8
descrizioni accurate di discipline che sono state già travolte dal
frenetico cambiamento in materia: ciò appare tuttavia auspicabile al
fine di apprezzare i motivi che hanno indotto al cambiamento.
Una seconda parte avrà come argomento il difficile rapporto della
disciplina nazionale relativa alle società a partecipazione pubblica
locale con il sistema normativo comunitario; dalle iniziali procedure di
messa in mora per la contrarietà delle prime stesure normative ai
principi del Trattato si passa nella fase più recente ad un sottile
contrasto, se mi si concede la metafora, sulla “natura genetica” della
società mista: per il diritto comunitario (secondo le indicazioni del
Libro Verde) la struttura societaria è molto più esile e dimessa rispetto
a quella immaginata dal legislatore nazionale. Ciò non può configurare
un vero e proprio contrasto, ma questa divergenza merita nondimeno
grande attenzione in quanto in tale punto si può schiudere l’orizzonte
prossimo dell’istituzione societaria da noi presa in esame.
Dal momento che la concorrenza e la sua tutela rappresentano il
tema portante dell’analisi dei temi fondamentali di questa trattazione,
abbiamo ritenuto opportuno svolgere una breve panoramica di tipo
economico sui temi della proprietà pubblica delle imprese e sulla
concorrenza nel campo dei servizi pubblici. A nostro parere, e nei
limiti di un’esposizione sintetica, essi costituiscono un interessante
parametro di riferimento per la valutazione delle diverse soluzioni che
9
si prospettano nella disciplina della materia. Siamo infatti tra i
sostenitori di una più ampia interazione tra le discipline di natura
giuridica e quelle di natura economica, e riteniamo sommamente
importante nell’evoluzione del diritto l’utilizzo degli strumenti di
valutazione offerti dall’analisi economica.
Infine vi sono poi due sezioni dedicate ad un’analisi puntuale di due
fasi rilevanti nella vita delle società mista: la costituzione della stessa e
l’affidamento del servizio.
La prima fase ha ottenuto la nostra attenzione in quanto essa
rappresenta un punto di comunicazione tra la società pubblica del
passato e la società moderna, in cui molto forte è l’influenza dei valori
di natura privatistica. Essa inoltre riveste particolare importanza in
quanto rappresenta uno dei punti di frizione tra la disciplina europea e
quella nazionale attuale della società mista: in tale fase infatti si
manifesta il carattere non puramente eventuale della scelta del modello
della società per azioni: essa, nel momento in cui esce dalla fase
costitutiva è paradigma delle pretese di essere un luogo di sintesi delle
diverse esigenze dei soci, e non soltanto uno strumento di attuazione
del partenariato tra un socio pubblico ed uno privato.
Il tema dell’affidamento del servizio viene collocato in questa
trattazione in ultima posizione, essendo stato esso il punto più
controverso di tutta l’evoluzione legislativa di questo modello
10
societario: riteniamo in tale modo di poter esporre al meglio il tema,
avendo già analizzato tutti gli elementi che possono risultare utili per la
comprensione di tale, essenziale argomento. Esso rappresenta in sé la
sfida e, secondo i detrattori anche il limite, del modello societario a
partecipazione pubblica locale: come evidenziato nel testo, esso
prospetta, in particolare nell’ultima stesura normativa, una
commistione di intenti e di filosofie tra il diritto pubblico e quello
privato.
Il compito della mia ricerca sarà quindi quello di cercare di
evidenziare i limiti e le prospettive di tale tendenza, che rappresenta
sicuramente una delle spinte più interessanti sviluppatesi negli ultimi
tre lustri di evoluzione del diritto pubblico dell’economia.
Prima di iniziare la trattazione mi sia consentito un sincero
ringraziamento al professor Roberto Caranta, che mi ha seguito nella
stesura di questa tesi di laurea. Lo ringrazio per la sua disponibilità, la
sua competenza e la sua simpatia durante questi ultimi mesi, nonché
per le vivaci e stimolanti lezioni di Diritto Amministrativo, che
resteranno per me una delle pagine migliori del mio percorso
universitario.
