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esprime); lo stesso Aristotele la farà suo. In questo caso il rapporto tra uomo e donna era
concettualizzato sulla base della minore perfezione del corpo femminile rispetto al corpo
maschile: essendo quest’ultimo più freddo, gli organi sessuali non si trovano all’esterno,
ma sono rimasti all’interno del corpo femminile che diventa così speculare rispetto
all’altro. Questo modello assume un’importanza enorme, al punto che le successive
scoperte in campo biologico (come quella degli spermatozoi e dell’ovulo, nel XVII°
secolo), che potrebbero metterlo in crisi, vengono invece da questo assimilate senza
traumi. Questo a causa di evidenti interessi di tipo politico: mantenere intatta la distinzione
tra uomo e donna nella società, mantenendo per ognuno i ruoli che Madre Natura ha
affidato alle persone. Il secondo modello, apparso sulla scena attorno al 1700, teorizzava
una sostanziale e irriducibile diversità tra uomo e donna. Era una diversità di tipo
ontologico, che rendeva maschi e femmine intimamente diversi e creati per assolvere
compiti non reciprocamente intercambiabili: all’uomo la sfera pubblica e le relazioni
sociali, alla donna la casa e la cura dei figli. Uno degli sbocchi più evidenti di questo
modello sta nella recrudescenza delle divisioni tipiche tra uomo e donna: se la differenza
tra i sessi è insita nella biologia, è sacrilego mutare la divisione di ruoli che è stata
giustamente assegnata. Questo modello quindi, lungi dal modificare le condizioni della
donna, ne provocherà un peggioramento cui si opporranno prima le Suffragette e le prime
femministe dell’800, poi il movimento femminista moderno.
Le testimonianze di questi due modelli ancora oggi sono visibili, nelle tensioni che da un
lato difendono l’uguaglianza di uomini e donne al punto da negarne le differenze
biologiche, dall’altro nelle correnti di pensiero che propugnano una divisione dei compiti
(e, in campo lavorativo, una differenza di salari) che, di fatto, pongono le donne in secondo
piano.
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Una volta appurato come questo atteggiamento sessista (scatenato, presumibilmente, da
questioni legate al potere) informa di sé la cultura di vari paesi europei, si trattava di
rintracciarne i riflessi nelle lingue europee. Dopo aver notato che uno studio siffatto,
applicato solo alla lingua italiana, sarebbe stato riduttivo, ho deciso di allargare il discorso
ad altre lingue europee, concentrandomi anche sull’inglese, il francese e lo spagnolo. Lo
scopo era di rintracciare quanti più elementi linguistici che potessero essere messi in
collegamento con l’immaginario del femminile e del maschile nella cultura occidentale.
Effettivamente questi elementi sono presenti, e sono sorprendentemente simili in tutte le
lingue analizzate al di là del fatto che in alcune di loro non esistano marche suffisse di
genere come nel caso dell’italiano. Questi elementi comuni appartengono a diversi livelli
delle rispettive strutture linguistiche: sono, infatti, osservabili nel lessico, nella morfologia
e, conseguentemente, nella sintassi. Inoltre anche a livello semantico, cioè di produzione di
significati e conoscenze condivise, esistono vari punti di contatto tra le lingue, dovuti
probabilmente all’unica origine indoeuropea. In ogni lingua studiata esistono termini
generali o di portata universale costruiti utilizzando il maschile in funzione generica,
mentre il femminile è usato per i termini astratti; gli agentivi, cioè i termini riferentisi a
lavori o cariche politiche e amministrative sono sempre declinati al maschile, anche
nell’inglese, dove questi termini si formano attraverso l’uso del suffisso –man; a livello
sintattico, non esiste concordanza tra agentivi (al maschile) e i soggetti femminili del
discorso, e pressoché sempre, quando si elencano varie categorie di persone o termini
collettivi, si usa il maschile. Ho potuto così trovare elementi in grado di corroborare la mia
tesi: che, cioè, il genere grammaticale, nelle lingue di origine indoeuropea, non sia
esclusivamente un fatto linguistico senza legami con la sfera del significato, ma anzi
veicoli una serie di informazioni supplementari relative allo status sociale (e relativo grado
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di apprezzamento) del soggetto di cui si va parlando. Tutti i dati da me raccolti vanno nella
direzione di un genere che tende ad occultare il femminile, selezionando il maschile come
