riforma che in questo periodo si vanno delineando.
1
CAPITOLO I
Soggetti e principi della cooperazione
1. I soggetti.
L’avanzare dell’integrazione e dell’unificazione europea in seno al
processo di globalizzazione evidenzia l’insufficienza degli Stati – nazione e mette
in discussione la loro assoluta centralità. Per questo gli Stati medesimi vanno
ripensati ed assieme vanno costituiti nuovi livelli di governo.
Lo Stato deve inevitabilmente, e questa è tendenza già in atto, cedere una
parte dei suoi poteri verso l’alto ed una verso il basso: si deve dare, in una parola,
luogo a nuove realtà regionali sovranazionali in grado di spingere la
democratizzazione e l’avanzamento dell’azione strutturale dell’UE e della
coesione economica , sociale, istituzionale.
La regionalizzazione è già in corso ma è un processo che per funzionare
deve evolversi da alleanza provvisoria per competere meglio in realtà stabile,
organizzazione politica ed istituzionale. Lo Stato centrale deve cedere allora
poteri non solo verso l’alto ma pure verso il basso, in senso subnazionale, per il
decentramento dei poteri, la creazione di un sistema di autonomie che avvicini i
cittadini alle decisioni e la riconquista di un rapporto di fiducia con le istituzioni
stesse.
I termini “regione” e “politica regionale” sono spesso causa di confusione.
Gli Stati membri dell’UE hanno delle strutture molto diverse perché sia
possibile definire una entità precisa che possa prendere il nome di “regione”.
Normalmente con tale parola nell’ambito dell’Unione si denomina un’area a
livello subordinato a quello dello Stato nazionale, definita a livelli statistici come
appartenente al livello 1, 2,o 3. Parlando di politica regionale dell’Unione
generalmente si fa riferimento al livello 2, ovvero alle “provinces” in Belgio,
“regieunsbezirke” in Germania, “development regions ”in Grecia, “comunidades
autonomas” in Spagna, “regions”in Francia, “regioni”in Italia, “provincies”nei
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Paesi Bassi, “comissoes de coordenanaçao”in Portogallo e gruppi di “counties”
nel Regno Unito. Irlanda e Lussemburgo non presentano suddivisioni regionali,
mentre la Danimarca è stata artificiosamente ripartita in tre regioni (Regione ad
Est del Grande Belt, Regione ad ovest del Grande Belt, Copenhagen).
Le autonomie locali possono dare un grande ed originale contributo e
costituire un modello di riferimento particolarmente riguardo alla partecipazione
dei cittadini e l’efficienza della pubblica amministrazione, a patto che i modelli
centralistici e le tendenze ad una concezione politica elitaria e decisionista non
prendano il sopravvento.
L’integrazione dall’alto e le reti dal basso non solo non sono
contraddittorie né contrapposte, costituendo piuttosto un effetto addizionale che
sottrattivo.
