5
trattamento giuridico dell’immigrato fosse lasciato alla
mercé della discrezionalità della pubblica
amministrazione.
Da tale momento in poi, dunque, la normativa in tema di
immigrazione ha non solo dovuto assumere rango
legislativo ma si è dovuta inoltre adeguare al minimo
comune denominatore del diritto internazionale pattizio e
consuetudinario.
La norma costituzionale pone però dei problemi:
innanzitutto il Costituente ha peccato di genericità
riferendosi ad una categoria di soggetti molto ampia. Non
è presente nel nostro ordinamento una nozione unitaria
di straniero; per tale motivo risulta quindi complicato, a
livello interpretativo, delimitare l’ambito di applicazione
della norma in esame.
Il termine “straniero”, infatti, può essere riferito sia a
chiunque non sia cittadino italiano ai sensi delle norme
che stabiliscono i modi di acquisto della cittadinanza, sia
a qualunque soggetto cui non siano riferibili i diritti che
la Costituzione espressamente riserva al cittadino, sia al
cittadino straniero, cioè a colui che è considerato
cittadino di un altro Stato.
Risulta comunque più semplice riferirsi allo straniero
come a colui che ha cittadinanza diversa da quella
italiana anche se, in tal caso, è opportuno operare
un’ulteriore distinzione tra stranieri cittadini dell’Unione
6
europea, che godono di una tutela particolarmente
qualificata, e cittadini extracomunitari.
Un ulteriore problema di notevole rilievo riguarda la
individuazione di quei diritti fondamentali che possono
essere riconosciuti non solo ai cittadini italiani, ma anche
agli stranieri.
In sede costituente fu proposto al riguardo l’inserimento
di una norma-catalogo in grado di risolvere tali dubbi, ma
vista l’impossibilità di dedurre con certezza la reale
portata di molti diritti fondamentali, l’idea venne in
seguito abbandonata.
Successivamente si sono pertanto sviluppati in dottrina
due differenti orientamenti.
Da una parte, si sostiene che i diritti esplicitamente
disposti per i cittadini vadano riferiti solo ad essi e, al
contrario, possano essere estesi anche agli stranieri solo
quelli nei quali manchi tale riferimento (A. CASSESE,
Bologna-Roma, 1975; A. BARBERA, Bologna-Roma, 1975;
BALLADORE PALLIERI, Milano, 1970; BARILE, Padova, 1953;
FINOCCHIARO, Milano, 1958)
1
.
Altra dottrina opera invece una classificazione
qualitativamente differente ritenendo, da un punto di
vista sostanziale, che vi siano diritti che possono essere
1
A. CASSESE, Art. 10, in Commentario alla Costituzione, Branca, Bologna-Roma,
1975, p. 497 ss.; A. BARBERA, Art.2, in Commentario alla Costituzione, Branca, p.
117; BALLADORE PALLIERI, Diritto costituzionale, Milano, 1970, p. 396 ss.; BARILE, Il
soggetto privato nella Costituzione italiana, Padova, 1953, p. 51 ss; FINOCCHIARO,
Uguaglianza giuridica e fattore religioso, Milano 1958, p. 82 ss. L’impostazione
prevalente ritiene essenziale il riferimento testuale, contenuto nelle singole
norme, al “cittadino”.
7
propri dei soli cittadini in quanto intrinsecamente
inerenti alla qualità di membro attivo della collettività
statale; altri diritti, invece, che sarebbero da estendere
necessariamente al non cittadino poiché concernono la
tutela di esigenze essenziali della condizione umana o
comunque inerenti alla dignità della persona; e altri
diritti, infine, che sarebbero attribuiti discrezionalmente
dal legislatore ai soli cittadini o a tutti gli individui
(MORTATI, Padova, 1976; MARTINES, Milano, 1994)
2
.
Questa distinzione deve tuttavia sempre essere operata
nel rispetto dell’articolo 3 Cost. che sancisce il principio
di eguaglianza, facendo riferimento in particolare alla
interpretazione secondo cui tale canone fondamentale
non consente di trattare in modo diverso situazioni
analoghe.