forma non marcata e, di fatto, sessuando il discorso in modo univoco. Tale caratteristica
sembra essere propria del genere indoeuropeo, dato che per esempio nelle lingue semitiche
esiste un genere grammaticale che differenzia in modo estremo (anche alla seconda
persona dei pronomi personali), ma non occulta, mentre in una lingua molto lontana dalla
nostra, il giapponese, i nomi non hanno marche di genere e questo va intuito dal contesto in
cui avviene l’interazione. Concludendo mi sono soffermato su alcune considerazioni
relative al metodo da me impiegato e, se mi si passa il termine, al merito del mio lavoro:
riguardo al metodo va subito detto che questo è un lavoro incompleto, poiché prende in
considerazione solo alcune lingue nella zona dell’Europa Occidentale, mentre dovrebbe
esserci un “apertura ad Est” per avere un quadro più chiaro della situazione. Credo
comunque che l’approccio comparativo possa rivelarsi utile nello studio di una struttura
linguistica che suscita così tante perplessità e polemiche. Riguardo al merito, questo lavoro
vuole essere uno stimolo alla riflessione sulle strutture linguistiche di cui ci serviamo per
costruire il nostro mondo e tessere le nostre relazioni. Le parole che usiamo si appoggiano
sempre su uno strato ormai solidificato di significati sociali che si sono col tempo
modificati e arricchiti, e rispetto ai quali noi dobbiamo, o forse dovrei dire dovremmo,
interrogarci più spesso. Secondo Matera l’utilizzo di una lingua permette non solo il “farsi”
della cultura, ma anche la costruzione dell’identità personale e sociale. Dato che la lingua è
sempre culturalmente situata, cioè è sempre legata ad una certa cultura in particolare, essa
porta con sé anche la descrizione delle caratteristiche e delle funzioni che devono assumere
le donne e gli uomini che la parlano; questo permette la costruzione di particolari identità
sociali, fondamentali per la definizione dei rapporti all’interno della società e molto
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importanti anche nei rapporti con altre culture: attraverso la lingua si può negoziare (e
quindi costruire) il rapporto con l’altro, decidendo quali aspetti di sé mettere in gioco, che
posizione tenere rispetto all’altro, quali aspetti della propria cultura difendere e quali
modalità di pensiero utilizzare, in modo che questa scelta risulti non marcata rispetto alle
circostanze. Per questo considero molto importante la riflessione sulla lingua che ogni
giorno parliamo. Corriamo il rischio, nell’era dell’informazione, di non afferrare più il
senso di ciò che diciamo, e di non prevederne le conseguenze. Sarebbe gravissimo se ciò
accadesse, soprattutto in una cultura come la nostra che fa del rispetto verso l’altro uno dei
suoi valori fondanti, insieme a quelli di democrazia e libertà che, come diceva Giorgio
Gaber, è partecipazione. Se vogliamo che tutti partecipino alla cosa pubblica, adesso che
sta per giunta assumendo dei confini transnazionali, è necessario che chiunque sia messo in
condizione di utilizzare al massimo delle sue potenzialità uno strumento eccezionale: il
linguaggio simbolico, tradotto nelle lingue di tutti i giorni.
Sono molte le persone che vorrei ringraziare in occasione di questo lavoro, gente che mi ha
prestato un libro, mi ha aperto una biblioteca, ha fatto due chiacchiere con me sugli
argomenti che stavo studiando. Innanzi tutto vorrei ringraziare il prof. Banfi per avermi
dato l’opportunità di lavorare per questa tesi; inoltre ringrazio il prof. Matera e il prof.
Durand per le informazioni datemi e i testi suggeritimi; il sig. Demetrio Cichi, amico dei
miei genitori, bibliotecario presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, il quale
ha cercato per me dei libri nella capitale; padre Piero Ottolini, che mi ha procurato un libro
particolarmente utile per il primo capitolo; l’Università Statale di Milano; l’Università
Statale di Bologna; l’IsIAO (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente) e in particolare la
professoressa Spadavecchia per le informazioni riguardo al giapponese.
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Infine vorrei ringraziare i miei genitori per la pazienza dimostrata durante un anno e mezzo
di tesi, e i miei amici, in particolare Daniele, con cui ho condiviso le disavventure della
vita universitaria, Paolo Viga e Paolo Foi, Sara, Fabio e Braciola, Riccardo, Valentina &
Valentina, i ragazzi di Scienze Ambientali (con ognuno ho avuto modo di discutere della
mia tesi), i miei fratelli e la Comunità Capi del mio gruppo scout, a Cantù.