Non solo alla regione ed alle città ma a diverse istituzioni locali spetta tale
“missione”, dando coerenza a poteri legislativamente riconosciuti con funzioni
imposte dallo sviluppo competitivo e dalle problematiche sociali. Fra le altre, le
autonomie funzionali (Camere di Commercio, società pubbliche e consortili,
gestori di public utilities), sono legittimate dalla complementarità con le
istituzioni locali e soprattutto dall’efficacia della loro azione. Anche grandi
sistemi pubblici come quello formativo o quello sanitario ritrovano in molta realtà
europea un autonomo sviluppo tramite un’organizzazione di responsabilità
decentrate; le c.d. reti di città e le intese interregionali, il cui punto di partenza,
focalizzato dalla Prima Conferenza Parlamento Europeo / Poteri locali
dell’Unione Europea (1996), è dato dalla “similitudine soggettiva”,
dall’omogeneità di esperienze e problemi da affrontare e tradurre, a seconda dei
casi, nella messa in comune di servizi o nell’individuazione di progetti comuni da
realizzare. La dichiarazione finale di tale Conferenza chiarisce che il
rafforzamento della legittimità democratica dell’Unione deve passare attraverso la
partecipazione e l’integrazione accresciuta di regioni e poteri locali nelle strutture
istituzionali e nelle varie politiche dell’Unione, auspica il rafforzamento dei
principi del federalismo, del regionalismo e dell’autonomia locale, che vadano a
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connotare l’articolazione interna di ogni Stato, in modo da agevolare una efficace
ed effettiva redistribuzione di competenze e a livello decisionale e di attuazione
delle varie politiche, attribuendo pari dignità a tutti i vari livelli di potere (locale,
regionale, nazionale ed europeo). Il principio di autonomia ormai, considerate le
numerose Conferenze e decisioni prese dalle organizzazioni internazionali
(v.ultra), è così iscritto come principio generale del diritto comunitario derivato
dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e questi e la Commissione
sono tenuti a realizzare il miglior coordinamento possibile- orizzontale e verticale-
delle politiche dell’Unione Europea per massimizzarne i benefici e limitarne gli
svantaggi.
Il contributo delle autonomie va a cogliere diversi ambiti di azione:
territoriale, funzionale, programmatico. Il primo è espressione di una democrazia
diffusa e partecipata nei poteri rappresentativi di regioni e città; il secondo
individua una diversificata presenza di organismi con finalità pubblica e funzioni
di interesse generale; il terzo, rafforzato dal riconoscimento delle forme di
programmazione concertata, si è aggiunto a quelle attribuite ai singoli livelli
istituzionali decentrati. Significativa è la concertazione locale che individua nelle
convergenze di più istituzioni su comuni obiettivi e progetti una vitale forma di
programmazione.
Le collettività locali e regionali d’Europa hanno di recente sviluppato una
notevole capacità d’azione a livello internazionale, instaurando rapporti di
reciproca collaborazione, gemellaggi, protocolli d’intesa, partenariati (iniziative
bilaterali) e supportando vari organismi o associazioni a carattere geografico o
tematico che catalizzano interessi regionali specifici. Ad essi l’UE ha oggi
riconosciuto valore politico e istituzionale pieno, specialmente creando al suo
interno un organo consultivo come il Comitato delle Regioni (CdR).
Tra le principali associazioni internazionali operanti a livello europeo
meritano di essere ricordate il CCRE (Consiglio dei Comuni e delle Regioni
d’Europa), nato nel 1951 ed unito dal 1991 con la IULA (Unione internazionale
delle autorità locali). Esso rappresenta e difende gli interessi dei poteri locali e
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regionali dell’UE e del CdE, sostenendo gli ideali del federalismo e della
cittadinanza europea; promuove la cooperazione interregionale ed organizza
conferenze a livello europeo su temi interessanti i poteri locali. La sezione italiana
del CCRE è l’AICCRE (Associazione italiana per il CCRE). Il CPLRE
(Congresso dei poteri locali e regionali d’Europa), organo consultivo del
Consiglio d’Europa, è sede d’incontro per le delegazioni nazionali di
amministratori e regionali dei Paesi membri per dibattere temi d'interesse delle
autonomie territoriali e per la costruzione dell’Europa unita. Il Congresso
partecipa al programma di cooperazione del CdE per la democrazia locale sia
riguardo all’elaborazione delle regole costituzionali su questo punto che a livello
delle leggi fondamentali sulla creazione di istituzioni locali ispirantisi ai principi
della Carta europea della Autonomia locale (1985), della Convenzione Quadro
Europea sulla Cooperazione Transfrontaliera (1980) e la Carta Europea delle
lingue regionali e minoritarie che ha promosso il CdE stesso. Il congresso è
composto esclusivamente di rappresentanti eletti di enti locali e regionali, di
responsabili diretti dinanzi un organo locale o regionale eletto. È suddiviso in due
camere: la Camera dei poteri locali e la Camera delle Regioni.