È tuttavia evidente che l’esplicito riferimento della
disposizione in esame alla normativa internazionale, e
quindi anche a quella sui diritti umani, fa si che non sia
possibile non riconoscere agli stranieri almeno i diritti
fondamentali propri di ogni uomo, la cui titolarità
prescinde dalla nazionalità individuale.
L’articolo 10 deve quindi essere letto alla luce dell’articolo
2 della stessa Costituzione, che comunque non prevede
tra i diritti inviolabili quello all’ingresso e al soggiorno del
non cittadino. Tali situazioni soggettive devono allora
essere disciplinate a livello di legislazione ordinaria,
2
MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1976, I, p. 1153; MARTINES,
Diritto costituzionale, Milano, 1994, p. 707 ss..
8
ovviamente nel rispetto delle norme che riconoscono lo
status di cittadino europeo e che garantiscono la libertà
di circolazione negli Stati dell’U.E. Parimenti dovranno
regolamentarsi l’ingresso e il soggiorno del cittadino
extracomunitario nel quadro di una vera e propria
politica dell’immigrazione.
Sotto questo profilo, la Costituzione vincola il legislatore
vietando esclusioni arbitrarie e trattamenti
irragionevolmente differenziati, poiché la posizione
giuridica degli extracomunitari ai quali verrà consentito
l’ingresso sarà caratterizzata dall’immediato
riconoscimento dei diritti inviolabili il cui godimento è
garantito a chiunque si trovi sul territorio dello Stato.
Un’applicazione di questi principi si rinviene nella
giurisprudenza della Corte Costituzionale (sent.
n.102/75), che da un lato ritiene necessaria
un’impostazione basata sul caso concreto, e dall’altro
riconosce a tutti i non cittadini i diritti inviolabili che
appartengono all’uomo in quanto essere libero; di
conseguenza viene garantita l’assoluta parità di
trattamento tra i cittadini e tra le diverse categorie di non
cittadini (C. Cost. sent. n.120/67).
Trattamenti diversificati possono essere disposti solo se
sussiste la necessità di operare un bilanciamento con
altri principi dotati di pari tutela costituzionale, oppure in
funzione di un razionale apprezzamento delle differenze
di fatto esistenti tra lo straniero e il cittadino, non
9
essendo ammissibili distinzioni in ragione della razza,
della lingua o della religione (ENRICO GROSSO, Torino,
1999)
3
.
1.2 L’ACCORDO DI SCHENGEN
Le recenti normative nazionali in materia di immigrazione
trovano quindi fondamento nell’articolo 10 della
Costituzione. Prima i analizzarle va però premesso che
proprio in virtù della lettera dell’articolo 10 Cost., esse
hanno come necessario presupposto la normativa
comunitaria.
Il 14 giugno 1985, come noto, venne infatti sottoscritto a
Schengen un accordo tra Germania, Francia, Belgio,
Olanda e Lussemburgo diretto a realizzare uno “spazio
comune” al fine di eliminare progressivamente i controlli
effettuati per il passaggio alle frontiere di merci e
persone. L’Italia aderì a tale accordo nel 1990, seguita poi
da altri Stati europei.
3
E. GROSSO, Straniero (status costituzionale dello), in Digesto delle discipline
pubblicistiche, Torino 1999, Utet, p. 166 ss.
10
Con riferimento al tema della circolazione delle persone la
Convenzione di attuazione del 1990 ha disciplinato la
cooperazione tra polizie e autorità giudiziarie degli Stati
nazionali in materia penale e di estradizione, nonché la
creazione di un sistema di scambio di informazioni e
protezione dei dati personali (SIS).
Sulla base della elementare considerazione per cui la
facilitazione della circolazione avrebbe per certi versi
agevolato anche i traffici illeciti, da un lato si rese
necessaria l’armonizzazione delle discipline nazionali
relative ai visti d’ingresso, per evitare il dilagare del
fenomeno dell’immigrazione clandestina, e, dall’altro, fu
ideato un sistema di coordinamento tra le forze di polizia
dei vari Paesi per conseguire un’intensificazione dei
controlli e per rendere più efficace la lotta alla
criminalità.