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I
UNA VECCHIA STORIA
La nostra è una cultura da sempre alla ricerca di strumenti concettuali (e non, in alcuni
casi) utili a dividere, definire, organizzare la realtà secondo principi di gerarchia e/o di
contrapposizione. Siamo degli specialisti in questo. Le distinzioni tra natura e cultura,
impulsi vitali e impulsi di morte, pensiero e forma sensibile, individuo e società, uomo
selvaggio e civilizzato: queste sono solo un campione del più vasto insieme di categorie di
significati con cui cerchiamo di organizzare un mondo che altrimenti ci risulterebbe
ingestibile. Il rapporto concettualizzato all’interno di queste coppie semantiche, che
dovrebbero consentirci di interagire con le varie dimensioni del reale, è oppositivo e
gerarchico: l’una è dove l’altra non è, l’una è migliore dell’altra, l’una deve vincere
sull’altra. Non sempre, storicamente, hanno prevalso gli stessi termini delle coppie.
Facendo un esempio estremamente semplificato, possiamo affermare che nel periodo della
formazione degli Stati europei moderni prevaleva, tra le altre, la polarità “società”, così che
gruppi di persone si riconobbero come un popolo con determinate caratteristiche culturali e
cercarono di darsi una struttura politica che permettesse il loro riconoscimento come
nazione; durante il periodo romantico e soprattutto nella fase denominata decadentismo,
invece, possiamo scorgere i segnali di un’insoddisfazione nei confronti di certe forme del
vivere comune (la divisione del lavoro in fabbrica, per esempio) che porteranno allo
sviluppo di un moderno individualismo. Il rapporto tra i termini di ogni coppia di
significato è però sempre oppositivo. È un processo che fa parte della nostra cultura; la
nostra caratteristica principale non è certo la capacità d'integrazione. Attenzione, non penso
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che questa spinta sia di per sé negativa: lo diviene se utilizzata per portare disuguaglianza e
discriminazione; altrimenti essa rimane semplicemente un modo, culturalmente,
geograficamente e, forse, storicamente determinata di affrontare la realtà. E diviene la base
del rapporto con l’altro, nel momento in cui porta al riconoscimento di chi è diverso da noi.
Sta di fatto che da sempre l’occidente, sulla base del detto antico secondo cui “il simile si
conosce col simile”, ragiona per opposizioni.
A questa logica non poteva sfuggire anche il problema di come definire i rapporti reciproci
fra uomo e donna. O meglio, di come definire la donna rispetto all’uomo, dato che
quest’ultimo (almeno negli ultimi 2-3000 anni) è stato considerato come il massimo
esemplare di perfezione creato dalla natura, la cui struttura corporea e fisiologica
rispecchiava la struttura, altrettanto perfetta, dell’universo. Il problema sta, infatti, nel
rintracciare un modo di vedere il corpo, per poi capire cosa a quel corpo è dato fare o non
fare, dire o non dire, sentire o non sentire. Per capire, quindi, quali ruoli sociali e quali
aspettative sono riversati sul corpo. Per cogliere come adesso le culture occidentali
“vedono” l’uomo e la donna dobbiamo studiare come, lungo la storia, queste
rappresentazioni si sono modificate. Attraverso tutta la cultura occidentale, sin dai tempi
dell’antica Grecia, si sono succeduti due grandi modelli di definizione dei corpi femminile
e maschile: uno teorizzava un’origine unica dei due sessi ed una loro uguaglianza, diciamo
così, strutturale (gli organi femminili sono come quelli maschili, solamente non si trovano
all’esterno del corpo) e funzionale (stessi organi, uguali funzioni); un altro considerava
donne e uomini come esponenti di due sessi diversi ed irriducibili l’uno all’altro, anzi quasi
reciprocamente estranei; due specie differenti. Entrambi questi modelli rispondevano a
determinati modi di leggere la realtà e a specifiche esigenze culturali, i quali trovavano poi
riscontro nell’organizzazione sociale dei generi. Ma sia che prevalesse un modello sia che
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prevalesse l’altro, la sostanza non cambiava di molto: la cosa importante era giustificare
una posizione di fatto dominante dell’uomo rispetto alla donna, la quale era descritta
sempre in rapporto ad un modello maschile. Quindi la persistenza di un determinato
modello era dettata da fattori di ordine politico, sociale e culturale che, si badi, avevano lo
scopo primario di definire non il genere, ma il sesso. I discorsi sul genere, molto più
recenti, partiranno dalle teorie che sono costruite attorno al concetto di sesso.