Altre organizzazioni, di privati, queste, sono METREX (associazione
delle regioni metropolitane), istituito nel 1996; EUROCITIES, MUNICIPIA, ed
altre reti di interscambio fra i poteri locali europei, promosse dalla RUR (rete
urbana delle rappresentanze). Nel 1991 la Conferenza dei Presidenti delle Giunte
Regionali e Province autonome ha deliberato la costituzione dell’OICS
(osservatorio internazionale Cooperazione allo Sviluppo) a coordinamento,
assistenza nell’elaborazione ed istruttoria dei progetti di cooperazione decentrata,
a loro divulgazione e ad incentivo di tali iniziative.
Il Trattato di Maastricht (1992) ha riconosciuto il ruolo di interlocutore
privilegiato alle collettività territoriali associandole alla procedura decisionale
comunitaria a titolo consultivo, tramite il Comitato delle Regioni. Esso comprende
autorità sia regionali sia locali, i cui ruoli sono, in effetti, diversi, per competenze
e modus operandi. Le prime devono svolgere un ruolo singolare nel favorire la
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tutela del patrimonio, dinamizzare le strutture culturali e promuovere le arti
creative. Le seconde devono invece intervenire per quanto riguarda lo sviluppo di
cittadinanza e della partecipazione, l’introduzione di progetti sociali innovativi.
Il Comitato delle Regioni è obbligatoriamente consultato, ciò che per la
prima volta capita nella storia dell’Unione Europea, in relazione ai seguenti nuovi
settori (cfr. Trattato di Amsterdam, 1997- in vigore dall’1/5/1999): occupazione,
pari opportunità, sanità pubblica (competenze, queste , comuni anche al Comitato
Economico e Sociale), l’ambiente (art. 175), il fondo sociale europeo (art. 148), la
formazione professionale (art. 150), la cooperazione transfrontaliera (art. 265
primo comma), i trasporti (artt. 71 ed 80).
Il Parlamento Europeo può inoltre consultarlo su altre questioni. Si deve
ricordare che il Comitato ha acquisito completa autonomia amministrativa e può
anche stabilire il proprio regolamento interno senza doverlo sottoporre
all’approvazione unanime del Consiglio Europeo.
Si è visto che tali organismi sono creati e riconosciuti in seno
essenzialmente all’UE ed al CdE, dunque è certo il loro status nell’ordinamento
giuridico internazionale. Più complesso è identificare quello delle citate
autonomie territoriali.
In generale possono accomunarsi in una definizione secondo cui “sono
autonomie gli enti che esercitano propri poteri di governo su determinate porzioni
di territorio di uno Stato e risultano dotati di autonomia”. Analogamente, si parla
di “uno Stato dotato di regime interno, in cui il potere è distribuito tra varie entità
territoriali, ciascuna delle quali ha una propria organizzazione ed è in grado di
governare una porzione del territorio complessivo dello Stato, ma non ha quelle
caratteristiche di indipendenza che distinguono invece lo Stato sovrano”.
Autonomia e governo territoriale, dunque, come principali requisiti delle
autonomie.
La Carta Comunitaria della Regionalizzazione (1988), all’art.1 §1, così
definisce la regione: “territorio che geograficamente costituisce entità a sé stante
oppure insieme di territori simili in cui esiste una continuità e la cui popolazione
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presenta determinati elementi comuni, desidera salvaguardare le proprie
caratteristiche e svilupparle al fine di stimolare il progresso culturale, sociale ed
economico”. Cosi da un punto di vista oggettivo.
Soggettivamente sono identificate in enti già dotati di significativi poteri
di governo.