11
Capitolo I
Quadro normativo ed istituzionale
1. Antefatto: la storia e la crisi del servizio pubblico locale. 1.1
La municipalizzazione dei servizi pubblici; 1.2 Il Testo Unico del 1925
e gli sviluppi del dopoguerra; 1.3 La crisi del servizio pubblico locale,
nella più ampia crisi finanziaria ed istituzionale dello Stato italiano. 2.
La società a prevalente capitale pubblico locale, la legge 142/90. 3.
La società a prevalente capitale privato; 3.1 Il cambiamento del
1992. La disciplina speciale della s.p.a. minoritaria; 3.2 Il lungo iter
delle norme complementari. Il Parere del Consiglio di Stato (16
maggio 1996); 3.3 Il regolamento governativo (agosto 1996); 3.4 Il
Testo Unico sugli Enti Locali (D.Lgs. 267/2000) 4. Il nuovo travaglio
normativo ed istituzionale 4.1 L’art. 35 della Finanziaria 2002 4.2 Il
controverso periodo transitorio e le modifiche aggiunte dal d.l.
269/2003 4.3 I servizi pubblici locali privi di rilevanza economica e la
recente sentenza della Corte Costituzionale sulle competenze regionali
in materia.
1. Antefatto: la storia e la crisi del servizio pubblico locale
Per conoscere e comprendere al meglio le ragioni che hanno portato
le guide politiche del nostro paese, nell’ultimo decennio del secolo
scorso, a cercare e ad intraprendere una nuova via nel campo del
12
diritto pubblico dell’economia è necessaria preliminarmente una breve
digressione sulla storia e sulle funzioni del servizio pubblico locale.
1.1 La municipalizzazione dei servizi pubblici.
I servizi pubblici vennero disciplinati per la prima volta in maniera
organica con la legge n. 103 del 1903, presentata dall’allora ministro
dell’Interno Giovanni Giolitti, al fine di affrontare la necessità di
servizi sociali e di disciplinare l’erogazione degli stessi, dando risposta
ai nuovi bisogni della collettività locale, nati a seguito
dell’urbanizzazione e dell’industrializzazione del paese
1
. Per
soddisfare questi bisogni, lo strumento ritenuto più efficace fu la c.d.
municipalizzazione dei servizi pubblici, che attuava l’intuizione (oggi
verrebbe chiamata principio di sussidiarietà) secondo la quale la
gestione dei servizi andasse in primo luogo sottratta alle imprese
private, poco sensibili all’interesse della collettività (in materia di
1
Efficace l’analisi di PIRAS, 1994, p. 10-11: “Sin dagli inizi dell’esperienza
dello Stato liberale le Province e i Comuni assunsero – anticipando
l’intervento dello Stato e valorizzando il loro ruolo di forme di cooperazione
sociale – la produzione e l’erogazione di quei beni e servizi che si rivelavano
necessari per fronteggiare i nuovi bisogni sorti a seguito delle radicali
trasformazioni economiche, urbane e culturali di quegli anni.” Questo
nuovo elemento, secondo l’autrice, trova giustificazione da due diverse
esigenze: “da un lato, l’urgenza di affrontare alcune situazioni di malessere
sociale e, dall’altro, la necessità di contribuire alla modernizzazione delle
città e delle infrastrutture adeguandole alle nuove richieste dell’economia”.
13
investimenti sull’ampliamento dei servizi e di politiche dei prezzi), ed
affidata ai comuni, considerati i tutori naturali dell’interesse dei
cittadini
2
, anche per la migliore prospettiva sui loro reali bisogni. Il
processo di municipalizzazione doveva avvenire con la solenne
procedura di assunzione di responsabilità da parte del consiglio
comunale, che con una delibera sottoposta al giudizio di ratifica degli
elettori doveva predisporre un piano di massima a contenuto tecnico e
finanziario per la gestione diretta del pubblico servizio.
L’organo su cui si puntava principalmente per questo modello di
gestione era l’azienda speciale, organismo “staccato” dall’ente
pubblico e dotato di autonomia amministrativa e contabile, con propria
capacità di compiere negozi giuridici, ma non munita di personalità
giuridica
3
. Ciononostante, vengono previste anche la gestione “in
economia” per i servizi di modesta entità, con la gestione diretta da
parte dell’amministrazione (art. 15 del T.U. 2578/1925), e la
concessione all’industria privata (regolata dall’art. 26 del T.U.