Nei prossimi paragrafi vedremo come questi due modelli si siano sviluppati ed intrecciati
tra loro, arrivando fino ai giorni nostri, per vedere poi come ora essi contribuiscono al
pensiero sul genere; vedremo poi in quale situazione di fatto le donne vivono nel mondo
occidentale. In queste pagine utilizzerò il termine “genere” come un semplice equivalente
di “sesso” per evitare di ripetermi troppo. Verso la fine del capitolo mostrerò poi quando
questo termine è stato coniato e che significato ha per noi oggi. Nel compilare questo
capitolo, soprattutto la parte storica, mi affiderò spesso e volentieri a Thomas Laqueur ed
al suo “L’identità sessuale dai Greci a Freud”, che si è rivelato essere molto utile.
Il corpo antico
Il problema della condizione femminile così come è inteso ai nostri giorni, con il ricorso a
termini come “genere”, è un prodotto della cultura contemporanea. Esso è un frutto delle
rivendicazioni femministe, soprattutto della cosiddetta “seconda ondata” femminista, cioè
di quel movimento nato negli anni ’60-’70 e che ha portato a grandi conquiste civili in tutto
l’Occidente ed ad una presa di coscienza sulla condizione delle donne. Nell’antica Grecia e
fino a molto tempo dopo, invece, questo tema era affrontato in ben altra maniera, che noi
moderni fatichiamo a comprendere in pieno perché molto, molto distante dal nostro sentire.
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Secondo gli antichi il sesso era uno solo, e uomini e donne avevano gli stessi organi
riproduttivi, solo che negli uomini erano esterni, nelle donne interni. Perché? Per un difetto
di calore, “lo strumento principale della natura”. Si pensava che ciò che distingue donne e
uomini fosse una differenza di calore: il maggior calore del maschio sarebbe stato in grado
di “spingere” verso l'esterno quegli organi che invece nel più freddo corpo femminile non
avrebbero potuto vedere la luce. L’aspetto anatomico della vagina era sorprendentemente
simile, anzi uguale, a quello del pene: al punto che, vedendoli raffigurati, non sarebbe stato
possibile distinguerli. Ma non c’era il bisogno di raffigurarli. Dice Galeno di Pergamo, un
famoso studioso e anatomista che visse tra il secondo e il terzo secolo dopo Cristo:
Tutte le parti che hanno gli uomini le hanno anche le donne […] se rivolti all’esterno quelle
femminili e pieghi, per così dire, all’interno quelle maschili, le troverai tutte uguali tra loro.
Le troverai tutte uguali tra loro. Dunque l’uomo e la donna sarebbero l’uno la versione
rovesciata dell’altra, come un calzino e un calzino rovesciato. Di più, e meglio: la donna
sarebbe il calzino rovesciato, la parte girata, quella meno perfetta perché non è uscito ciò
che doveva uscire. Dice ancora Galeno che non è possibile trovare, nel corpo femminile,
una sola parte dell’apparato riproduttivo maschile che non abbia semplicemente cambiato
posizione. Un corpo femminile che quindi è una versione in tono minore, con un minor
grado di perfezione, di quello maschile. Non esistono organi specificamente maschili o
femminili, o funzioni organiche specificamente maschili o femminili: tutto è uno, solo
posizionato in modo diverso. E l’uomo e la donna non sono ontologicamente diversi, non
sono due esseri differenti, due specie: è una differenza di grado quella che li distingue, e
che li rende socialmente diversi, l’uno al primo posto, l’altra al secondo:
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Come dunque l’uomo è il più perfetto di tutti gli animali, per questo stesso motivo il maschio è più
perfetto della femmina. La causa della perfezione è la maggior quantità di calore, che è lo
strumento principale della natura.
Da questo estratto si può vedere chiaramente come si sviluppa il ragionamento di Galeno.
Il punto di partenza, qui implicito, è che la natura tende sempre alla perfezione, che si
raggiunge attraverso una maggior quantità di calore (il calore è attività, è principio che dà
vita); questa è espressa al massimo grado attraverso la figura umana. Naturalmente il
meglio è maschio, poiché in lui vi è una maggior quantità di calore. Il punto di partenza,
dunque, è una considerazione sull’universo, sul macrocosmo e su come questo è
organizzato e composto, da cui discende una considerazione sullo stato dell’umano. La
biologia e l’anatomia (la scienza, diciamo così), serve solo a giustificare un dato di fatto, e
non a mostrare (o dimostrare) una determinata situazione. La scienza dunque si piega sotto
i voleri della cultura: è culturalmente determinata, è uno strumento non di conoscenza, ma
di spiegazione e giustificazione. Per questo, nel sapere antico, non si dà importanza al
corpo sensibile, all’osservazione: perché non ce n’è bisogno, perché non c’è niente da
scoprire, anche se è chiaro come il sole che l’uomo e la donna siano riconosciuti come
diversi a occhio nudo. La scienza sembra non avere un valore in sé ma solo come
strumento per legittimare una situazione, uno status quo che è teorizzato come l’unico
possibile perché necessario ed inevitabile: natura, appunto. Non lo dice la cultura che
uomini e donne hanno ruoli sociali diversi: è la stessa natura a mostrarcelo. Quindi i ruoli
sociali non sono un’invenzione degli uomini, ma una condizione naturale.