Un altro importante elemento, inerente al discorso di cui si tratta, è il c.d.
potere estero, cioè l’insieme delle competenze attinenti ai rapporti internazionali
dello Stato (Stato- apparato) in senso ampio, travalicanti, dunque, l’ambito della
comunità statale per riflettersi in altri ordinamenti statali
1
. Essendo raison d’etre
dell’ordinamento internazionale l’indipendenza degli enti che ne fanno parte, oltre
agli Stati, com’è ovvio, ed alle organizzazioni internazionali, va riconosciuta tale
caratteristica anche agli “enti atipici”, legittimati nella propria personalità
giuridica, nella propria partecipazione, come soggetti indipendenti, appunto, allo
svolgimento delle relazioni internazionali.
Vero è pure che le autonomie territoriali sono riconducibili agli Stati, la
cui sovranità è sempre di più divisibile, scomponibile e comprimibile, ma la
legittimità della loro partecipazione al diritto internazionale è certa e non come
improbabili “soggetti a competenza limitata” ma nell’ambito di prassi
internazionale dello Stato medesimo. D’altronde gli enti territoriali derivano da
una distribuzione di competenze tra centro e periferia voluta in primis dalla realtà
costituzionale degli Stati, cosicché essi vengono a configurarsi come organi o
parti dell’ordinamento nel suo insieme. Ciò sia nell’effettuazione di attività
autonome da parte dell’ente periferico, soggette a controllo e coordinamento da
parte dell’apparato centrale, sia per la partecipazione dell’ente periferico a
1
Diversamente, i rapporti internazionali in senso proprio sono di stretta spettanza del Governo
sotto controllo politico del Parlamento, riguardando fondamentalmente relazioni tra soggetti del
diritto internazionale.
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procedure volte a definire le scelte dell’apparato centrale o meglio dell’ente nel
suo complesso.
2
Si potrebbe dunque concludere che le autonomie territoriali nella sfera dei
rapporti internazionali operano come organi dello Stato, ma non in relazione di
subordinazione, bensì piuttosto in conformità alle norme stabilite riguardo
all’attribuzione e l’esercizio di poteri.
Lo Stato nel senso del diritto internazionale resta un tutto inscindibile, ove
regioni ed altri enti, ed organi centrali e periferici confluiscono, per il processo di
“comunitarizzazione” ed “internazionalizzazione” degli ordini giuridici interni. Si
discute se il diritto internazionale attraverso l’emergere di un “principio
democratico” in norme ed in espressioni di soft law superi, almeno in parte, la sua
tradizionale neutralità sulla natura dei regimi interni, valorizzando di conseguenza
il ruolo delle attività e delle autonomie territoriali, anche in combinazione con la
stessa prassi statuale in questo senso.
2
La distinzione riprende la crescente prassi di diritto internazionale riguardo allo svolgimento di
attività promozionali ed attività di rilievo internazionale: tra le prime sta la cooperazione
transfrontaliera, insieme alla cooperazione allo sviluppo, emigrazione ed immigrazione,
commercio, etc.-in sostanza lo svolgimento di contatti fra Regioni e “entità estere” su diversi temi,
che talvolta portano alla redazione comune di documenti del tipo delle “dichiarazioni di intenti”,
taluni casi di partecipazione delle Regioni sia all’elaborazione che all’attuazione dei trattati
internazionali. Tali attività sono il campo d’azione privilegiato della “soft law”, fonte non di
obblighi giuridici ma piuttosto di impegni politici, pur provvisti di garanzie di “solidarietà non
istituzionalizzata” e di “reciprocità”. Le attività condotte autonomamente dalle Regioni , salvo
assenso o previa intesa statale , sono eterogenee , accomunate da aspetti e presupposti implicanti
contatti diretti o indiretti con ambiti estranei alla comunità nazionale. Entrambi i tipi di attività si
caratterizzano per i fatti che non sono alla fine volte direttamente ed espressamente alla
produzione di norme giuridiche ed all’assunzione di impegni internazionali - ciò che resta di
spettanza statale -, e che hanno carattere oggettivamente internazionale, per cui i contatti
transnazionali in senso ampio che creano possono ben essere fonte di responsabilità internazionale.