2578/1925). Quest’ultima era l’unica possibilità per i privati di entrare
nell’area del servizio pubblico locale, seppure con una logica di natura
pubblicistica, che inserisce il gestore nell’organizzazione
amministrativa
4
.
2
L’espressione è di LIGUORI, 2004, p. 9
3
Cfr. Art. 2 T.U. n. 2578/1925 e d.P.R. 4 ottobre 1986, n. 902
4
Come rilevato da LIGUORI, 2004, p. 10 - 11
14
Con questo provvedimento si pongono così le basi per lo sviluppo
dell’imprenditoria pubblica locale, essendo risultato evidente che la
presenza pubblica era indispensabile, sia a livello nazionale che a
livello locale, soprattutto dal momento che la gran parte dei servizi
pubblici necessitava di sistemi a rete, che rendevano impossibile dal
punto di vista economico la concorrenza, andando a configurare la
famosa situazione del “monopolio naturale”
5
. Viene inoltre prevista a
questo scopo la possibilità per i comuni di costituire consorzi per
assumere direttamente l’impianto e/o l’esercizio dei servizi inclusi
nell’elenco e considerati di interesse comune (ad es. la costituzione e la
gestione di acquedotti, dell’illuminazione pubblica, delle fognature, di
reti telefoniche, di tramvie, di farmacie, di sistemi di nettezza pubblica,
e così via).
1.2 Il Testo Unico del 1925 e gli sviluppi del dopoguerra
Con il Testo Unico 2578 del 1925, che riordina le diverse norme
successive alla legge 103 del 1903, lo Stato nazionale finisce per
ribadire le già citate modalità di gestione dei servizi pubblici, sempre
non menzionando la forma della società per azioni. Nella sostanza si
5
L’osservazione è di D’OTTAVI, in AA.VV. , La Società per Azioni quale
forma attuale di gestione dei servizi pubblici., 2003, p. 23
15
inizia però a palesare la difficoltà da parte degli enti locali a gestire o
ad istituire reti di servizi pubblici quando i settori richiedono grandi
capacità, siano esse tecniche, manageriali oppure di tipo economico.
Per questo motivo la legislazione nazionale iniziò a provvedere alla
nazionalizzazione di diversi settori, tra cui il servizio telefonico,
l’energia elettrica, il servizio ferroviario, sentitamente cioè dove il
sistema delle economie di scala rendeva preferibile una tale gestione
del servizio. Questa tendenza si acuisce ancora di più nel secondo
dopoguerra, e specialmente durante gli anni 50 e 60, portando lo Stato
centrale a intervenire ormai anche in settori alieni dal fenomeno delle
economie di scala, ed anzi intimamente legati alle realtà locali, come
acquedotti, reti fognarie, depuratori, e portando gli enti locali ad
assumere un atteggiamento di ausiliarietà nei confronti dello Stato
centrale che fa lentamente decadere le capacità gestionali delle
comunità locali
6
.
6
Questo fenomeno è descritto da LIGUORI, 2004, p. 11 - 13
16
1.3 La crisi del servizio pubblico locale, nella più ampia crisi
finanziaria ed istituzionale dello Stato italiano.
A questo punto della nostra analisi, per meglio comprendere il
mutamento successivo al 1990, bisogna ricordare il più vasto contesto
nel quale si colloca la crisi del settore pubblico in Italia, ossia la
generalizzata crisi di un sistema di Stato “pesante”, ormai oberato da
una gestione dei servizi dispendiosa ed inefficiente e da una finanza
pubblica sfuggita da ogni controllo. Di fronte a questa emergenza di
tipo economico, aggravata inoltre da una crisi politica che conduce al
tramonto una classe politica ormai delegittimata, si contrappongono
7
le
tesi dei fautori di un modello liberista, che prevederebbe uno Stato
“minimo” che interviene poco o nulla nell’economia, e le tesi di chi,
pur riconoscendo i limiti ed i problemi del sistema del tempo, ritiene al
contrario ancora attuale ed efficace il modello dello “Stato sociale”,
fornitore di servizi ed attore di primo piano nella vita economica del
paese. Unanimemente si riconosce la necessità del cambiamento.