Con l’abolizione delle frontiere interne si costituì il
cosiddetto “spazio Schengen”, nell’ambito del quale i
cittadini vennero suddivisi in due categorie: non stranieri
e stranieri ossia, cittadini appartenenti o meno ai Paesi
contraenti.
L’Accordo di Schengen venne successivamente
incorporato nel Trattato di Amsterdam che, entrato in
vigore il 1 maggio 1999, diede vita ad una vera e propria
“comunitarizzazione” della politica dell’immigrazione.
L’Unione, infatti, prese atto che il fenomeno era destinato
ad espandersi e a radicarsi nel territorio europeo, e che di
11
conseguenza, necessitava di considerazione a livello
ufficiale.
Il Trattato di Amsterdam riconosce i diritti fondamentali
della persona previsti dalla Convenzione europea per i
diritti dell’uomo e dalla Convenzione di Ginevra sui
rifugiati nonché quelli derivanti dalle “tradizioni
costituzionali comuni degli Stati membri, intese quali
principi generali del diritto comunitario” (art. 6.2 trattato
U.E.), anche allo straniero, prescindendo quindi dalla
cittadinanza.
La Comunità è competente in materia di visti per
l’attraversamento delle frontiere esterne, mentre gli Stati
conservano competenza in materia di asilo e di
immigrazione.
12
1.3 LA LEGGE MARTELLI
La disciplina della condizione giuridica dello straniero e
della regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno di
questo sul territorio nazionale ha subito, negli anni,
un'evoluzione sicuramente condizionata dalle dimensioni
che il fenomeno immigratorio ha assunto nelle varie fasi
storiche. Sino agli anni '90, infatti, la prevalente
normativa di riferimento era rimasta quella del Testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con
R.D. 18 giugno 1931, n. 773, nonché quella del relativo
Regolamento di esecuzione approvato con R.D. 6 maggio
1940, n. 635.
La possibilità della presenza dello straniero sul territorio
nazionale è stata a lungo intesa come una eventualità
limitata, e gli aspetti critici che potevano sorgere da essa
derivavano esclusivamente da esigenze di sicurezza e di
difesa interna del territorio, tali da comportare una
esclusiva competenza in materia dell'autorità di pubblica
sicurezza.
In questo quadro, la normativa del Testo unico e del
relativo Regolamento di esecuzione si curava
esclusivamente di prevedere le modalità di autorizzazione
del soggiorno degli stranieri e di sanzionare con il
13
meccanismo delle espulsioni e del respingimento gli
ingressi irregolari, non disponendo alcunché riguardo
alla tutela dei diritti ed alla disciplina dei doveri degli
stranieri.
Il primo tentativo del legislatore di disciplinare in maniera
più organica l'immigrazione e la condizione giuridica dello
straniero avviene con il d.l. 30 dicembre 1989, n. 416,
convertito nella Legge 28 febbraio 1990, n. 39 (in
Gazzetta ufficiale, serie gen., n. 49 del 28 febbraio 1990,
c.d. Legge Martelli, dal nome del Ministro proponente).
Tale testo normativo era sicuramente caratterizzato da
una prima presa di coscienza del fenomeno
dell’immigrazione come problema non più di marginale
interesse, ma come tematica che avrebbe, negli anni a
venire, interessato sempre maggiormente la collettività.
Sulla base di tali presupposti, la l. n. 39/1990 si
distingue sicuramente per un evidente tentativo di
riconsiderare il fenomeno immigratorio come fenomeno di
ristrutturazione sociale, piuttosto che esclusivamente
come un problema di pubblica sicurezza.
L'articolo 1 di tale legge, -tuttora in vigore nella versione
modificata ed integrata dalla recente l. 30 luglio 2002 n.
189– contiene la disciplina basilare della materia
riguardante lo status di rifugiato, in precedenza
inesistente nella legislazione nazionale.
Con questa normativa è stata dunque inserita nel nostro
ordinamento, per la prima volta, una disciplina
14
complessiva dell’immigrazione che, da un lato, ha
introdotto la programmazione dei flussi migratori e,
dall’altro, ha disciplinato le procedure amministrative
d’ingresso e soggiorno degli stranieri in Italia.