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2. Caratteristiche e principi della politica della cooperazione.
L’attività interregionale comune è indipendente e volontaria e si propone
di rafforzare i legami interregionali in modo che siano flessibili e interattivi,
reciproci ed attivi. Forme di cooperazione tra regioni amministrative, province e
Stati si danno in campo economico, politico, sociale, separatamente o
congiuntamente.
La regionalizzazione spesso viene fuori come alternativa alla
periferizzazione che, nell’Europa in via di integrazione, minaccia aree marginali e
non solo, anche quelle geograficamente lontane rispetto ai centri economici e
politici della Comunità.
La regionalizzazione implica il trasferimento della sovranità statale ad un
livello più basso ed aiutato altresì da organi di cooperazione transfrontalieri
affatto diversi; insieme, il territorio si valorizza, non più oggetto della politica
regionale statale.
Il processo di integrazione europea evidenzia il significato della
cooperazione, stimolato da reciproci interessi regionali, quasi mai
caratteristicamente uniformi ma dinamici e innovativi, e per questo
profittevolmente tendenti a convergenze o, a limite, ad una riduzione delle
differenze.
L’attuale configurazione delle frontiere europee è essenzialmente il
risultato dei conflitti verificatisi negli ultimi tre secoli, e si tratta per molte aree di
frontiere politiche che hanno diviso in modo artificiale unità etniche e culturali. I
recenti cambiamenti seguiti alla fine della divisione in due blocchi hanno portato
delle prospettive di sviluppo per l’intero continente. Non si deve dimenticare certo
l’esistenza di problemi come possibile aumento di disparità, forme di
discriminazione, disordini, minacce di conflitti addirittura. Per questo è necessario
un approfondimento della tendenza già esistente all’integrazione ed alla
cooperazione nonché un suo approfondimento.
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A partire dagli anni ’80, la cooperazione specialmente interregionale, in
Europa è stata influenzata da due processi su tutti: da un lato, l’obiettivo
dell’abolizione delle frontiere interne dell’Unione (Trattato sull’Unione Europea,
1993), dall’altro, la volontà di incrementare la cooperazione tra l’Unione Europea
e le regioni prossime alle nuove frontiere (Russia, Europa centrale, Europa
orientale) nonché nei bacini marittimi (mediterranei, baltici, Mare del Nord,
Oceano Atlantico).
“Cooperazione interregionale” intende l’attività di cooperazione fra
operatori regionali e locali a livello europeo e fra gli Stati; al suo interno si
distingue una forma di cooperazione attinente a più argomenti (basata sul vicinato
e non) ed un’altra attinente ad un argomento preciso (esterna o settoriale).
La cooperazione transfrontaliera ed interregionale contribuisce in maniera
significativa alla costruzione ed alla coesione economica e sociale dell’Europa
attraverso una effettiva integrazione in miniatura, il miglioramento delle
infrastrutture, lo sviluppo delle relazioni economiche.
La Dichiarazione di Londra (1998) ha stabilito, in merito al partenariato,
che nei regolamenti dei fondi strutturali si diano delle garanzie reali per la sua
stessa attuazione; che la nozione di partenariato “sia compresa come associante,
attraverso le autorità locali e regionali organizzate in un partenariato funzionale,
l’insieme degli attori che partecipano allo sviluppo locale e regionale: settore
pubblico e privato, associativo, partners sociali, università e centri di ricerca e
organizzazioni rappresentative degli enti locali”.
Dal punto di vista della Commissione Europea, la coesione comprende tre
dimensioni: nazionale, regionale, sociale. Nel quadro delle prime due si persegue
la riduzione delle disparità economiche misurate dal Pil / abitante e di quelle
sociali valutate in termini di tasso di disoccupazione. La coesione sociale cerca di
migliorare la situazione relativa dei gruppi sfavoriti in rapporto al mercato del
lavoro.