Nel microcosmo del servizio pubblico locale si possono riscontrare
tutte le contraddizioni e le problematiche già delineate per quanto
riguarda il settore pubblico in generale: le esigenze della collettività si
moltiplicano e si diversificano, ed il servizio pubblico, fondato in
7
Si veda il contributo significativo di CAFFERATA, 1991, p. 447 – 450, che
si trova nella posizione temporale ideale per una consolidazione delle
posizioni in materia.
17
massima parte su aziende speciali, non riesce a fare fronte a queste
esigenze e viene percepito dalla collettività come inefficace; allo stesso
tempo la gestione dei servizi pubblici locali si rivela altamente
inefficiente, andando spesso con le sue perdite ad aggravare i bilanci
degli enti locali, e, a cascata, ad aumentare il fabbisogno statale.
I motivi di questa crisi sono da ricercare nella carenza di
imprenditorialità delle aziende speciali, che porta ad una gestione non
economica del servizio.
8
In particolare, i limiti delle aziende speciali
nella gestione dei servizi pubblici locali possono essere sintetizzati in
alcuni punti, comuni a buona parte delle esperienze in cui il modello si
è rivelato non soddisfacente
9
:
- il troppo stretto legame con l’ente pubblico portava ad
ingerenze di tipo politico sull’azienda in determinate
situazioni; nell’imminenza di scadenze elettorali una buona
scelta aziendale, che potesse però rendere impopolare
l’amministrazione uscente (si pensi ad un aumento del costo
dei servizi), sarebbe stata con buona probabilità impedita;
- la limitazione territoriale per le aziende municipalizzate,
che impediva loro di estendersi oltre il territorio degli enti
8
Cfr. PIRAS, 1994, p. 34-35
9
Tesi condivisa in dottrina. Si veda a questo proposito CAFFERATA, 1991,
p. 447 – 450 e, con diverse sfumature, LIGUORI, 2004, p. 12, che mette in
parallelo, come due forze di trazione, “l’impraticabile assunzione da parte
dello Stato del deficit di bilancio degli enti locali” e “la domanda di qualità
del servizio”, che cresce “con la progressiva caratterizzazione
industrialmente avanzata della società italiana”
18
pubblici ed impedisce sul nascere la realizzazione di economie
di scala;
- limitazione all’esercizio di attività non rientranti nelle
finalità istituzionali dell’ente, il che porta ad una restrizione
del campo di attività dell’azienda;
- preclusione a forme di collaborazione con categorie di
operatori privati;
- limitazioni al finanziamento bancario.
A fronte di una gestione divenuta altamente difficoltosa, ed in un
momento in cui la crisi finanziaria e politica a livello nazionale
impediva di mascherare queste inefficienze tappando con ripetuti
interventi le falle del sistema
10
, si profila un nuovo modello di gestione
dei servizi pubblici locali: la società a partecipazione mista.
10
Si vedano a questo proposito le considerazioni di PIRAS, 1994, p. 34 – 35.
“Il modello di amministrazione incentrato sulla produzione di beni e servizi
a fini redistributivi è entrato in crisi principalmente per due ordini di motivi.
Uno, di carattere politco-culturale legato alla contraddizione tra decisioni di
ampliare il “sociale” e disponibilità a ridurre corrispondentemente l’area
del “privato”.L’altro di natura “fiscale”: da un lato il mancato
adeguamento delle tariffe ai costi di alcuni servizi (nel rispetto di una scelta
di prezzo politico) e dall’altro la configurazione, in alcune ipotesi, della
pretesa al sevizio pubblico quale diritto soggettivo, hanno portato
all’incontrollabilità di alcuni settori di spesa, con il conseguente incremento
del disavanzo pubblico (tipico di tutti i paesi occidentali) e del sovraccarico
fiscale”
19
2. La società a prevalente capitale pubblico locale, la legge
142/90
La soluzione di questi problemi venne da molti indicata nel
passaggio per l’erogazione dei servizi pubblici locali dalla società
speciale di diritto pubblico allo strumento societario di diritto comune,
come la società di capitali; questo appariva auspicabile per un doppio
ordine di ragioni: in primo luogo in quanto ciò avrebbe permesso di
avvalersi di forme di gestione imprenditoriale (cioè basata su criteri di
economicità e tendente al pareggio di bilancio al netto della
remunerazione del fattore manageriale: privatizzazione formale); in
secondo luogo, si sarebbe potuto fare ricorso a capitali di rischio
privati, in modo da ricavare fondi per limitare la spesa pubblica e
risanare il debito pubblico (privatizzazione sostanziale).