Pur nella sua portata innovatrice, questo provvedimento
riflette comunque il contenuto di principio espresso dalla
Corte Costituzionale nella sentenza 244/1974 ove si
afferma quanto segue: “l’essere il cittadino parte
essenziale del popolo comporta in capo allo stesso il
diritto di risiedere nel territorio del proprio Stato senza
limiti di tempo ed il diritto di non poterne essere
allontanato per alcun motivo”.
Al contrario, “la mancanza nello straniero di un legame
ontologico con la Comunità nazionale, e quindi di un
nesso giuridico costitutivo con lo Stato italiano, conduce
a negare allo stesso una posizione di libertà in ordine
all’ingresso ed alla permanenza nel territorio italiano, dal
momento che egli può entrarvi e soggiornarvi solo
conseguendo determinate autorizzazioni (revocabili in
ogni momento) e, per lo più, per un periodo determinato”.
La legge 39/1990, cataloga, infatti, i motivi in base ai
quali lo straniero può entrare in Italia e consente
l’ingresso con l’esibizione alla frontiera del passaporto o
di un documento parimenti valido nel rispetto di alcune
formalità. In particolare la normativa richiede la
regolarità del visto (nei casi nei quali venga richiesto) e il
rispetto delle disposizioni sanitarie-assicurative.
15
Coloro che non ottemperano a queste prescrizioni o che
vengono espulsi o segnalati come persone pericolose per
l’ordine e la sicurezza pubbliche nazionale o
internazionale o, perché appartenenti ad organizzazioni di
tipo mafioso, terroristico o dedite al traffico di
stupefacenti, nonché i soggetti manifestamente sprovvisti
dei mezzi di sostentamento necessari o non ammissibili
in base alle disposizioni contenute nell’Accordo di
Schengen, devono essere respinti alla frontiera anche se
muniti di visto (articolo 3, commi 5 e 6 l. 28 febbraio
1990, n. 39).
Per gli stranieri provenienti da Paesi a rischio per
questioni epidemiologiche particolari è invece prescritta
l’esibizione alla frontiera di un’idonea certificazione
riguardante lo stato di salute degli stessi e, in particolare,
l’assenza di malattie infettive (l. Martelli come modificata
dal d.lgs n. 22/’96).
La permanenza in Italia è subordinata all’ottenimento del
permesso di soggiorno così come risulta dall’articolo 4
della legge.
Lo straniero cui è negato o revocato il permesso può
ricorrere al TAR con domanda incidentale di sospensione,
che non è invece ammessa per l’extracomunitario espulso
e rientrato in Italia (art. 5 commi 4 e 6).
La legge consente tuttavia agli stranieri irregolari di
regolarizzare la loro condizione per ricongiungimento
familiare o per offerta di lavoro. Nel primo caso, la
16
concessione della regolarizzazione è subordinata al fatto
che il soggetto sia in possesso di passaporto o di
documento equipollente o di attestazione di identità della
propria rappresentanza diplomatica o consolare in Italia,
che si ricongiunga con il coniuge o con i figli minori, che
disponga di un alloggio idoneo e di un reddito mensile
adeguato al mantenimento della famiglia. A seguito della
regolarizzazione, lo straniero ricongiunto non è punibile
per le violazioni compiute in precedenza, ma questo
beneficio non potrà essere riconosciuto a chi è stato
condannato per un reato che prevede l’arresto
obbligatorio in flagranza, con sentenza anche non
definitiva, o per chi è stato valutato pericoloso. Per
quanto riguarda la seconda delle suddette fattispecie
premiali, ovvero la regolarizzazione per offerta di lavoro la
legge richiede i seguenti requisiti: possesso del
passaporto o di altro documento equipollente e possesso
di una dichiarazione scritta da un datore di lavoro
disposto ad assumerlo immediatamente è regolarmente
per tempi lunghi.
Per quel che concerne la disciplina dell’espulsione
amministrativa la legge Martelli prevedeva all’articolo 7-
quinquies, modificato dal decreto legge n. 22/’96, diverse
ipotesi nelle quali lo straniero irregolare doveva essere
espulso. Sono irregolari coloro che, per entrare in Italia,
hanno eluso i controlli alla frontiera, coloro che non sono
in possesso dei documenti per soggiornare nello Stato o