La politica regionale dell’Unione Europea punta a promuovere lo sviluppo
in particolare delle regioni svantaggiate mediante trasferimenti di risorse dalle
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regioni più ricche, eliminando i vecchi e evitando nuovi squilibri. Nel fare ciò,
però, non può soppiantare le politiche nazionali e regionali, “limitandosi”
piuttosto al coordinamento di tali politiche, formulando orientamenti e fissando
alcuni principi di base, ed ancora, coordinando le altre politiche e gli altri
strumenti di finanziamento perché assumano una dimensione territoriale ad hoc,
agevolando la trasparenza nella concessione dei fondi, nella loro ripartizione,
nell’informativa ai cittadini.
Schematicamente, ecco indicata la normativa europea che investe i settori
di competenza delle autonomie locali:
-norme sulla concorrenza- controllo sulle sovvenzioni ed i contributi;
-Appalti pubblici- non sono ammesse forme di discriminazione a
favore delle imprese nazionali e/o locali nella scelta dei possibili
contraenti privati
-Tutela dell’ambiente
-Responsabilità e competenze reciproche dei vari livelli di governo
-Controlli sugli aiuti pubblici agli operatori privati
-Normativa istitutiva di rapporti di partenariato con altri enti locali,
stati membri, autorità pubbliche, per la realizzazione di progetti
comuni nelle materie di rispettiva competenza.
I principi dell’azione strutturale possono in via preliminare essere cosi
tratteggiati:
-Concentrazione degli interventi per obiettivi. Vengono individuati
degli obiettivi prioritari per lo sviluppo equilibrato delle regioni
europee, su cui vengono concentrate le risorse;
-Programmazione , che serve a definire programmi pluriennali di
sviluppo. Si tratta di un processo decisionale di concertazione tra i vari
soggetti coinvolti nelle varie fasi di elaborazione dei documenti
programmatici. La programmazione si articola in varie tappe ed a più
livelli (locale, nazionale, comunitaria) secondo un approccio di bottom
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,sino al momento in cui i programmi o i progetti vengono affidati a
responsabili pubblici e privati;
-Partenariato, il quale prevede che, dalla fase preparatoria fino
all’attuazione delle iniziative, vi sia una concertazione più stretta tra la
Commissione, lo Stato membro interessato e le autorità e gli
organismi competenti designati dallo Stato membro a livello
nazionale, regionale, locale o altro, i quali vanno a relazionarsi come
partners;
-Addizionalità, che rappresenta il principio per cui l’aiuto della
Comunità non deve mai sostituirsi all’impegno dei vari Stati membri,
bensì deve servire a completare quest’ultimo apportando un valore
aggiunto alle iniziative nazionali. Tranne che in situazioni particolari,
gli Stati membri debbono essere sostenuti per ciascun obiettivo
affinché la propria spesa pubblica possa mantenere almeno lo stesso
livello del periodo precedente;
-Sussidiarietà, sancito dal Trattato di Maastricht, disciplina i rapporti
tra la Comunità e gli Stati membri e significa, in generale, che la
Comunità non può e non deve intervenire in tutti i casi in cui un
obiettivo può essere adeguatamente raggiunto dagli Stati membri. Ne
deriva che spetta alle competenti autorità nazionali selezionare i
progetti da finanziare coi Fondi Strutturali e garantirne l’attuazione.
I principi costituzionali che evidenziano il ruolo delle regioni e del
partenariato locale sono diversi: l’art. 5 e l’art. 114, che riconoscono e
promuovono le autonomie locali, e la ripartizione della Repubblica in regioni,
province, comuni; l’art. 115, che tratteggia le regioni come enti autonomi con
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Si tratta di un modello di partecipazione democratica al processo decisionale per la
pianificazione, attuazione, valutazione delle misure di politica strutturale dal “basso verso l’alto”, a
livello regionale e locale mediante la creazione di una rete degli agenti di sviluppo endogeno
(PMI, organismi di servizi, enti territoriali).