Prima del 1990 quest’opzione venne però dibattuta e, prevalsa la
tesi affermativa, la possibilità per gli enti pubblici territoriali di
utilizzare la società di capitali per l’erogazione dei servizi pubblici
locali venne sottoposta a limiti interpretativi
11
. Se infatti in linea
generale possiamo ricavare dall’articolo 11 del Codice Civile (“le
province ed i comuni, nonché gli enti pubblici riconosciuti come
persone giuridiche godono dei diritti secondo le leggi e gli usi
osservati come diritto pubblico”) un generale riconoscimento, salvo
11
Cfr. BUONOCORE, 1994, p. 9 - 10
20
norme contrarie, della capacità degli enti locali di operare nell’ambito
del diritto privato, la giurisprudenza restava comunque divisa sui limiti
da porre a questa facoltà. A fronte della giurisprudenza più aperta del
Consiglio di Stato
12
, secondo cui “la capacità negoziale dei comuni, ivi
compresa quella di costituire società per azioni a partecipazione
comunale, ha carattere generale e non può essere esclusa, salvo
specifiche disposizioni, neppure per le attività istituzionali, fermo
restando l’obbligo del comune di specificare le ragioni di pubblico
interesse che fanno ritenere vantaggiosa l’istituzione di una società
per azioni”, altra giurisprudenza metteva in guardia contro il rischio
dell’elusione dei procedimenti amministrativi e dei vincoli posti agli
enti pubblici a garanzia della trasparenza dell’azione amministrativa,
ad esempio nel procedimento della scelta dei soci
13
. Una situazione di
tale incertezza non rappresentava certo una delle migliori condizioni
per incentivare l’investimento di capitali da parte di un privato.
A compiere una scelta decisa in favore della possibilità per gli enti
pubblici territoriali di esercitare il servizio pubblico tramite una società
per azioni è la legge 142 dell’8 giugno 1990 che, all’art. 22 dispone
che: “i comuni e le province, nell’ambito delle rispettive competenze,
provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto
12
Cons. St., Sez. V, 14 dicembre 1988, n. 818, in Foro Amministrativo,
1988, pagine 3632 e seguenti
13
TAR Puglia, Sez. I, 16 dicembre 1989, n. 581, in Tribunali Amministrativi
Regionali, I, vol. 2, pag. 1194
21
produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a
promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali. I
servizi riservati in via esclusiva ai comuni e alle province sono stabiliti
dalla legge. I comuni e le province possono gestire i servizi pubblici
nelle seguenti forme: […] e) a mezzo di società per azioni a prevalente
capitale pubblico locale, qualora si renda opportuna, in relazione alla
natura del servizio da erogare, la partecipazione di altri soggetti
pubblici o privati”. Nonostante l’espresso riconoscimento compiuto al
punto e), è immediatamente evidente che una previsione così sintetica
e generale
14
, come del resto si confà ad una norma di principio, che
rinvia alla disciplina legislativa di settore ed allo statuto, manchi degli
elementi sufficienti per delineare una disciplina in qualche modo
esaustiva della fattispecie della società per azioni a partecipazione
mista, cosa che, anche alla luce della giurisprudenza precedentemente
riportata, crea in primo luogo problemi nel delineare la procedura da
seguire per la scelta del socio privato, oppure per individuare i limiti
operativi della nascente società
15
.
Ulteriori problemi sono nati dall’interrogativo riguardante la
possibilità per gli enti locali di esercitare i servizi pubblici locali per
mezzo di una società a responsabilità limitata, soluzione questa che
sarebbe particolarmente utile ed efficace per i piccoli comuni, per i
14
Come segnalato, tra gli altri, da CAMMELLI e ZIROLDI, 1997, p. 23
15
Cfr. ACQUAS – LECIS, 2001, p. 14 - 15