Naturalmente Galeno non aveva costruito questo sistema concettuale tutto da solo, ma
aveva ripreso scritti antichi in cui idee simili alle sue erano espresse in maniera forse
ancora più radicale. Un esempio, strano a dirsi, lo possiamo ritrovare in Aristotele.
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Quando parliamo di lui dobbiamo distinguere il filosofo dal naturalista: come filosofo,
infatti, insisté sui due sessi, ma come naturalista si impegnò a smontare la sua stessa
posizione. Per il filosofo il sesso esiste per la causa della generazione, e per questo la
natura ha dotato gli umani della possibilità di provare piacere durante l’atto: per
incentivare la generazione, e dunque la conservazione della specie. Quindi non può esserci
concepimento senza piacere, e soprattutto senza orgasmo. In questo processo l’uomo e la
donna svolgono ruoli differenti: l’uomo rappresenta la causa efficiente, colui che nel suo
seme ha lo spirito vitale, attivo; la donna è invece la causa materiale, passiva, ciò che
contiene e quasi cova la vita dentro di sé. Esser maschio significa la capacità di dare la
vita, perché il suo maggior calore ha in sé questa possibilità, e perché suo è l’organo
preposto a questo compito, il pene; mentre la donna è dotata dell’organo preposto alla cura
della vita dentro di sé: l’utero. Due organi distinti con funzioni distinte, dunque. Per ogni
forma, una funzione. E un ruolo sociale che riceve legittimità direttamente dalla natura.
Sembra dunque, il filosofo Aristotele, essere lontano anni luce dalle teorie di Galeno, pur
se il suo apparato teorico non è esente da errori; ma, si è già visto, l’obiettivo non è la
conoscenza ma la giustificazione. Veniamo però subito smentiti dall’Aristotele naturalista,
che a poco a poco smonta quanto da lui stesso edificato, mostrandosi anch’egli all’interno
della struttura di pensiero dell’unico sesso, e presentandosi anzi come uno dei suoi più
accesi sostenitori. Come? Innanzitutto indebolendo il collegamento tra forma e funzione
che il filosofo aveva individuato: se l’organo della generazione è per eccellenza il pene, un
pene grande dovrebbe meglio assolvere questa funzione. Invece per il naturalista è vero il
contrario: in un pene lungo il seme si raffredda troppo prima di arrivare nella donna e
quindi perde la sua energia vitale. Questo, per Aristotele, accade anche nell’uomo, che ha
un pene grosso in proporzione alle dimensioni del suo corpo. Inoltre dedica, di fatto, una
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scarsa attenzione agli organi riproduttivi femminili- quegli organi che invece dovrebbero
essere così importanti perché specifici della donna, e importanti nella riproduzione. Oltre a
ciò, assimila la vagina ad un pene interno, con uguale forma, come più tardi avrebbe fatto
Galeno e come al suo tempo comunemente si pensava:
La via attraverso la quale il seme passa nelle donne ha la seguente natura: esse possiedono un tubo
– analogo al pene del maschio, ma interno al corpo
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- e pompano attraverso questo mediante un
piccolo dotto che è situato al disopra del luogo per il quale le donne urinano. A ciò si deve se,
quando esse bramano fare l’amore, questo luogo non è nel medesimo stato di prima ch’esse fossero
eccitate.
Tutto questo utilizzando un linguaggio privo di termini che designino specificamente gli
organi femminili e le loro funzioni. Non ce n’era il bisogno. Non c’era il bisogno neanche
di cercare delle funzioni specifiche per i fluidi del corpo, naturalmente uguali tra uomo e
donna.
Secondo gli Antichi nell’uomo e nella donna il corpo doveva vedere una costante
situazione di equilibrio nella quantità dei propri fluidi (che si trattasse di sangue, latte o
altro). Questo equilibrio era regolato da una serie di “leggi” che mostravano come
l’organismo freddo si regola, come lo fa un corpo più caldo, chi regola l’equilibrio
mediante il sudore e chi mediante altro. In questo modello anche le mestruazioni non
avevano uno specifico valore femminile: semplicemente esse erano viste come un fluido
che le donne perdono perché, essendo più fredde, esse hanno bisogno di espellere maggiori
quantità di sostanze nutritive dal corpo.
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Il corsivo è mio.